Disclaimer
Questa
storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
The
Butterfly Effect
Realizzò
di non
trovarsi nel mondo reale, che il suo spirito stava vagando per
molteplici
aspetti del suo inconscio.
Un
inconscio condiviso.
Seokjin
si percepì
trasparente, rarefatto, all’interno dell’ennesimo
ricordo rievocato. Era in
piedi, all’interno di una stanza avvolta nella penombra,
dall’intonaco smunto;
vi albergava il disordine.
Egli
osservava il se
stesso del passato e un'altra figura che discutevano.
L’altro ragazzo
era lievemente più basso; vestiva indumenti vecchi,
strappati in alcuni punti.
Il suo volto emanava odio nei confronti del mondo intero e di se
stesso; la
fronte era corrugata, gli occhi guizzanti di collera e disperazione, le
labbra
contratte in una smorfia di sdegno.
«Smettila
di
piangere!», proruppe quest'ultimo al Jin che aveva di fronte,
«Dimmi come stanno veramente
le cose!»
«Tae…»,
mormorò
l’altro.
«Dimmi che sono nel torto! Dimmi
che devo essere punito! Dimmi che
mi
aiuterai ad affrontare me stesso senza sparire dalla mia vita come hai
fatto
con me e nostra sorella in passato; o quando mi sentivo una merda,
avevo voglia
di morire, desideravo più di ogni altra cosa il tuo affetto,
e mi hai ignorato
proprio in quell’istante!», gridò
Taehyung in preda allo sconforto, con i pugni
serrati e il viso arrossato.
«Mi
dispiace», fu
l’unica cosa che sentì pronunciare a suo fratello.
«Ti
dispiace? Ti dispiace?».
Taehyung gli si avventò
contro, afferrandolo per il colletto della camicia.
«È davvero l’unica cosa che
sai dire? Hai avuto il coraggio di cercarmi dopo anni,
facendo finta che ti importasse qualcosa di me!»
«Tu
sei mio fratello»,
parlò Jin carezzandogli una guancia, «Come
potrebbe non importarmi di te?»
«Bugiardo!»,
urlò il
più giovane, schiaffandogli via le mani, osservando il suo hyung esterrefatto, tentando di mantenere
salde le sue ultime
certezze, assieme alla sua vacillante integrità mentale,
«Sei solo un codardo…
come me, come quel bastardo di nostro padre. Siamo sangue del suo
sangue».
«Credi
che i tuoi
insulti possano cambiare la situazione?»,
controbatté il più grande,
asciugandosi gli occhi umidi con una manica della sua felpa,
«Non posso essere
di parte e condannarti, anche se
sei
nel torto, anche se hai commesso
un
delitto, anche se non sei stato
punito».
Avanzò
di un passo,
portandosi una mano al petto. «Perché ti voglio
bene».
Il
fratello sgranò gli
occhi, e subito la rabbia lo accecò di nuovo.
«Tsk,
certo. Prima di
separarci, per te la tua famiglia era formata solo da me e dai nostri
genitori.
Lei era ancora troppo piccola
perché
fosse degna di essere presa in considerazione, non
è così?». Afferrò
una bottiglia di birra vuota da un ripiano
accanto a lui, e in un impeto di furia la scaraventò a
terra, frantumandola in mille pezzi. «E allora tu cosa
dovresti essere per
me? Te lo dico io: un fottuto estraneo.
Che senso ha raccontarti cosa sto passando in mezzo a questo squallore
in cui
vivo? Chi ti dà il diritto di dirmi cosa è bene o
male fare? Per me puoi anche
sparire dalla mia vita e dimenticarmi definitivamente!»
La
voce di Jin spezzò
il silenzio che ne seguì.
«Sono
stato io a
ridurti così. Perdonami».
L’anima
di Jin,
spettatrice passiva di quelle memorie dolorose, si ritrovò
in un battito di
ciglia ad assistere a sequenze di altri ricordi che proseguivano in
maniera più
celere, come vecchie pellicole cinematografiche dalle quali si erano
riuscite a
ripristinare solo alcune immagini.
Esse
avevano in comune
sempre la stessa tematica, lo stesso peccato martellante che
necessitava di
essere espiato: confronti irrisolti, diverbi, mancanza totale di
dialogo e
comprensione.
Per
un istante egli si
vide all’interno di uno scantinato, paradossalmente
più illuminato. L’atmosfera
e gli oggetti familiari stonavano con il turbine di emozioni nocive che
stavano
sfogando i due fratelli, l’uno sull’altro.
Il
Jin di non molto
tempo prima urlava, si passava le mani fra i capelli, gesticolava,
vinto da
violente emozioni che non poteva controllare. E quella volta respingeva
Taehyung, il quale gli si avvicinava, con un misto di
ostilità e
preoccupazione, per poterlo calmare in qualche modo.
Arrivò
d’un tratto ad
abbracciarlo, dicendogli qualcosa. Jin, dopo aver chiuso gli occhi ed
essersi
beato di quel calore per qualche istante, riacquistò il suo
impeto, spingendo
brutalmente il fratello contro la superficie del muro limitrofo, piena
di
crepe.
Ed
ecco che il suono
stridente di un vetro in frantumi arrivò alle orecchie del
Jin che sognava,
facendolo poi riscoprire dentro la cucina di una casa. Il suo io di
quella
terribile giornata aveva alzato le mani a Taehyung, riverso a terra,
bloccato
dal più grande che lo sovrastava.
