Questi
personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di
Stephanie Meyer -tranne Sarah Field i suoi parenti e Raven Cullen, che sono di mia
inventiva-; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo
di lucro.
Non avevo mai pensato
seriamente alla mia morte, nonostante nei mesi precedenti ne
avessi avuta più di un'occasione, ma di sicuro non l'avrei
immaginata così.
Con il fiato sospeso,
fissavo gli occhi scuri del ragazzo di cui mi ero follemente
innamorata, a qualche metro lontano da me, e lui mi ringhiava contro,
ansando come un animale.
Era senz'altro una bella
maniera di morire, sacrificarmi alla persona più importante,
qualcuno che amavo. Una maniera a suo modo romantica, anche.
Conterà pur qualcosa poi quando dovrò arrivare
lassù.
Sapevo che se non fossi
mai andata a Forks non mi sarei trovata di fronte alla morte.
Per quanto fossi terrorizzata, però, non riuscivo a pentirmi
di quella scelta. Se la vita ti offre un sogno che supera
qualsiasi tua aspettativa, non è giusto lamentarsi
perché alla fine si conclude.
Sapevo che lui non
avrebbe mai voluto se fosse stato in sé. Era troppo buono
per volerlo fare di sua spontanea volontà.
Ma i suoi occhi scuri
brillavano, lucidi per la sete e per la pazzia che li aveva nascosti.
Chiusi gli occhi,
aspettando e abbandonandomi al mio destino.
1.
First sight
Per la sesta volta in un giorno mi chiesi perché mi ero
voluta trasferire a Forks, la zona più piovosa di tutto il
continente americano.
Certo, non adoravo il sole di casa mia in Texas, ma nemmeno il perenne
strato di nubi che nascondeva il cielo.
Forse perché lì ci abitava mio nonno Arthur,
l’unico membro della mia famiglia che io non odiassi con
tutta me stessa.
Forse era l’unico luogo sulla terra dove i miei genitori non
mi avrebbero mai cercato –se mai avessero iniziato le
ricerche–.
Avevano la piccola spudorata Mary a cui badare, non si sarebbero
preoccupati troppo della mia assenza.
Dopotutto avevo diciotto anni, era mio diritto prendere e andare a
vivere da mio nonno –santo subito– come affittare
un appartamento o dormire sotto un ponte da sola.
Appena scesi dall’autobus di linea che mi aveva condotto in
quella città umida, osservai il luogo attraverso i ciuffi
sbarazzini dei miei capelli corti.
Forks era una cittadina immersa nel verde, con l’aria che
sapeva di resina e di freschi ruscelli di montagna; tutta
un’altra cosa rispetto all’odore di polvere e di
cuoio che avevo imparato a conoscere a casa.
Tenendo in entrambe le mani i borsoni che mi ero portata appresso, mi
incamminai lungo la strada che portava lontano dalla piazzetta centrale.
Da quello spiazzo si diramavano tre strade, due che si inoltravano
sempre di più nella cittadina e una che conduceva un
po’ alla periferia, dove il nonno Arthur Field abitava con la
sorella di mia madre, Lindsey.
La zia era sempre stata una di quelle donne a cui non si poteva dir di
no in qualsiasi situazione: se insisteva per andare al mare, tempo due
giorni si era in spiaggia a sentire il rumore delle onde.
Con quel tipo di carattere la zia poi aveva fatto strage di cuori,
arrivando a sposarsi per ben tre volte.
Fortunatamente senza darmi nessun cuginetto rompiscatole.
Mentre camminavo mi chiesi perché mi ero portata tanti
vestiti e tanti oggetti che poi si sarebbero rivelati inutili:
dopotutto mi sarei trovata presto un lavoro e avrei comprato altri
vestiti –decisamente più pesanti, con i miei
vestitini leggeri lì sarei morta di ipocondria–.
Sentii un clacson suonare all’impazzata dietro di me e quando
mi girai vidi un grosso pick-up nero venire verso di me.
Si accostò al marciapiede e il conducente tirò
giù il finestrino riflettente: si trattava del mio migliore
amico Jacob Black, un nativo che abitava nella riserva vicino alla
spiaggia.
Lo avevo conosciuto qualche anno prima su Myspace e quando mi aveva
detto che abitava dalle parti di mio nonno ero rimasta con un palmo di
naso.
Era il miglior amico che avessi mai avuto: era di compagnia e non
sopportava vedermi triste «Sarah! Non ci posso credere sei
già qui! » disse, ridendo di gusto.
Io risposi con un’alzata di spalle «hanno
cancellato il volo prima del mio e sono arrivata in anticipo»
gli dissi.
Poi guardai la grande macchina, sorpresa di non trovarvi a bordo anche
il padre del ragazzo, Billy «il vecchio? »
domandai, sorridendo: mi stava passando la malinconia di casa, con Jake
«a casa del tuo matusalemme, doveva essere una festa a
sorpresa, ma a quanto pare la sorpresa ce l’hai fatta tu! Dai
sali, ti accompagno» disse, indicandomi il cassone quando gli
feci vedere i borsoni.
Con non-chalance buttai i miei bagagli nel retro del pick-up e feci il
giro, salendo sul veicolo.
Jacob rimise in moto e partì lungo la strada che stavo
facendo a piedi «allora, che mi racconti? » mi
disse lui.
