LA
VERITÀ
SU INGEBORG BARROW
Capitolo 1
Il telefono emise uno squillo.
Senza abbandonare la contemplazione delle immagini che stavano
scorrendo sul monitor, meccanicamente James Donovan, della Donovan
Enterprises, allungò la mano, premette il pulsante del viva voce e
scandì il proprio cognome.
“Buona sera,” giunse
dall’altra parte del filo. Era una voce maschile profonda e ruvida,
che faceva pensare a un uomo corpulento, probabilmente con una folta
barba e la salopette di jeans. “Sono Nielsen.”
“Ah, Nielsen,” lo interruppe
l’altro, “volevo proprio chiamarla. Come stanno andando i
lavori?”
Alla domanda seguirono alcuni
secondi di silenzio, poi l’uomo, in tono vagamente esitante,
rispose: “È proprio di questo che volevo parlarle, signor
Donovan.”
L’imprenditore aggrottò le
sopracciglia. “C’è qualche problema? Eppure mi aveva detto che
il materiale andava bene.”
“Certo, signor Donovan,”
giunse l’imbarazzata risposta, “il materiale è di prima qualità,
non si potrebbe dire male di quella roba neppure volendo, ma...”
“Ma?”
“Ma vede… uno dei ragazzi è
in malattia, un altro deve sposarsi...” L’uomo tacque, quasi
aspettandosi che Donovan traesse le conclusioni al posto suo.
L’imprenditore rimase in
silenzio.
Dopo qualche secondo, l’altro
riprese: “E quindi, lei capisce che con così pochi uomini non
posso certo proseguire il lavoro.”
“Mi pare che avessimo un
accordo,” fu la risposta, pronunciata in tono tagliente.
“Sì, ma vede… le malattie
sono imprevedibili, no?”
“Assuma qualcun altro. Con i
soldi che le sto dando, non dovrebbe avere problemi.”
“Glieli restituirò,” gli
assicurò subito l’uomo. “Del resto, col poco che siamo riusciti
a fare finora, non mi sentirei a posto con me stesso se le chiedessi
qualcosa.” Fece una pausa, poi in tono accorato aggiunse: “Davvero,
signor Donovan, lei mi dica solo dove devo farle arrivare il bonifico
e siamo a posto.”
L’altro aggrottò le
sopracciglia e replicò: “Senta, Nielsen, io non ho tempo, capisce?
Ho soldi, ma non ho tempo e ho scelto lei proprio perché in tutta
St. John i suoi ragazzi sono famosi per come si danno da fare. Ho
bisogno che quei lavori vengano portati a termine entro una certa
data, altrimenti avrò un sacco di problemi.”
Ci fu un lungo silenzio, poi
l’uomo rispose: “Ecco, signor Donovan, credo che proprio non sia
possibile.”
L’imprenditore abbatté il
pugno sulla scrivania come se l’altro fosse stato seduto di fronte
a lui, quindi in tono sempre più duro replicò: “Come sarebbe a
dire che non è possibile? Io l’ho pagata in anticipo, ho comprato
tutto il materiale. Mi sta piantando in asso perché ha trovato
qualcuno che la paga di più, per caso?”
Ci fu di nuovo una sofferta
pausa, infine Nielsen si limitò a rispondere: “Mi dispiace davvero
tanto, signore, ma temo di non poter finire quel lavoro. Mi faccia
sapere dove devo mandarle i soldi.” Aveva uno strano tono cauto,
come se ci fosse qualcosa che in qualche modo lo impensieriva.
“Ehi, aspetti un momento...”
cominciò Donovan, ma gli rispose solo il segnale di linea libera.
Imprecando, chiuse la
comunicazione. “Tenuta del cazzo,” ringhiò fra i denti, “solo
problemi. E la fottuta banca non ci metterà un attimo a riprendersi
indietro tutto, se non sarà pronta in tempo.”
Tornò al monitor, sul quale
stavano ancora scorrendo le immagini di una monumentale villa antica,
immersa in una vegetazione lussureggiante in cui si distinguevano
palme, buganvillee ed enormi frangipani coperti di fiori bianchi e
gialli. Il cielo era di un azzurro perfetto, punteggiato qua e là di
esili nubi candide. All’orizzonte, dietro le alture coperte di
vegetazione, correva la striscia verde e turchese del mare.
Emise un sospiro a metà tra lo
sconsolato e l’infastidito. Una tenuta magnifica, in un posto da
sogno, comprata praticamente per quattro soldi. Acri e acri di
terreno, su cui il progetto prevedeva la realizzazione di due
piscine, campi da tennis e anche un bel campo da golf. Una villa
immensa, a due piani, tutta in pietra, risalente all’epoca della
colonizzazione danese. Varie costruzioni satelliti, nelle quali
avrebbero trovato la loro collocazione bungalow, sale da cerimonia,
palestre e addirittura una spa.
Tutto questo, naturalmente, a
patto che un’impresa edile portasse a termine i primi fondamentali
lavori.