Un
pugno, un altro, un
altro ancora; tutti vibrati con una punta di esasperazione sulla
guancia già
esangue del fratello, come se gli volesse impedire di proferire parola.
«Perdonami»,
riecheggiava di nuovo la sua voce, fra un colpo e l’altro.
Quella
parola fu
benzina per il fuoco che avvampava nel petto di Taehyung, ed estinse
l’ultimo
zampillo di autocontrollo che gli rimaneva. Lacerato da nuovi
sentimenti,
sentendosi oltraggiato, fece ruzzolare Jin a terra con abile mossa,
prima di
balzargli sopra.
Aveva
uno sguardo da
forsennato. Sfoggiava un sorriso sinistro, diabolico; pregustava come
una belva
la sua preda prima di divorarla, con quegli occhi sciabordanti di
follia,
collera, desiderio di vendetta.
In
quell’attimo, il Jin
del passato e quello del futuro divennero la stessa persona, e
l’ultima cosa
che egli poté scorgere fu il pugno serrato di Taehyung
scagliato contro il suo
volto.
Sopraffatto
dallo
spavento, Jin si rese conto di trovarsi in piedi, dentro
un’ampia vasca che lo
bagnava fino ai polpacci; era vestito di tutto punto, con un completo
di
velluto marrone, dai riflessi aurei. Dietro di lui vi era un trono
finemente
decorato, d’oro pregiato, e la Pietà di
Michelangelo che si stagliava più in
là. Egli aveva in mano un arco e una freccia;
quest’ultima era messa già in
posizione per essere scoccata contro l’obiettivo che il suo
occhio aperto
individuava.
Taehyung
attendeva
immobile che la freccia facesse il suo corso, mentre osservava Jin con
aria
impassibile da dietro una tenda trasparente che lo avvolgeva e pareva
volerlo
preservare.
Infatti,
nel momento in
cui l’oggetto gli venne indirizzato, il tulle
sembrò divenire marmoreo; lo parò
frantumandolo, rendendo i suoi resti delle chiazze di pittura che si
depositarono in corrispondenza del volto di Taehyung, come sangue
fallace.
E
presto tutto intorno
a Jin perse consistenza, persino la nitida figura del
fratello.
Gli
si materializzò intorno
una stanza molto grande. La riconobbe: era quella in cui aveva vissuto
insieme
alla madre. Stesso arredamento vintage dalle tonalità
bluastre; stesso letto
sul quale egli aveva sperimentato le più intime prese di
coscienza, i pianti più
disperati, dolori incommensurabili; stessa finestra dalle medesime
tende
chiare, che rifulgevano al delicato contatto con i raggi del sole.
Egli
aveva in dosso la
sua camicia bianca preferita e un paio di bermuda.
Era
tutto così
confortevole, naturale; ma Jin
sapeva
di non trovarsi, in realtà, lì. Lo capiva dalle
anomale scalfitture presenti
sulla maggior parte della mobilia, la porta compresa.
Era
opera di lui, di quel ragazzo che
tanto amava e
tanto poco aveva tentato di salvare, che aveva trasformato in un mostro
dal
cuore di ghiaccio.
In
cerca di un minimo
di pace interiore, scoprendo di aver acquisito piena padronanza del
corpo, andò
a sdraiarsi sul letto; mentre osservava il soffitto cianotico,
rifletteva,
cercava di cogliere ogni messaggio,
ogni perché.
I
ricordi di poco prima
avevano due fili conduttori: la presenza di suo fratello e una serie di
confronti con quest’ultimo.
Mai
una dimostrazione d'affetto, mai
una promessa mantenuta: solo rabbia, codardia, invidia, menzogne,
ferite corporee e
psicologiche mai rimarginate.
Così
era sempre stato
il loro rapporto: malsano, fatale.
All’improvviso
prese a
girargli la testa. Le immagini della sua adorata camera si fecero
distorte,
persero la loro consueta forma, si mossero come impazzite fino a
diventare
quasi spirali.
Jin
serrò le palpebre,
cominciando a divincolarsi in cerca di una posizione che potesse
attenuare
quell’orribile sensazione.
Si
sentiva come sopra
una barca, sospinto in ogni dove, in procinto di rimettere o svenire.
«No…»,
parlò
debolmente, stringendo il cuscino terrorizzato, appigliandosi a
ciò che forse gli
avrebbe impedito di finire in una nuova dimensione, «Voglio
restare qui».
Tutto
ridivenne
statico.
Rossa,
brillante,
apparentemente deliziosa era la mela materializzatasi nella sua mano
sinistra,
che un attimo prima artigliava la federa.
Messosi
seduto di
scatto, la gettò impaurito a pochi metri di distanza,
facendola urtare contro
la porta graffiata. Chiuse gli occhi e si coprì il viso con
le mani, tentando
di soffocare i singhiozzi.
«Non
può essere»,
biascicò, «Tu sei morto».
Appena
tornò ad osservare
davanti a sé, notò quella mela posizionata
accanto ai suoi piedi, sopra un
vassoio riposto a terra.
Jin
deglutì e fece un
respiro profondo per mitigare i nervi tesi. Afferrò con una
certa esitazione il
frutto, soppesandolo.
Sospirò.
Senza voler
indugiare troppo, ne addentò un lato.
Preda
di un effetto
subitaneo, fu investito da una serie di allucinazioni. Si
sentì leggero, gli
mancò il pavimento sotto i suoi piedi. Un universo surreale,
dai mille colori,
cominciò a vorticargli intorno, a fargli testare il brivido
di avere
l’immensità eterea ad un palmo dal naso.
