Cara non è la fine

di Morella
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Lo vedo.
 
Posso vederlo, il disgusto; disgusto per quel che non è giusto. Placida ci cammino attraverso, cercando di scostarlo con passo timido e fiero andamento.
Quel disgusto si tinge poi via via di nuovi colori, di tonalità cangianti che altro non sono che putride mistificazioni.
 
Cammino e continuo a vedere; vedo il riflesso di uno specchio sporco che, passo dopo passo, segue il mio incespicare.
 
Il mio eterno incespicare.
 
Gli occhi miei si incontrano con quello specchio opaco. Occhi spenti e sofferenti mi si palesano; aguzzo la vista, li riconosco: quello è lo sguardo di me medesima. Un vecchio, sporco e stanco riflesso, ecco quel che son diventata.
Avanzo, facendo scivolare la vista dallo spettro al mio fianco fino alla nuda terra che calpesto. Quei colori che invano tentano di nascondere la realtà delle cose si mutano ora in sinistri e fumosi tentacoli.
 
Mi afferrano.
Tentano di arrestare il mio passo.
 
Sono ovunque: mi stringono le caviglie, le gambe, le mani, le braccia. E mi tirano giù. Cercano di schiacciarmi con tutte le forze verso quel terreno arido ora nero come la pece.
 
L'ansia mi esplode nel petto tutto.
Non riesco a respirare.
Ho paura.
 
E allora grido, e lo faccio con tutte le forze. Grido, ancora e ancora. Urlo che no, tutto questo non è assolutamente giusto.
 
Ma non basta.
Le mie grida sono mute, nessuno sembra in grado di udirmi.
 
Una profonda tristezza mi attanaglia e la canaglia solitudine mi afferra alle spalle, con quell'ultimo, doloroso cappio.
Calde lacrime mi solcano allora il viso, in un'esplosione di ostinata resistenza in eterno conflitto con la necessità di adagiarsi, di divenire come carta da parati per non sentire più alcun dolore. 
 
Non voglio più pena.
Non voglio più invidia.
Non voglio più ingiustizia.
 
Vorrei invece poter fuggire via, correndo a perdifiato nell'erica sempreverde, lontano dai problemi, dalle brutture, dai continui e indigesti paragoni; dal rumore assordante della mia insoddisfazione.
Mi giro così un'ultima volta verso quello specchio che riflette le ire mie funeste e la mia melanconia. Ella, l'altra me al di là dello specchio, piange; inspiegabilmente però mi sussurra: coraggio.
 
E poi più nulla.
 
Cara?
 
Mi chiamano.
I tentacoli sono spariti.
Il sottosopra nella mia testa.
 
Eccomi, sono qui, va tutto bene.
 
Sorrido, sapendo di mentire.
Una maschera di carne mi soffoca.
La vista delle altrui spalle mi uccide.
 
Vorrei solo una mano protesa, che mi dica che no cara, non è la fine.
 
~

Sono inesperta nel campo delle storie originali, questa è la mia prima.
Il titolo si rifà ad una canzone che amo, "Cara è la fine" dei Marlene Kuntz e la questione "carta da parati" mi è stata ispirata da una delle mie fotografe preferite, Francesca Woodman.




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