Lanciò un’occhiata velenosa al
telefono, come se dall’altra parte del filo il signor Nielsen
avesse potuto vederla e sentirsi in colpa: arredatori d’interni,
garden designer, camerieri, animatori, istruttori, un maître di
sala, due chef e persino un sommelier parigino erano in attesa di
mettersi in moto, come ruote di un grande ingranaggio, ma se non
partiva la prima delle rotelle, ovvero i lavori in muratura, tutte le
altre erano destinate a rimanere desolatamente ferme.
Si alzò dalla scrivania con un
gesto brusco, spingendo indietro la sedia con tale forza che essa
sbatté contro lo schedario, producendo il rimbombo cavernoso di un
contenitore desolatamente vuoto. Le fottute rotelle dovevano
cominciare a girare, e in fretta anche, perché se no la banca si
sarebbe ripresa tutto il finanziamento che gli aveva mollato, con
tanto di interessi.
Dalla terrazza panoramica del
ristorante, James Donovan lanciò uno sguardo all’oceano, che a
quell’ora cominciava a farsi di un blu-grigio scuro sotto un cielo
color cobalto, quindi tolse l’orchidea ornamentale dal suo Mai Tai
e la lasciò cadere nel portacenere, dove si trovavano già tre
mozziconi di Lucky Strike senza filtro. Fatto questo, imboccò la
cannuccia e sorbì una buona metà del drink.
Lo riappoggiò sul tavolo con una
smorfia di disgusto. “Troppa mandorla,” sentenziò, “sembra di
bere l’orzata di mia nonna.”
L’uomo che sedeva di fronte a
lui bevve un sorso del proprio drink, un Blue Angel che sembrava
uscito dal laboratorio di uno scienziato pazzo, quindi rispose:
“Avresti dovuto fare il barman, invece dell’imprenditore.”
Donovan aggrottò le sopracciglia
e rivolse all’amico uno sguardo torvo. “Che cosa vorresti dire?”
L’altro alzò le spalle. “Non
è che ultimamente ti sia andata molto bene, no?”
Il primo fece un sorrisetto di
superiorità. “Le cose stanno cambiando.”
“Davvero?”
“E se ti dicessi che ho messo
le mani su una tenuta ai Caraibi?”
“Coi prezzi che hanno? È un
investimento che non consiglierei nemmeno a un petroliere arabo.”
Donovan alzò le spalle come se
avesse già sentito quelle obiezioni decine di volte e le
considerasse dalla prima all’ultima prive di valore. Tirò fuori il
telefonino e aprì la galleria delle foto, quindi girò l’apparecchio
con lo schermo verso l’amico. “Guarda qui.”
L’altro emise un fischio di
meraviglia.
“Pagata meno della villetta di
mia zia a Fort Lauderdale.”
“Stai scherzando?”
Donovan scosse la testa e
rispose: “Praticamente regalata. Potevo lasciarmela scappare?
Adesso la sistemo, ci faccio un resort da ricchi e sto ad aspettare
che i soldi mi piovano in mano.” Fece una pausa, poi precisò:
“Bevendo Mai Tai decenti, finalmente.” Rivolse uno sguardo di
disapprovazione al proprio drink e lo finì quasi con l’aria di
fargli un favore, poi spinse lontano il bicchiere vuoto e si accese
una sigaretta.
Si voltò di nuovo verso
l’oceano, che a quel punto era diventato una nera distesa
d’ossidiana, rischiarata qua e là dai riflessi delle luci dei
ristoranti, ed emise un sospiro di soddisfazione. “Basta con le
casette da ristrutturare e gli all you can eat finti giapponesi,”
disse con aria sognante, “questa volta faccio il colpo grosso,
questa volta mi sistemo.”
“Beh, amico, sono contento per
te,” rispose l’altro. Finì a sua volta il drink e alzò il
braccio per chiamare la cameriera. “Spero che mi inviterai a fare
le vacanze là, qualche volta.”
“Puoi scommetterci.”
“Gratis?”
“Certo.” Fece una risatina.
“Dovrai pagarti solo le donne. Quelle non te le passo io,
altrimenti vado in bancarotta.”
A quel punto, squillò il
telefono di Donovan. Ancora immerso in immagini di sogno, questi
accettò la chiamata senza nemmeno preoccuparsi di sapere da chi
provenisse.
“Pronto?” disse in tono
professionale.
Dall’altra parte una profonda
voce maschile, sicuramente di un nero, con l’accento delle isole
chiese: “Il signor James Donovan?”
“Sono io.”
“Ecco… sono Franklin, della
Franklin and Brown. Telefonavo per quella proposta che mi ha fatto
l’altro giorno.”
Donovan annuì. “Certo. Quando
potete cominciare? Non ho molto tempo.”
Ci fu un lungo silenzio, quindi
la voce disse: “Ecco, signor Donovan, veramente chiamavo per dirle
che non possiamo accettare.”
L’imprenditore aggrottò le
sopracciglia. “Cosa? Ma siete l’impresa edile più grande di St.
John o no?”
“Sì, beh… è che ultimamente
abbiamo qualche problema con un lavoro per cui siamo in ritardo.
Pagato in anticipo, capisce? Dobbiamo assolutamente finirlo in tempo
e tutti gli uomini mi servono lì.”
Donovan si guardò intorno
furente, come per sorprendere il responsabile di tutto quanto seduto
a un tavolo del ristorante intento a godersi lo spettacolo. Alla fine
rivolse un’occhiata truce anche sull’amico, che si limitò a
stringersi nelle spalle.