Si
lasciò trasportare
da quella marea, sentendosi quasi come un viaggiatore spazio-temporale
di certi
film d’avventura.
I
ricordi che ne
susseguirono appartenevano ad una coscienza, una vita che non era la
sua.
Vide
Taehyung, vestito
di bianco, in una stanza del medesimo colore, seduto su una sedia
scricchiolante; sorrideva ad una videocamera puntata contro di lui che
lo riprendeva, lo controllava. Lui le parlava dirimpetto, talvolta con
espressione vacua, mentre mordeva di gusto la stessa mela.
In
seguito, sotto forma
di sequenze disordinate e moleste, Jin scorse suo fratello in
un’altra camera
più angusta, delimitata da tende di seta; seduto su un letto
dalla struttura
smilza, Taehyung si dimenava, si struggeva per qualcosa. Il suo corpo
visibilmente scarno e disidratato emetteva spasimi, scatti nervosi;
piangeva,
urlava, affondava il viso fra le mani pallide, stringeva queste ultime
a pugno
fino a far sbiancare le nocche.
Tutto
lontano da
occhi estranei, senza qualcuno – o qualcosa – al
quale mentire spudoratamente
mentre mangiava il frutto del peccato.
Di
colpo quel
chiarore venne inglobato dalle tenebre. Fiamme dalle lingue danzanti e
minacciose avvamparono, illuminando l’oggetto dal quale esse
erano nate senza
danneggiarlo: un pianoforte. I suoi tasti avevano vita propria, si
muovevano
come manovrati da un fantasma, producevano una melodia che Jin
riconobbe dalle
prime note.
“Clair
de lune” di
Claude Debussy.
Essa
non anelava, però,
ad alcun corpo celeste, a nessun tenue bagliore o ambiente che potesse
darle un
senso. Il luogo era più semplice, intimo, pieno di
quadretti, strumenti
musicali, spartiti.
Una
luce al neon dalla
varietà cromatica del rosso carminio lo vivacizzò
lentamente. Vi era da un lato
una vetrata all’apparenza poco resistente, che dava alla
strada in cui Jin si
trovava.
Entrò
in scena una
figura incappucciata, barcollante. Prese un sasso da terra e lo
scagliò contro
la lastra vitrea, lasciandovi un foro.
La
melodia svanì subito
dopo, sostituita da suoni caotici, confusi, ovattati. Jin
udì rumori di sirene
della polizia prima di vedere materializzato ancora una volta suo
fratello in
piedi nella sua personale stanza, ad un passo dal precedente letto, di
fronte
ad un dipinto che raffigurava il volto di Jin; era stato realizzato da
Taehyung
stesso con pennellate variopinte che faticavano ad asciugare nella
tela, e
colavano invece copiose su quello stesso volto, macchiandolo.
Taehyung
piangeva
mentre lo osservava, senza muovere un muscolo. Continuava a ripetere
“hyung” con
volto sofferente, provato.
Dietro
di lui, oltre
l’ingresso che dava ad un ambiente luminoso, si stagliava
l’ombra di due ali
imponenti, sciatte, dalle punte acuminate, in corrispondenza della sua
schiena;
preannunciavano un avvenire che si realizzò non appena il
ragazzo voltò le
spalle al dipinto e si addentrò in quel chiarore.
Di
nuovo uno squarcio
temporale.
Jin sgranò
gli occhi. Taehyung non era più solo: sedeva insieme ad
altri cinque
ragazzi suoi coetanei a un tavolo rettangolare.
Uno
di loro sembrava
amministrare quell’incontro: un giovane alto e snello,
dall’aria scaltra e
misteriosa.
L’abitacolo
in cui si
trovavano risplendeva di luci al neon verdastro, le quali
incorniciavano
un’enorme finestra alle loro spalle che dava a una
città all’apparenza
popolosa, gremita di edifici e motel.
Forse
anche loro si trovavano
dentro una sorta di autostello.
Tutti
gli altri ragazzi
avevano il suo stesso stile d’abbigliamento, lo stesso
portamento che rimandava ad
un passato terribile, a traumi condivisibili, emarginazioni sociali.
Colui che
era capotavola reggeva un bicchiere di cristallo contenente un liquido
verdognolo, simile all’assenzio, destinato ad essere bevuto
da qualcuno.
Difatti, quest’ultimo si alzò in piedi e si
diresse verso Taehyung con la
bevanda in mano.
Senza
neanche
porgergliela, gliela portò alle labbra, facendogli
impregnare le narici
dell’odore che emanava e tastare la durezza del materiale tra
i denti. Taehyung
non oppose resistenza: seguì i movimenti della mano del
conoscente e ingerì il
contenuto, come una sorta di rito d’iniziazione.
Il
suo raziocinio
divenne immediatamente offuscato. Dall’esterno, Jin scorse
una serie di scene
del fratello in compagnia di chi era probabilmente diventato la sua
nuova
famiglia.
Con
quei ragazzi
mangiava, dormiva, si ubriacava, fumava, viveva.
Uscivano
soprattutto di
notte; andavano a seminare il caos nei luoghi più malfamati,
commettevano
angherie e atti vandalici.
