La peste nera

di ONLYKORINE
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LA PESTE NERA

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Ho freddo e piango.

Mi sembra di non aver fatto nient’altro da quando sono partita. Quando mio marito è arrivato a casa, il mese scorso, dicendo che era morto anche il falegname, mi sono spaventata. Che ingenua. Quella paura era niente in confronto al terrore che ho adesso.

Quando la vecchia Nuccia aveva predetto la morte del fornaio ho iniziato a preoccuparmi. Voci maligne la volevano strega, ma io non ci avevo mai creduto. Era sempre stata gentile con me. Mi aveva dato consigli per il mio bambino. E quando mi aveva detto di andarmene, l’ho ascoltata. 

Augusto, mio marito è morto tre settimane fa, lasciandomi sola. Sola con il nostro bambino. Mi aveva detto di andarmene, e quando l’ha fatto non si è avvicinato a me, non mi ha dato neanche una carezza, per paura di contagiarmi. Questo male oscuro, nero e malefico, uccide tutti. La chiamano Morte Nera e quando la nominano, si fanno il segno della croce. Mi tocco ancora la pancia. Ti prego, salvami. Ti prego, salva il mio bambino.

Il mio bambino si muove. L’unica cosa che mi dà la forza per continuare a camminare. “Vai lontano.” Diceva la vecchia. “Cammina e non fermarti per nessun motivo.” Aveva detto Augusto. “Non prestare soccorso. Non avvicinarti alle persone malate. Neanche ai bambini.” Era stato doloroso. Doloroso passare davanti ai corpi riversi al bordo delle strade. Vedere la loro sofferenza sui visi straziati, la pelle deturpata. I più già portati via dalla Morte Nera. Era passata prima di me.

Arranco su questo sentiero. Sono stanca e ho fame. Nel fagotto di stoffa, insieme all’anello di Augusto avevo portato del cibo, ma l’ho quasi finito. Ho ancora una mela. Cerco di farla durare il più possibile. Non so quando potrò ancora mangiare qualcosa.

Un altro passo mi porta più lontano. Lontano dalla mia casa, dalla mia famiglia, dalle persone che conoscevo e che ora non ci sono più. Mi accarezzo ancora la pancia. Potrei non farcela. Solo per te sto facendo tutto questo. Solo tu mi hai tenuto in vita. Tu mi dai la forza, piccolo mio.

All’improvviso, dopo ore di desolati paesaggi di campagna, vedo un piccolo casolare. Poco più di un rifugio. Mi avvicino con cautela, sembra abbandonato. L’erba incolta è cresciuta fin davanti alla porta di ingresso. Qui non c’è nessuno e da un po’. Il chiocciare di una gallina mi arriva alle orecchie. Possibile? Giro intorno alla costruzione per guardare dalle finestre. Tanta polvere. Il cortile dietro è un piccolo spiazzo e c’è effettivamente un pollaio. Una gallina corre dietro al pozzo, seguita da tre pulcini. Sorrido per la prima volta.

Entro in casa dalla porta sul retro e perlustro le poche stanze. Nessuno. La costruzione è abbandonata. C’è un giaciglio sopra il soppalco. Una stufa a legna. Niente mi è mai sembrato così bello. Non morirò di freddo. Non morirò di fame.

Piango ancora. Per Augusto, per Nuccia. Per tutti. Piango mentre in me si pianta il seme della speranza. Forse non morirò.

 





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