Egli rivolse allora nuovamente
l’attenzione al telefono e in tono inquisitorio minacciò: “Devo
far venire una squadra dal Continente, è questo che vuole?”
Lapidaria, giunse la risposta:
“Le consiglio di farlo, se ha intenzione di fare dei lavori a
Christineberg.”
“Cosa? Ma perché? Io la pago
una volta e mezzo il pattuito, se necessario, la pago il doppio!”
Ci fu una pausa che accese nel
cuore di Donovan una fiammella di speranza, ma subito dopo arrivò
una doccia fredda a estinguerla brutalmente: “No, mi dispiace. Temo
di non poter proprio accettare.”
“Mi può dire il perché,
almeno?”
“Gliel’ho già detto:
dobbiamo portare a termine un lavoro e tutti gli uomini mi servono in
quel cantiere.”
“Ma il lavoro sapeva di doverlo
portare a termine anche quando l’ho chiamata due giorni fa, o se
n’è accorto ieri?”
Seguì un silenzio imbarazzato.
“Allora?”
“Mi dispiace, signor Donovan,
proprio non possiamo.”
La comunicazione si interruppe.
“Ma vaffanculo!” imprecò
l’imprenditore con sentimento, facendo girare qualcuno degli
avventori. “Vaffanculo, mi capita il colpo grosso, le banche mi
mollano i soldi e rischio di perdere tutto perché non trovo degli
stronzi che vogliano andare a fare i lavori là dentro. Li pago il
doppio, gli scarrozzo là tutto il materiale, a momenti gli faccio
anche i pompini, e loro niente! E non si capisce per quale cazzo di
motivo.”
“Qualche tuo concorrente può
averli pagati per metterti i bastoni fra le ruote?” propose
l’amico.
“E che ne so. La tenuta era in
vendita, se qualcuno la voleva poteva anche farsi avanti prima di
me.”
“Magari aspetta che tu te lo
prenda in quel posto per comprarla da te a un prezzo ancora più
basso.”
Donovan strinse i denti e incupì
ulteriormente lo sguardo, quindi ringhiò: “Lo stronzo che mi sta
addosso non potrà mica essersi pagato tutte le imprese edili della
Florida, dico bene?”
La prima cosa che Donovan fece il
mattino dopo fu farsi dare la lista di tutte le ditte di costruzioni
di Miami e scorrerla attentamente. Ne trovò una che apparteneva a un
certo Borowicz e subito visualizzò un tizio grande, grosso e
corpulento, con il casco giallo da cantiere e il doppiometro che gli
spuntava dalla tasca posteriore dei pantaloni.
Compose il numero di telefono
associato al nome.
“Borowicz Costruzioni,”
annunciò semplicemente una voce dall’altra parte del filo.
“Senta, qui è Donovan, della
Donovan Enterprises. Lavorate anche in trasferta?”
“Anche al Polo Nord, basta che
ci mettiamo d’accordo sulla tariffa.”
“Proprio quello che volevo
sentire. Possiamo incontrarci?”
“Venga in cantiere.” Seguì
l’indirizzo.
“Va bene fra un’ora, signor
Borowicz?”
“Mi chiami Len. E ora scusi, ma
ho da fare.”
Donovan chiuse la comunicazione
ed emise un sospiro di sollievo: finalmente un tipo come piaceva a
lui, pragmatico, spiccio e di poche parole. Era stato perfettamente
esplicito: il problema della trasferta era solo il prezzo, niente
giri di parole, niente allusioni, niente silenzi lasciati a penzolare
come calzini stesi per far sì che fosse l’interlocutore a dire le
cose come stavano.
Niente stronzate, per riassumere.
Controllò la posta sul computer
e vide che c’era una mail della banca. Con modalità decisamente
opposte a quelle del signore con cui aveva appena conferito, il
direttore gli chiedeva come stessero procedendo i lavori.
Giusto alla fine, quasi tra un
convenevole e l’altro, saltava fuori la storia del tempo che stava
per scadere. Qualcosa del tipo: nel
malaugurato caso che… ci vedremo costretti a…
Il tutto naturalmente spacciato
come l’Ineluttabile, al quale la banca si sarebbe giocoforza dovuta
piegare.
A mezza voce, Donovan ghignò:
“Stavolta i miei soldi non te li becchi, stronzo.”
Che poi erano i suoi, di soldi, o
per meglio dire della banca, ma in ogni caso adesso servivano a lui e
non aveva la minima intenzione di restituirli.
Si allungò sullo schienale della
sedia malandata, incrociò le braccia dietro la testa e meditò se
nel lasso di tempo che mancava al colloquio con Borowicz avrebbe
fatto in tempo a mandare a prendere caffè e ciambelle dal negozio
all’angolo.
“Prima il dovere,” si impose,
e compose il numero dell’architetto, per portarlo con sé al
cantiere.
Borowicz era un po’ meno peloso
di un orso, ma probabilmente aveva le braccia più grosse e quando
strinse la mano a Donovan gli fece scrocchiare tutte le ossa.
“Di che lavoro si tratta?”
chiese senza preamboli. Si tolse il casco giallo, rivelando capelli
brizzolati rasati quasi a zero.