Molte
volte alcuni di
loro, Taehyung compreso, venivano arrestati e trascorrevano giornate
intere
confinati tra sbarre di ferro; ma erano sereni, ridevano lo stesso, si
facevano
beffa dei loro superiori. Sapevano che li avrebbero prima o poi
liberati, che
gli agenti non avrebbero potuto riferire alcunché ai loro
familiari, poiché
loro non ne avevano.
Erano
belve
sguinzagliate, indomabili, dalla vita vissuta alla giornata, senza
avere come
punto di riferimento alcun principio morale od obiettivo.
E
di nuovo la droga e
l’alcol diventavano i loro rifugi di certe serate; talvolta
anche il sesso
dissoluto.
Il
sorriso malsano di
Taehyung, che sfregiava con un taglierino una superficie imbrattata
mentre
saliva una rampa di scale, dominava la visione di quel ricordo.
Uscì, poi, in
una specie di terrazzo coperto da tende squarciate, che dava alla
città; la
ammirava dall’alto, come se ne fosse il padrone.
Tuttavia,
ogni volta
che scemava la sbronza, sfumavano anche le fasulle sensazioni di
libertà e i piedistalli sopra i quali credeva di aver messo
radici. Tutto
tornava alla cruda e monotona realtà, perdeva i suoi colori
vivaci; il dolore
si ripresentava. Taehyung allucinava figure, forme surreali e falsate;
era
sopraffatto dal malessere e vomitava nel gabinetto del luogo nel quale
si stava
disintossicando.
Jin
vi si riscoprì con
suo enorme stupore. Ebbe improvvisamente pieno controllo del proprio
corpo.
Di
fronte a lui, di
spalle, Taehyung era riverso a terra, accanto a dove stava rimettendo.
Jin
non perse tempo:
esclamato il nome del fratello, gli si appropinquò con
scatto fulmineo.
Chinatosi a fianco a lui, afferrò con una certa irruenza le
sue spalle,
scuotendole, tentando invano di risvegliarlo da quel torpore,
quell’effetto
estatico.
«Ti
prego, torna in
te!», urlava Jin, «Sei un incosciente! Ti stai
ammazzando!»
Taehyung,
rianimatosi
dopo quelle parole, scrollò le spalle, scansando Jin con una
gomitata allo
sterno.
Il
maggiore rovinò a
terra. Non demorse. Nonostante il dolore si riassestò,
pronto ad avvicinarsi di
nuovo; ma nel farlo, il suo corpo urtò la fredda e sporca
superficie di quella
che scoprì essere una cabina telefonica.
Di
Taehyung non vi era
più traccia; Jin era solo in un prato esteso, incolto, nel
bel mezzo della notte,
insieme all’unica fonte d’illuminazione proveniente
dal telefono all’interno
della cabina.
Telefono
che squillava,
vibrava senza sosta.
Egli
non poteva
accedervi, poiché vi erano catene avviluppate intorno alla
costruzione,
serpeggianti in ogni direzione e terminanti in un lucchetto di ferro
massiccio.
Ci voleva probabilmente una chiave per sbloccarlo, ma Jin non ne era in
possesso, e sapeva di non esserne
il
degno proprietario.
Riconobbe
l’allegorica
metafora che stava vivendo. Poggiò le mani sulla teca,
scaricando il peso su
quest’ultima; lasciò che il suo capo cedesse in
avanti, che le meste emozioni
lo travolgessero.
Tutto
era successo a
causa di quel giorno, di quella
dannata telefonata non risposta.
Come
l’effetto farfalla, era
bastato un
piccolo sbaglio, una scelta, a scatenare un inferno di avvenimenti.
«È
colpa mia», mormorò
sentendosi quasi soffocare da un nodo in gola, «Lo so
bene».
Tornò
ad osservare il
telefono.
«So
che sei qui, che la
tua anima non riesce a trovare pace a causa mia… ma non
c’è più niente che io
possa fare per te», ammisero le sue labbra tremanti,
«Sono stato un cattivo hyung».
Notò
d’un tratto, in
mezzo ai lunghi filamenti d’erba, un oggetto squadrato che
emanava un flebile
riflesso da un determinato punto. Giurò di non averlo visto
prima.
Si
abbassò per
scrutarlo: era una polaroid rosata, impolverata ma apparentemente
ancora
funzionante. Il vetro del mirino era illuminato dalla luce della luna
che
filtrava la foschia.
I
suoi occhi brillarono
di stupore; la sollevò da terra, incredulo.
L’ultima volta che aveva visto
quella macchina fotografica era quando era molto piccolo e i
suoi genitori gliel’avevano regalata per una promozione. Da
quell’oggetto erano
uscite tante fotografie di lui e del fratello nei loro periodi felici,
prima
della separazione; tanti paesaggi e momenti che Jin aveva tenuto sempre
nel
cuore.
Momenti,
però, andati fisicamente
perduti, relegati chissà dove.
«Se
potessi…», sussurrò
alla luna, «… tornare
indietro».
Approssimò
l’occhio
destro al mirino per provare a scattare una foto a qualcosa.
Individuato un
punto qualsiasi dello scenario, premette il pulsante.
Il
sole sorse subito
dopo a velocità innaturale, imbevendo l’ambiente
di luce quasi paradisiaca. Jin
poté ammirare quel prato in tutta la sua
sontuosità. Lo circondava un’immensa
foresta, rigogliosa, dai mille colori e piccoli animali, come le
farfalle.
Più
egli si guardava
intorno, più riconosceva che i suoi piedi avevano
già percorso quei sentieri,
anni prima, in compagnia di qualcuno che probabilmente era di nuovo
lì ad
attenderlo.