L’imprenditore si guardò
intorno: erano nel mezzo di un cantiere in piena attività, con
escavatori che rombavano a poca distanza, betoniere che impastavano
cemento, martelli pneumatici che sgretolavano muri e uomini che si
urlavano l’uno con l’altro ordini e indicazioni. “Non c’è un
posto più tranquillo?” chiese.
L’altro lo fissò come se messo
di fronte a un mucchio di neve gli avesse chiesto se per caso non
c’era qualcosa di più bianco, tuttavia disse: “Andiamo nel mio
ufficio.” Senza attendere risposta si incamminò verso una baracca
di prefabbricato collocata un po’ in disparte, accanto a una fila
di cessi chimici di plastica blu e gialla.
Una volta che furono dentro,
Borowicz ripeté: “Allora, di che si tratta?”
Donovan scambiò un’occhiata
con l’architetto, poi rispose: “Ristrutturazioni. Consolidamento
di una costruzione antica, alcune modifiche della planimetria.” Gli
porse il tablet che l’architetto si era portato dietro. “Le
immagini sono tutte qui.”
L’uomo ignorò lo strumento e
chiese: “Antica, quanto?”
“Seconda metà del settecento.”
Borowicz emise una specie di
grugnito di disappunto, poi prese a brontolare: “Muri in sasso,
malta che non tiene più, travi tarlate. Un casino.” Si passò la
mano sulla testa con fare pensoso, quindi chiese: “Dove sarebbe,
questo posto?”
“St. John.”
“Mai sentito. Sarebbe una
specie di convento?”
“No, veramente parlavo
dell’isola di St. John.”
L’uomo aggrottò le
sopracciglia e per qualche secondo sogguardò sia lui che
l’architetto, come temendo uno scherzo di cattivo gusto. Infine in
tono asciutto rispose: “Mai sentita.”
“Isole vergini americane.
Caraibi.”
Borowicz si rimise in testa il
casco e raddrizzò le spalle, quindi incrociò le braccia poderose
sul petto. Si vedeva che era assorto in calcoli. “Le verrà a
costare qualcosa,” sentenziò infine.
Donovan annuì. “Lo so, ma ho
bisogno che il lavoro sia finito prima possibile.”
“E perché non ha contattato
una ditta locale?” Il tono aveva una vaga nota di diffidenza.
L’imprenditore, già ben
disposto dopo la telefonata e ancora più positivamente colpito dai
modi determinati e rudi dell’uomo, aveva pensato sulle prime di
dirgli tutta la verità, ovvero che la sua era la terza impresa che
interpellavano e che le altre due si erano praticamente volatilizzate
senza dare spiegazioni, ma un’occhiata dell’architetto lo
convinse a rispondere: “Vogliamo che il lavoro sia fatto come si
deve, signor Borowicz, lei mi capisce.”
“Le ho già detto che può
chiamarmi Len.”
“Solo che lei mi promette di
chiamarmi James. Allora, accetta?”
“Fammi fare due conti, James.”
Donovan appoggiò premurosamente
il tablet sul piano di una scrivania ingombra di carte e cominciò a
far scorrere le immagini. “Questa è la villa principale, vede?”
disse mostrandogli un enorme edificio nello stile del tardo
settecento, circondato da vegetazione. Seguirono poi foto di edifici
più modesti, alcuni lunghi e stretti, altri a pianta quadrata,
infine uno grande, a più piani. “Questa era la distilleria del
rum,” intervenne l’architetto.
Borowicz lo fissò aggrottando le
sopracciglia.
“Il distillatore a piatti c’è
ancora,” proseguì l’altro, “vorremmo valorizzarlo,
capisce?”
Per tutta risposta, Len si
rivolse all’imprenditore e disse: “James, io sono all’antica.
Fammi avere i progetti su carta e poi torna qui domani, così
possiamo discutere i particolari della faccenda.”
“Pensi di accettare?”
“Se ti andrà bene il prezzo
che ti proporrò, non vedo perché non dovrei. Uomini ne ho a
sufficienza.”
Senza riuscire a trattenere un
sorriso, Donovan rispose: “Senza esagerazione, Len, mi salvi la
vita. Saremo sempre in contatto via videochiamata, se avrai bisogno,
e in ogni caso io verrò a vedere come stanno andando le cose una
volta alla settimana.”
“Ne parliamo domani, James.”
Donovan si allontanò dal
cantiere praticamente fluttuando a mezz’aria. Si accese subito una
sigaretta e per un po’ si limitò a passeggiare con l’aria di chi
ha appena saputo che la risonanza con cui gli avevano diagnosticato
una grave malattia apparteneva in realtà a qualcun altro.
“Stasera andiamo a cena,”
disse all’architetto, in un impeto di amore universale.
Questi lo fissò serio. “Non
preferisci andarci con la tua donna?”
Donovan finì la sigaretta e fece
un gesto sprezzante, che utilizzò per buttare anche il mozzicone,
quindi rispose: “No, macché donna. Abbiamo un sacco di faccende da
discutere, tu ed io.”
“Del tipo?”
L’altro si accese la seconda
sigaretta, aspirò una lunga boccata ed esalando il fumo rispose:
“Faccende di lavoro. La ristrutturazione partirà a breve, dobbiamo
andare sul posto, avviare tutto quanto. Accertarci che il tuo
distillatore non finisca in una discarica come ferro vecchio.”
“Veramente sarebbe di rame.”
“Allora che non finisca
rivenduto a peso.”
Nel frattempo erano arrivati alla
macchina. Donovan fece scattare la sicura, quindi si sedette al posto
di guida e chiese: “Dove ti va di andare? Non giapponese, però,
ormai mi dà la nausea.”
L’architetto alzò le spalle.
“Il pesce crudo va bene per le foche. Devo chiamare anche Austin?”
Al pensiero del gelido
collaboratore, Donovan si rabbuiò. Scosse appena la testa e rispose:
“No, lascia stare. Non penso che darebbe chissà che contributo
alla serata. Lasciamolo a occuparsi dei casini che abbiamo scoperto
nella contabilità della Steakhouse di Rodriguez.” Aspirò di nuovo
dalla sigaretta e mise in moto, quindi, quasi in tono di
giustificazione, soggiunse: “È come il signor Wolf di Pulp
Fiction: risolve problemi, ma con quella sua fottuta mania della
precisione, mi sembrerebbe di essere a cena con un professore che
alla fine mi deve dare il voto.”
“Ok, lasciamolo perdere,
allora.”
§
Il caldo umido dei Caraibi faceva
appiccicare i vestiti alla pelle, il sole scottava. Il cancello di
Christineberg si aprì cigolando sui cardini e rivelò un giardino
ormai incolto, ma ricco di piante cariche di fiori. Vi era uno
spiazzo lastricato un po’ sconnesso, con fili d’erba che
spuntavano tra le pietre, al centro del quale si trovava una fontana
secca, che un rampicante stava pian piano inglobando. Alberi solenni
crescevano tutt’intorno.
Oltre la pavimentazione si ergeva
la monumentale dimora padronale. La facciata bianca, che l’umidità
aveva spruzzato nelle zone più ombrose di muffa grigiastra, era
chiazzata qua e là del porpora acceso delle buganvillee. Gli infissi
conservavano ancora qualcosa della vecchia vernice azzurra.
Vialetti parzialmente invasi
dalle erbacce scomparivano nella vegetazione.
Vi era un silenzio assorto, rotto
soltanto da un vago cinguettare d’uccelli lontano.
“Che te ne pare?” esclamò
Donovan. “È o non è una bellezza?”
Come sua abitudine, Borowicz
incrociò le braccia sul petto e dedicò alla costruzione una lunga
occhiata dal basso verso l’alto. “Sembra solida,” proferì alla
fine.
“Fino a qualche anno fa era un
museo.”
“Un museo? Qui?” L’uomo si
guardò intorno lasciando significativamente scorrere lo sguardo
sulla natura apparentemente incontaminata che li circondava.
“Sì, roba sulle antiche
piantagioni. Sembra di essere in culo al mondo, ma hai visto anche tu
quant’è vicina Cruz Bay: i turisti delle navi da crociera ci
venivano a frotte, qualcuno addirittura anche a piedi, facendo
trekking.”
“Perché adesso non ci vengono
più?”
Donovan alzò le spalle con
noncuranza, quindi rispose: “Il museo ha chiuso.”
Borowicz di nuovo si guardò
intorno, poi si terse con un fazzoletto il sudore che gli stava già
rigando la faccia e domandò: “Perché ha chiuso?”
“E che ne so? Si vede che
nonostante tutto non rendeva.”
“Perché l’hanno svenduta per
due soldi, invece di farci il resort che vuoi fare tu?”
Donovan, che cominciava a
spazientirsi di fronte a tutte quelle domande, in tono sbrigativo
rispose: “Che ti frega, Len? Adesso è mia, e tra sei mesi si
trasformerà in un’autentica miniera d’oro.”
“Non che siano fatti miei,”
proseguì comunque l’uomo, “perlomeno finché mi paghi quanto
abbiamo concordato, ma non è che su questo posto c’è un’ipoteca?”
L’imprenditore fece un
sorrisetto di superiorità e rispose: “Di muratura potrò anche non
sapere niente, ma sono anni che mi occupo di affari. Ho un avvocato,
qui, che ha curato tutta la faccenda per me. La proprietà è a
posto.”
“Hai fatto fare dei rilevamenti
geologici? Magari scopri che te l’hanno praticamente regalata
perché è su un terreno instabile.”
“È tutto a posto, Len. Ho
avuto una botta di culo, tutto qui. Potrò avere una botta di culo
anch’io nella vita, o no?”
Senza attendere risposta, Donovan
si incamminò verso il portone d’ingresso della villa, quindi
trasse di tasca un mazzo di chiavi, ne scelse una e la infilò nella
toppa. La serratura scattò docilmente e l’anta si schiuse. Nello
stesso momento, Borowicz si girò di scatto e disse: “Chi c’è?”
“Dove?” chiese Donovan
guardandosi intorno. “Di chi stai parlando?” Lanciò un’occhiata
ai due furgoni che aspettavano al cancello, ma nessuno degli uomini
di Len sembrava intenzionato ad abbandonare l’aria condizionata in
favore dei cento e passa gradi[1] dell’esterno.