Non
tardò a proseguire
a passo lesto verso una determinata direzione, poiché
conosceva a memoria
quello spettacolo di vegetazione.
Sapeva
di stare
calpestando lo stesso terriccio umido, gli stessi tralci e fili
d’erba; sapeva
come schivare certi rami e arbusti rinsecchiti, dove mettere i piedi
per
mantenersi in equilibrio.
Era
tutto un déjà-vu.
In
prossimità dello
sbocco della via, Jin cominciò a udire alcune voci. Ne
figurò almeno quattro, o
forse di più, ed erano maschili.
Gli
si manifestò sotto
i suoi occhi un enorme avvallamento del suolo, all’interno
del quale era stata
fabbricata una sorta di piscina agonistica, priva d’acqua e
abbandonata da
tempo. Ospitava sabbia e spazzatura ove le mattonelle acquamarina
formavano gli
angoli; era poi stata vandalizzata con macchie di spray e graffiti, e
rovinata
da piante rampicanti che incrinavano quel materiale.
Proprio
all’interno di
quell’enorme vasca, che stonava con la vergine natura
circostante, vi era
Taehyung, sdraiato su un vecchio materasso. Vestiva abiti
più decorosi.
Intorno
a lui, i suoi compagni d’avventure.
Gli parlavano, gli
sorridevano, gli facevano forza. Uno di loro, lo stesso che gli aveva
fatto
ingerire quella sostanza verde, gli diede un buffetto sulla guancia,
porgendogli poi la mano per aiutarlo ad alzarsi.
Jin
si trovava in un
lasso di tempo posteriore alla telefonata mai risposta. Lo comprese per
via
della presenza degli altri ragazzi al suo fianco, ai quali Taehyung si
era
accodato per fuggire quell’infinita tristezza.
Grazie
a loro il
sorriso tornava a contornare le sue labbra rosee.
Proprio
quella
consapevolezza, che avrebbe dovuto far desistere Jin dal rivelarsi, gli
infuse
un coraggio fuori dal comune. Impugnata la sua cara polaroid,
avanzò verso il
bordo della vecchia piscina, accovacciandosi e portando la fotocamera
agli
occhi. Gli altri continuavano a chiacchierare, ignari della sua
presenza.
Fu
il quasi impercettibile
click dello scatto ad ammutolirli.
Tutti voltarono il capo in direzione di Jin, il quale si
lasciò osservare con
stupore mentre balzava dentro la vasca, diretto verso di loro.
Una
volta giunto di
fronte a Taehyung, che si era a sua volta fatto avanti, lo
scrutò per dei secondi
che parvero interminabili. I lineamenti del suo volto erano certamente
più
innocenti, puerili. Vi era ancora un barlume di curiosità
fanciullesca riflessa
nei suoi grandi occhi color nocciola; ancora una parvenza di perdono
che le sue
labbra potevano pronunciare per assolvere ogni colpa del fratello
maggiore.
Perciò,
sotto il suo
sguardo incerto, Jin tirò fuori dalla polaroid la foto
appena stampata, ancora
offuscata, e gliela porse con mite sorriso.
«Volevi
sempre vedere
per primo com’erano venute», parlò poi.
Deglutì per ricacciare la voglia di
piangere. «Sapevo di trovarti qui: questo era il nostro luogo».
Ancora
il silenzio.
Si
grattò, dunque, la
nuca.
«So
di essere un irresponsabile,
un ritardatario, ma… vorrei stare un po’ con voi.
Posso? Mi… accettate?»
Taehyung
ricambiò
lentamente il sorriso; si gettò poi tra le sue braccia,
quasi
aggrappandosi, com’era solito fare da bambino.
«Ti
stavo aspettando»,
rispose finalmente con la sua voce calda e rassicurante.
Tutto
intorno ai due
prese a risplendere.
Loro
e anche gli altri
ragazzi mangiavano insieme, dormivano, si svagavano; talvolta
combinavano qualche bricconaggine, ma mai rischiosa e perniciosa.
In
Taehyung e i suoi
amici albergava più allegria. La presenza di Jin aveva
mutato qualcosa nel loro
modo di fare; il loro temperamento era differente rispetto a quello che
adottavano nei precedenti ricordi.
La
sua semplice manifestazione
fisica era stata la causa della loro euforia.
Mentre
osservava come
Taehyung infilava due patatine fritte ai lati della bocca per sembrare
un
vampiro, come lanciava una lattina accartocciata dall’alto di
un edificio per
testare la sua forza e giocare a fare il cannoniere, come correva
insieme agli
altri per le strade, come distruggeva da perfetto stronzo vari castelli
di
carte, come si divertiva a gettare i suoi amici nella vasca della sua
piccola
casa e si faceva immergere a sua volta, Jin immortalava quegli attimi
preziosi
di felicità con la sua polaroid. Collezionava memorie,
risanava ferite,
percorreva pian piano un cammino di redenzione.
“Clair
de lune”, la
melodia che Jin amava, giunse di nuovo alle sue orecchie mentre lui e
gli altri
sedevano sulla banchina di un molo; la vasta spiaggia sottostante, dai
granelli
biancastri, dava ad un’immensa distesa d’acqua
cobalto, dalle lievi creste
d’onda cristalline.
Vi
era un tiepido sole
coperto da nuvole rarefatte.
Tutti
stavano in
silenzio, si godevano il suono che provocava l’infrangimento
del mare sulla
battigia e i versi degli uccelli in volo.
Sebbene
quella giornata
sembrasse appena iniziata, Jin comprese di essere probabilmente giunto
alla
fine della sua missione, del suo
viaggio alla ricerca del fratello perduto. Lo intuì
perché non aveva più alcuna
parola da scambiare con quei ragazzi.
Taehyung,
senza dire
una parola, si mise dopo pochi attimi il cappuccio della sua felpa nera
sopra
la testa; s’incamminò poi verso un ponteggio
costruito a pochi metri di
distanza. Nessuno tranne Jin se ne rese conto.
Quest’ultimo
non poté
fare a meno di interpretare quel gesto come la conferma
d’addio che tanto temeva
arrivasse. Tuttavia, non urlò al fratello di fermarsi;
nemmeno quando lo vide
arrampicarsi sulla costruzione che in quella circostanza somigliava
maggiormente ad un trampolino, un oggetto scenico usato da qualche
stuntman. Si
limitò a seguirlo con una certa apprensione.
Una
volta sopra quella
vetta, Taehyung si voltò, prima verso i suoi amici sorpresi,
poi verso di lui.
Il suo sguardo coscienzioso fece venire a Jin le vertigini,
più di quanto non
gliele procurasse quell’altezza.
Si
osservarono intensamente
negli occhi, si compresero senza bisogno di parlarsi. Taehyung gli
sorrise, Jin
ricambiò.
Qualcosa
fra loro era
stato risolto. Potevano essere liberi.
Liberi,
rifletté Jin. In che modo?
Quella
che stavano
vivendo non era la realtà. Taehyung era vivo,
così come Jin: impossibile.
Era
una consapevolezza
che si fece ancora più vivida, pressante, quando Taehyung
gli afferrò con fermezza
una mano.
«Non
avere paura. Guarda
l’orizzonte», gli disse.
Jin
obbedì, sentendo i
battiti del suo cuore accelerare.
«È
ora di svegliarti»,
furono le ultime parole che udì da suo fratello minore prima
di essere sospinto
a compiere quel temibile salto insieme a lui.
Vi
fu il mare sotto i
suoi piedi, un senso di vuoto e leggerezza che lo pervase mentre
balzava, la
gravità che divenne quasi inesistente; e subito dopo,
quest’ultima gli fece
pressione verso il basso a gran velocità, l’aria
briosa gli graffiò la pelle,
il respiro gli mancò.
Sentì
un fragore
assordante, un impatto doloroso con la distesa d’acqua che lo
avvolse fra le sue
spire; gli si gelò il sangue, sentendosi inglobato e privo
d’energie.
La
mano di Taehyung non
teneva più la sua; aveva perso suo fratello. Era solo in
mezzo a quel colosso
della natura.
Andava
sempre più a
fondo, nonostante si divincolasse per tornare a galla.
Quando
però raggiunse
il suo limite, sentì i sensi venire meno; un torpore, una
pesantezza lo invase
e lo costrinse a rilassarsi, farsi trascinare da ciò che in
tutto e per tutto
somigliava al sonno eterno.
*
Jin
riaprì di nuovo gli
occhi, lentamente. Percepì le palpebre intorpidite, insieme
ai suoi arti, come
se fossero stati immobili per diverso tempo.
Si
riscoprì sdraiato
sul letto di una stanzina prevalentemente bianca; gli parve quella di
un
ospedale.
Non
aveva piena libertà
di movimento: sentiva oggetti
tenergli salde le braccia, corpi estranei
bucargli la pelle. Realizzò di non stare nemmeno respirando
l’aria esterna per
via della maschera d’ossigeno che gli avvolgeva il naso e la
bocca.
Fra
tutti i rumori
reiterati di macchinari che udì subito dopo, vi fu anche
quello di passi lesti.
Jin scorse una donna all’ingresso della camera, vestita con
un camice e avente
i capelli legati in una crocchia bassa. Non appena i loro sguardi si
incrociarono, ella sgranò gli occhi.
«È
sveglio!», la sentì
esclamare prima di sparire, presumibilmente in cerca di qualcuno,
«Si è
svegliato!»
*
Dal
diario personale di Kim Seokjin, 26 ottobre 2015, due settimane dopo il
risveglio
Ci
vollero giorni prima che comprendessi il significato di quelle visioni
e cosa
fosse successo al mio corpo.
Ricordai
tutto: la morte di mio fratello, i problemi sorti prima e dopo quella
disgrazia, la mia crescente depressione e la voglia inarrestabile di
raggiungerlo,
stargli di nuovo accanto e mettere fine alle mie sofferenze.
Non
era passato molto tempo dal ritrovamento del corpo di Taehyung,
suicidatosi
nella sua vasca da bagno colma d’acqua; già mi era
balenato in testa il malsano
pensiero di fare overdose di farmaci e sperare di chiudere per sempre
occhio.
Ci
andai vicino. Una volta completamente sveglio, mi narrarono che la mia
bravata
mi aveva mandato in coma, e che avrei rischiato di rimetterci le penne
se non
fosse stato per il mio coinquilino che, rincasato tardi
dall’università, mi aveva
trovato in quel pericoloso stato di assuefazione, con la bava alla
bocca.
Sono
rimasto allettato in ospedale, immobile, per quasi un mese, e le
speranze che
io mi risvegliassi nonostante i tentativi di disintossicazione erano
sempre più
vane.