Nel frattempo, l’altro
continuava a gettare tutt’intorno sguardi diffidenti. Dopo un po’,
una specie di pappagallo colorato si levò in volo con uno strido,
facendo sobbalzare i due. “Ah, è quello,” brontolò l’uomo,
seguendo con lo sguardo l’uccello che si allontanava. “Per un
momento mi era quasi sembrato di sentire un canto. Sai, tipo
casalinga che rassetta: hmmm-hmm-hmmm...”
Donovan fece un gesto noncurante
e rispose: “Quei pappagalli del cazzo imitano tutto. Una volta in
un ristorante ce n’era uno che riusciva a fare l’imitazione del
motorino d’avviamento così bene che regolarmente i clienti si
fiondavano fuori convinti che qualcuno gli stesse rubando la
macchina.”
Entrarono nella villa.
Li accolse un atrio ombroso,
fresco rispetto alla calura esterna, illuminato da alti finestroni
velati da lunghe tende chiare. Tutti i mobili erano coperti da teli
bianchi, nell’aria stagnava un odore di chiuso dietro il quale si
coglieva un vago sentore di muffa. Sul pavimento impolverato si
vedevano chiaramente file di impronte che percorrevano in tutti i
sensi il salone.
“Sono le mie, di quando sono
stato qui con l’architetto,” chiarì Donovan, notando lo sguardo
diffidente di Len.
L’uomo si avvicinò a una
parete, la percosse con le nocche, traendone un suono sordo. Si
spostò di qualche passo e ripeté l’operazione: di nuovo un suono
smorzato, che sembrava uscire quasi con fatica.
“Tutti muri pieni,” constatò
Borowicz, “di pietra, spessi almeno due piedi[2]. Non c’è una
crepa.”
“Che vuol dire?”
“Beh, James, che questo posto è
più solido di Fort Knox. Com’è il piano di sopra?”
“Stessa cosa.”
“La bella notizia è che i
lavori di consolidamento si potranno ridurre al minimo, quella brutta
è che con muri del genere, per fare le modifiche alla planimetria
che mi chiedi dovremo cagare lamette da barba di traverso.”
§
Donovan si sedette soddisfatto
davanti al computer e attivò la videochiamata. Sul monitor comparve
la faccia di Borowicz, rigata di sudore e dall’espressione
stranamente cupa.
“Tutto bene, Len?” s’informò
cauto.
L’altro rispose con un grugnito
inintelligibile.
“Qualche problema?” chiese
allora Donovan, augurandosi che la risposta fosse ‘no’, ma certo
in cuor suo che sarebbe stata un desolato ‘sì’.
“Diciamo che i lavori non sono
cominciati nel migliore dei modi,” brontolò Borowicz. “Il
martello pneumatico è andato in corto e ha preso fuoco.”
L’imprenditore rifletté
velocemente: che cosa significava quella frase? Stava cercando di
farsene pagare uno nuovo? Era un modo per alzare la cifra che avevano
concordato? Qualcosa del tipo: guarda in che condizioni ci fai
lavorare, queste cose non erano previste, ci devi dare di più.
“Significa che i lavori sono
fermi?” s’informò cauto.
“Significa che era un martello
pneumatico nuovo, che mi era costato più di duemila dollari, e
adesso è da buttare.”
“Non si può aggiustare?”
“No.”
I due rimasero a guardarsi
attraverso il monitor.
Alla fine, Donovan si risolse a
chiedere: “E quindi?”
Borowicz alzò le spalle. “E
quindi niente, volevo solo farti sapere che ci è capitato questo
incidente, per cui i lavori andranno un po’ a rilento, perlomeno
finché non mi faccio arrivare un altro martello pneumatico.”
L’imprenditore fece un gesto
come per dire che non importava, quindi rispose: “Ok, dai, non
preoccuparti. L’importante è che i lavori sono partiti, poi se hai
bisogno di un paio di giorni in più non mi metterò certo a starti
col fiato sul collo.”
“Ho visto che il frigo
funziona, James, ti scoccia se aggiungiamo al totale qualche birra?”
“Assolutamente no.”
§
La suoneria del cellulare fece
quasi sussultare Donovan e suscitò una smorfia di disappunto sul
volto della sua accompagnatrice.
L’imprenditore, che finalmente
era riuscito nell’impresa di accaparrarsi un tavolo per due in uno
dei ristoranti più esclusivi della costa e portarci la sua amante,
fu tentato di prendere il telefonino e buttarlo a mare, poi si
accorse che quella in arrivo era una videochiamata di Borowicz.
“Scusa cara,” disse
sbrigativo, quindi sgattaiolò via dalla terrazza panoramica.
Quando fu a distanza di
sicurezza, accettò la chiamata. Len aveva la faccia di chi si è
appena visto arrivare in ditta un’ispezione del fisco. Alle sue
spalle c’era una parete di mattonelle bianche, dall’alto
proveniva il chiarore freddo di luci al neon. Passò un tizio vestito
di verde, con una mascherina che gli copriva la metà inferiore della
faccia.
“Ma dove cazzo sei?” chiese
Donovan.
“All’ospedale. Bobby si è
fatto un brutto taglio. Per fortuna che è successo al di fuori
dell’orario di lavoro, altrimenti sarebbe stato un casino.”