È
stato proprio in quei giorni che la mia mente ha compiuto quel viaggio
quasi
mistico in tutti quei ricordi e rifacimenti di situazioni vissute.
Ripenso
alla nostra “famiglia”… È
sempre stata un tripudio di fallimenti, causati da
ogni singolo membro, me compreso. Era come un fragile castello di
carte,
destinato a sgretolarsi, cedere.
Io,
Taehyung e nostra sorella, quando eravamo piccoli, ci facevamo sempre
forza a
vicenda contro l’instabilità emotiva ed economica
dei nostri genitori.
Taehyung
condivideva con me la passione per la musica, specialmente per le
melodie al
pianoforte; infatti io, grazie ai pochi corsi che avevo potuto
frequentare,
tentavo di insegnargli a suonare qualcosa. Lui imparava al volo, era
bravo.
Era, inoltre, un artista nato: esprimeva perfettamente le sue emozioni
servendosi di una tavolozza, un cavalletto e una tela per dipingere.
Purtroppo
anche il nostro sogno di restare sempre uniti e di perseguire una
carriera di
quel tipo era andato in frantumi, poiché mia madre aveva
deciso di tenermi con
sé dopo il divorzio.
Nel
periodo successivo seppi pochissimo dei miei adorati fratelli. Mia
madre mi
proibì di andare a trovare loro e mio padre, ed io non ne
comprendevo ancora la
ragione.
Quando
anche lei morì per via di una malattia incurabile,
lasciandomi solo a diciotto
anni appena compiuti, si prospettò per me una vita in
salita, fatta di sangue,
sudore e lacrime, versati tutti negli innumerevoli lavori che ho
intrapreso per mettere da parte qualche gruzzoletto e
frequentare in futuro un'università economica .
In
quel periodo di affanni e stress, non trovai mai il tempo per me
stesso, per
riscoprirmi con le mie passioni, per gli altri. O almeno, non volli
trovarlo,
perché in quel modo avevo sempre la testa satura di pensieri
che nulla
c’entravano con la mia famiglia e certe emozioni.
Temevo
cosa avrei potuto trovare a casa di mio padre se ci avessi rimesso
piede. Non
volevo soffrire di nuovo.
Solo
qualche anno dopo, quando ritrovai il coraggio di mostrarmi a Taehyung
dopo
tutte le sue chiamate da me evitate, seppi dell’inferno che
avevano passato,
dei ripetuti abusi di mio padre nei confronti suoi e di nostra sorella
– poiché
dopo il divorzio aveva perso la testa e si era dato all’alcol
–, della
frustrazione di Taehyung che l’aveva portato a massacrarlo di
colpi e ucciderlo
infilzandolo con i cocci acuminati di una bottiglia di vetro spezzata,
di
nostra sorella che aveva coperto il suo crimine e si era presa ogni
responsabilità dell’azione.
Vi
era astio, rancore nei suoi occhi colmi di lacrime mentre me lo
narrava. Non
rivelò ciò per rendermi partecipe di quella
tragedia, essendo un membro della
famiglia; bensì per rinfacciarmelo, scaricarmi addosso quel
peso emozionale che
mi ero sempre rifiutato di accogliere.
Da
quelle stesse parole capii che mi aveva eluso dalla sua vita, che non
gli
importava più niente di se stesso e di me. Il suo sentirsi
costantemente solo,
snobbato, diverso, pericoloso, lo aveva portato a diventare un
criminale e a frequentare
certe persone.
Sono
stato però io, col mio modo di fare, a portarlo
all’autodistruzione.
Lui
si fidava di me, io volevo dimenticarlo. Lui cercava comprensione, io
ero sordo
ed egoista.
Ti
accorgi di quanto amavi una persona dopo che l’hai persa.
Già. Pensavo a questo
mentre osservavo le pasticche che tenevo in mano, pronte ad essere
ingerite.
Credevo
che quella sarebbe stata la soluzione ad ogni mio malessere, senza
immaginarmi
che, se Taehyung mi avesse visto agire così, avrebbe
sofferto ulteriormente.
Quanto
sarebbe stato più semplice se mi fossi comportato come un
fratello maturo,
dandogli l’affetto che gli mancava senza fuggire o cercare di
coprire le sue
malefatte… Lui non chiedeva neppure tanto: gli bastava la
mia presenza, un mio
sorriso.
Tu
mi cercavi ancora, Tae. La tua anima era ancora inquieta; e sei venuto
a
trovarmi nei miei sogni per dirmi ciò che non hai mai potuto
farmi comprendere
quando eri in vita, per provare a fidarti di me un’ultima
volta.
Spero
di averti reso felice, orgoglioso.
Ti
prometto che renderò giustizia a nostra sorella, e mi
occuperò di tutto il
resto che finora ho temuto di affrontare.
Intanto,
ti chiedo di riposare in pace.
*
Distributore
di carburante della periferia di Geochang, due mesi dopo
Il
rumore di un’auto
che passava per la strada limitrofa piena di pietrisco e si
appropinquava a
quella costruzione spezzò la quiete di quella serata
invernale. Il buio aveva
inglobato la cittadina già da diverse ore.
Kim
Namjoon, uno dei
giovani che lavoravano come benzinai nel distributore, si
alzò con una certa svogliatezza dalla panca su
cui era seduto appena i fari di quella macchina lo
abbagliarono, sistemandosi il giaccone e la visiera del cappello. Si
tolse
dalla bocca il lecca-lecca che stava rosicchiando, più per
sfogo che
per passatempo, e lo gettò nella spazzatura più
vicina.
Prima
che l’auto si
posizionasse parallela agli erogatori, egli si sistemò a
fianco ad essi, pronto
a servire la persona all’interno del veicolo.
Il
finestrino venne
abbassato dopo qualche istante. Al posto di guida vi era Jin, vestito
in maniera
particolarmente elegante che stonava con la pallida cera del suo viso.
«‘Sera»,
esordì Namjoon
al suo cliente.
Jin
non rispose; si limitò a scrutare attentamente le fattezze
di Namjoon sotto lo
sguardo perplesso di quest’ultimo.
Era
lui; era il ragazzo
che aveva visto nei suoi sogni, il leader
di quella banda, colui che aveva fatto ingerire a Taehyung quella
strana
bevanda e che aveva strappato definitivamente le sue ali, portandolo a
compiere
atti di delinquenza insieme a lui e agli altri giovani.
L’aveva
finalmente
trovato.
«È
da un po’ che non ci
si vede», parlò curvando di poco le
labbra in un riso
enigmatico.
Namjoon
sollevò un
sopracciglio.
«Non
ti conosco, e non
ti ho mai visto», asserì stranito.
«Comprensibile»,
rispose Jin, «Potrai non conoscere me, ma avrai certamente
conosciuto mio
fratello».
Gli
mostrò una foto di
Taehyung estratta da una tasca, scattata con la sua polaroid.
Vide
Namjoon sgranare
gli occhi e schiudere lievemente le labbra.
«Sì,
è mio fratello»,
ci tenne a rimarcare.
«Quindi
tu sei quello che
l’aveva abbandonato», commentò
improvvisamente l’altro con aria di sfida.
«Perché
non pensi anche
alle tue infamie?», rimbeccò Jin aggrottando di
poco la fronte.
«Infamie?»,
ripeté
Namjoon sollevando la testa dal finestrino, «Non ho niente di
cui pentirmi e
niente da confessare. Se sei qui solo per questo, puoi levare le
tende».
«Non
me ne andrò finché
non avremo chiarito alcune cose faccia a faccia».
«Non
parlo con persone
di diverso status sociale, che non
comprendono le nostre
condizioni».
«Penso
che, per certi
versi, io e te ci somigliamo. Abbiamo entrambi portato alla morte una
persona,
per esempio», assestò Jin, lasciando Namjoon
visibilmente sorpreso, «A maggior
ragione ritengo che dovremmo risolvere questa questione insieme, in un modo o nell’altro. Non
qui, però».
Passarono
diversi
secondi, percepiti dai due ragazzi uno ad uno, nei quali lì
investì una folata
di vento gelido alquanto brusca e inaspettata.
«Tu
mi odi, non è
così?», domandò Namjoon, una volta
sedutosi nel sedile anteriore, accanto a
Jin, pronto ad essere condotto da lui in ogni dove e a fregarsene degli
eventuali rimproveri dei suoi superiori.
«Mai
quanto io odi me
stesso», fu la risposta dell’interlocutore, che gli
porse senza guardarlo una scatola aperta di
gomme da masticare.
Namjoon
si lasciò
sfuggire un sorriso sornione mentre ne prendeva una.
«Siamo
in due».
©
Alyss Liebert
•••
{Note e
curiosità}
…
Sì, è un “debutto” un
po’ particolare in questo fandom.
Ho
deciso di iniziare a
scrivere sui BTS soffermandomi prima di tutto sul loro universo
fittizio,
ancora in evoluzione. *pensa al webtoon e al libro con le
“notes” e si dispera*
Essendo
attualmente
impossibile scrivere una storia che pretenda di fare luce su questo caos, mi sono lasciata ispirare da varie
teorie, anche confermate inesatte perché comunque degne di
nota per il duro
lavoro di analisi. È il caso di quella da cui ho preso
spunto per scrivere
questa one-shot, che potete leggere cliccando qui.
È una teoria
praticamente smentita, poiché risale ai primi del 2017 e si
basa su ciò che in
quel periodo si sapeva fino alla saga di Wings. Tuttavia, mi ha molto
colpita,
e rimane tuttora una delle mie preferite.
La
teoria sosteneva che
Jin e Taehyung fossero fratelli, e che tutti gli altri membri fossero
nientepopodimeno
che le rappresentazioni dei loro comportamenti ed episodi di vita
(visti negli
MV che conosciamo) prima della tragica fine; eccetto Namjoon,
personaggio
particolare.
Non
ho inserito proprio ogni cosa della
teoria; mi ci sono solo ispirata.
L’ambientazione
è
prevalentemente onirica, imprevedibile (esattamente come le loro
teorie);
perciò il tutto è fatto per essere letto tutto
d’un fiato e compreso nel suo
significato d’insieme, senza soffermarsi per forza su certi
particolari.
Spero
vi sia piaciuta; se
vi va, fatemelo sapere con un commento. ♥
Questa
storia partecipa
alla challenge citata nel prologo. La parola da me sviluppata
è Mono no aware, ossia
“la consapevolezza
della precarietà delle cose, una sorta di nostalgia e
sensibilità verso la
natura transitoria della bellezza e della vita”.
Tornerò
da queste parti
(non so quando perché ho altri deadlines, aiut--) con
qualcosa di più
“realistico” e - perché no? - qualche ship~
Se
volete seguirmi
altrove, trovate i link di tutti i miei profili/fan accounts nella mia
Bio. ♥
Jā
ne,
Alyss
|