“Come ha fatto?”
L’altro scosse la testa. “Hai
presente le birre? Ecco, una lattina è praticamente esplosa e l’ha
tagliato fino all’osso.”
“Esplosa? Che cazzo significa
che è esplosa?”
Borowicz aggrottò le
sopracciglia e in tono duro replicò: “Senti, è scoppiata, ok? Si
è aperta in due come una fottuta anguria e visto che Bobby ce
l’aveva in mano, gli si è praticamente piantata nel braccio.”
“Non è che l’aveva messa in
freezer, per caso?”
“Macché freezer! I miei
ragazzi non sono mica dei cretini. Io dico che...”
In quel momento, alle spalle di
Len una voce chiese: “Il signore del cantiere?”
L’uomo si girò. “Qui!”
Poi, rivolto al telefonino: “Scusa, James, devo lasciarti. Ti terrò
informato.”
Lo schermo si fece nero.
Donovan rimase a guardare il
telefonino inerte per qualche secondo, poi se lo rimise in tasca e
tornò al tavolo. “Scusami, cara,” disse, assorto in pensieri
tutt’altro che piacevoli.
“Oh, non fa niente,” rispose
lei, con il tipico tono che significava esattamente l’opposto.
§
La terza telefonata arrivò nel
cuore della notte. “James, qui è un casino!” esordì Borowicz.
Donovan notò che aveva una voce concitata, tesa, decisamente diversa
da quella profonda e sicura che ricordava. Il suo atteggiamento, che
normalmente gli conferiva la pacatezza di chi è consapevole di avere
ogni situazione saldamente in mano, era stranamente guardingo.
L’uomo si trovava davanti alla
casa padronale, nel cerchio di luce di un lampione. In sottofondo si
udivano il rumore dei furgoni in moto e il tramestio di attrezzature
buttate alla rinfusa nei cassoni. L’alogeno sotto il quale sostava
Borowicz ebbe un’oscillazione ed egli alzò gli occhi in quella
direzione, fissando il faro come se da un momento all’altro avesse
potuto staccarsi e cadergli in testa.
“È un casino,” ripeté,
tergendosi la fronte madida “Qui c’è qualcosa, James.”
Donovan aggrottò le
sopracciglia. “In che senso, qualcosa?”
“Non lo so,” rispose rapido
Borowicz. “Qualcosa, qualcuno. Qui succedono cose che non hanno
spiegazione.” Si voltò da una parte e a voce più alta disse:
“Forza con quella roba, voialtri!”
L’imprenditore si sentì come
un condannato all’impiccagione che vede il boia afferrare la leva
della botola. “Aspetta!” boccheggiò. “Aspetta un attimo,
almeno. Noi avevamo un accordo, se te ne vai adesso mi rovini!”
Len scosse la testa. “Niente di
personale, amico, ma qui dentro non ci rimango un minuto in più del
necessario. Per quello che siamo riusciti a fare puoi farmi avere il
bonifico direttamente sul mio conto, io di questa roba non voglio più
sapere niente.”
Da fuori campo provenne una voce:
“Capo, siamo pronti!”
Donovan strinse il telefonino
così forte che la mano gli rimandò una fitta di dolore, quindi,
parlando più in fretta che poteva, disse: “Aspetta un attimo,
cazzo. Un fottuto attimo me lo potrai concedere, no?” Fissò negli
occhi Len, poi più lentamente, aggiunse: “Mi stai rovinando, per
colpa tua la banca mi ritirerà il finanziamento. Direi che quel
cazzo di attimo me lo devi, no?”
“Sputa il rospo,” brontolò
Borowicz.
“Beh, almeno dimmi cosa sono
queste cose che non si spiegano, no? Fammi capire che cazzo sta
succedendo.”
L’altro gli rivolse un ghigno
che avrebbe voluto essere sarcastico, ma sembrava piuttosto un rictus
tetanico. Per tutta risposta disse: “Io te l’avevo detto che in
questo posto c’era qualcosa che non andava. Te l’avevo detto, ma
tu niente: è l’affare della vita, mi sistemo. Ti sistemi al
cimitero, se non lasci perdere questa baracca maledetta prima di
subito.”
Sullo stesso tono, Donovan
replicò: “Puoi essere più chiaro? Così saprò cosa dire ai miei
avvocati, quando li manderò a strapparti la pelle del culo.”
L’altro scosse la testa. “Non
provarci, amico. Tu non mi hai detto che già due imprese avevano
rifiutato il lavoro, quindi al massimo saranno i miei avvocati che ti
si inculeranno con dei cactus.”
L’imprenditore abbassò
immediatamente la cresta che aveva con tanto vigore alzato: data la
situazione, una rogna legale era l’ultima cosa che gli serviva. In
tono decisamente più conciliante ripeté: “Dimmi cos’è
successo.”
“Una voce di donna che canta,
porte che si aprono da sole, oggetti spostati all’interno di stanze
chiuse a chiave. In certi punti viene così freddo che i vetri si
ghiacciano e agli uomini vengono i brividi come se avessero la
febbre, luci che si accendono e si spengono da sole, incidenti
inspiegabili, pareti che il giorno prima sono intatte e il giorno
dopo sono coperte di graffiti dal pavimento al soffitto. Ti faccio
notare che parliamo di muri alti dodici piedi, senza nemmeno una
sedia a disposizione.”
“Che genere di graffiti?”
“Che ne so? Sembrano dei
graffi.” Borowicz si voltò verso il portone della villa, come se
esso fosse sul punto di spalancarsi e lasciar uscire qualcosa di
terribile, quindi frettolosamente disse: “Io e i ragazzi non
restiamo qui un minuto di più, James, e se sei intelligente non ci
metti mai più piede neanche tu.”
“Aspetta! Saranno dei balordi,
della gente in vena di scherzi! Ti fai spaventare da un branco di
idioti che vogliono divertirsi alle tue spalle?”
Len scosse la testa. “Questi
non sono scherzi,” asserì categorico. “Queste sono cose che non
hanno spiegazione logica. In vent’anni di lavoro io non ho mai
visto niente del genere, e non voglio mai più rivederlo.”
“Len, aspetta! Aspetta, ti pago
il doppio, ti...”
La comunicazione si interruppe.
“Merda!” imprecò Donovan con
sentimento. Si trattenne dal buttare il telefonino contro un muro
solo perché l’aveva appena comprato e gli era costato una fortuna.
“Merda,” ripeté a voce più bassa.
Dalla stanza attigua provenne una
voce femminile: “Hai detto qualcosa, caro?”
Meccanicamente, l’uomo rispose:
“No, tesoro, torna pure a dormire.” Si alzò e si infilò la
vestaglia di seta col drago sulla schiena, poi aprì la porta
finestra della camera e si spostò sul terrazzo. Spirava una brezza
leggera, che faceva ondeggiare appena il bucato che sua moglie aveva
steso in un angolo. Se aguzzava la vista, riusciva a scorgere in
fondo alla strada l’ultimo ristorante finto giapponese che aveva
avviato. L’insegna gialla e rossa, con ideogrammi scelti a caso,
era inconfondibile.
Emise un sospiro. Gli all you can
eat pseudo-giapponesi erano facili, praticamente bastava assumere due
o tre tizi con gli occhi a mandorla, decorare una sala con dei bambù
e della roba vagamente minimal chic, tagliare a fette del pesce crudo
e il gioco era fatto. Chiaramente rendevano in proporzione alla
fatica fatta per avviarli, ovvero quasi niente, e la concorrenza dei
cinesi era spietata.
Poi gli era capitata sottomano
quella tenuta alle Isole Vergini. Praticamente si era sentito come se
Dio avesse voluto ripagarlo di tutti gli anni che aveva passato a
contendersi ventagli fiorati e filetti di salmone con frotte di musi
gialli inveleniti.
Quello era il colpo grosso, era
il jackpot nel più grande casinò di Las Vegas. Era il miracolo: una
tenuta da divo di Hollywood costata poco più di una villetta a
schiera, potenzialmente in grado di decuplicare, anzi centuplicare il
suo valore nell’arco di cinque anni.
E poi, miracolo sul miracolo, la
banca gli aveva concesso un finanziamento per avviare l’attività.
A tempo, certo, ma non era il caso di andare troppo per il sottile.
Il mucchio di soldi comunque era arrivato.
Peccato che ormai il tempo stesse
per scadere, e il mucchio di soldi rischiasse di volatilizzarsi con
la stessa facilità con cui era arrivato.
Si appoggiò al parapetto, di
nuovo cercò con lo sguardo l’all you can eat con l’insegna
gialla e rossa. Dopo che l’ebbe individuata restò per un po’ a
contemplarla, poi tornò sui suoi passi e raggiunse nuovamente il
letto.
Con una sorta di perfido sesto
senso, il mattino dopo lo chiamò la banca, nella persona di una
stretta collaboratrice del direttore.
Fu un formale scambio di
convenevoli, più che altro, ma quando la comunicazione si chiuse,
l’uomo fu certo di una cosa: il suo tempo stava per scadere.
Fece un rapido calcolo: i suoi
soldi li aveva spesi tutti per comprare la tenuta. Di quelli che gli
aveva dato la banca, una parte se n’era già andata per pagare il
materiale, gli arredi e il lavoro di Borowicz. Il che significava che
per restituire il prestito alla banca avrebbe dovuto chiedere un
altro prestito a una seconda banca, ammesso che qualcuna glielo
concedesse, oppure vendersi la casa.
O magari anche rivendersi la
tenuta, se trovava qualcuno più allocco di lui a cui rifilarla.
Gli venne in mente un vecchio
film in cui un tizio comprava un demonio chiuso in una bottiglia e
poteva disfarsene solo rivendendolo a un prezzo minore di quello a
cui l’aveva comprato, solo che ormai la bottiglia era già stata
comprata e venduta così tante volte che la moneta più piccola in
corso nel suo paese era già troppo…
Emise un sospiro, quindi scorse
la rubrica del suo telefono e si fermò su un nominativo che
recitava: ‘Austin – Problemi.’
Fece partire la chiamata.
[1] Gradi Fahrenheit, visto che
stiamo parlando di americani. Corrispondono a circa 37,5 gradi Celsius.
[2] Un piede corrisponde a circa
30 cm.
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