Io esitai, sapendo che l’avrei fatto schiantare da qualche
parte se gli avessi detto che mi trasferivo lì. Feci la
finta tonta, almeno finché non scendevamo dalla macchina
«bah nulla di che, c’era troppo caldo a
casa» rispose guardando fuori dal finestrino.
Sapevo di essere arrossita –mi succedeva spesso quando
mentivo o ero sotto pressione– ma sperai che lui non notasse
nulla «e invece tu, naso a patata? Che mi dici di bello?
» svicolai da possibili domande che avrebbero potuto farmi
vacillare.
Non ero mai stata molto brava a mentire «mio padre ha deciso
di mandarmi a scuola qui a Forks, non più nella riserva.
Dice che laggiù ammazzano la mia
obbiettività» ridacchiò mentre imitava
il tono severo di suo padre.
Jacob aveva qualche anno meno di me, ma mi superava in altezza di
almeno una decina di centimetri.
Si che non ci volesse molto a superare i miei miseri 165 centimetri, ma
ne andavo fiera.
Sospirai, così l’avrei avuto come compagno di
scuola eh? Sapevo già che non avrei passato un giorno di
pace con lui nei dintorni «eccoci arrivati» disse
mentre inchiodava davanti alla casa di mio nonno.
Era uguale a tutte le comuni case prefabbricate che sostavano sulla
costa orientale dell’America, a due piani, bianca con il
tetto color ardesia.
Un piccolo portico, il giardino e un garage.
Classica casa americana per un classico americano come mio nonno.
C’era persino la bandiera della nostra nazione fuori dalla
porta.
Jacob scese e prese i miei borsoni, mentre io scendevo per i cavoli
miei e facevo il giro del pick-up «non ti impressionare
troppo ok? » mi disse, facendomi segno poi di seguirlo nel
giardino sul retro della casa.
C’era un enorme festone appeso tra due rami del grande albero
più vicino alla staccionata che separava la mia futura
residenza dall’inizio della foresta, e vacillava un
po’ nel vento che iniziava a tirare.
WELCOME BACK SARAH!
La bocca si era spalancata da sola e la voce non voleva uscire.
Io adoravo le feste già per conto mio, ma se qualcuno mi
faceva una sorpresa allora tutti si dovevano tenere a qualcosa,
perché io sarei scoppiata e avrei travolto la prima persona
che mi sarebbe capitata.
Per sua sfortuna, il più vicino a me era Jacob e io, senza
esitazione alcuna, mi avventai su di lui «siete tutti dei
tesori! » urlai, probabilmente trapanando
l’orecchio a Jake, poverino.
Lui rise, cercando però di staccarsi da me e cercando
appoggio dalle persone presenti: mio nonno, la zia Lindsay, lo sceriffo
Swan con la moglie e la figlia Isabella –mia grande amica a
distanza nei momenti di crisi–, il padre e la sorella di
Jacob.
C’erano tutti e io stavo quasi per strozzare
l’indiano accanto a me.
Mio nonno si avvicinò e mi abbracciò dolce,
accarezzandomi poi la testa: gli occhi chiari e i capelli bianchi erano
sempre gli stessi, nonostante le rughe avanzassero ogni giorno di
più «bentornata piccola! » mi disse
«indovina cosa ti ha preparato la zia Lind? ».
Io spalancai gli occhi e presi un respiro «la torta di
ciliegie! » e fui sicura che almeno metà della
popolazione sentì il mio urlo.
Mi gettai su mia zia, abbracciandola come avevo fatto con Jacob
–dandogli anche il tempo al ragazzo di recuperare
aria– «vi adoro! » dissi ancora.
Ecco, mi stavano di nuovo venendo le lacrime, per la seconda volta in
due giorni.
Isabella –lei odia esser chiamata con il nome intero,
così si fa chiamare Bella…per me che avevo avuto
una mamma italiana ogni volta mi veniva da ridere e la chiamavo Bella
modesta– ridacchiò e mi venne incontro,
così come i suoi genitori.
Tutto si svolse in modo normale, mentre gli invitati mangiavano un
po’ della mitica torta di ciliegie io guardavo i nuvoloni
grigi addensarsi verso est.
E giurai per un attimo di aver sentito un forte tuono, nonostante non
avessi visto bagliori all’orizzonte che predicessero un
fulmine.
Quando annunciai a tutti che sarei rimasta a tempo indeterminato a
Forks quasi tutti rimasero impietriti.
Il primo a risvegliarsi fu Jacob, che come io avevo previsto, si
illuminò come un sole «allora verrai a scuola qui!
» si esaltò. Io annuii e Bella saltellò
«che bello non dovrò usare quel misero IM per
comunicare con te! Yay! » mi abbracciò,
scuotendomi da una parte e dall’altra.
Passai tutto il pomeriggio a ridere e scherzare con i miei due migliori
amici, e quando venne il momento dei saluti Jacob mi
sbalordì immensamente.
Infatti mi mise le chiavi del pick-up in mano e mi fece
l’occhiolino «facciamo che è un regalo
di benvenuto» mi disse e mi diede due pacche sulle spalle.
Billy lo chiamò e lui sparì, salutandomi e
correndo verso la macchina del padre.
Rimanemmo solo io, il nonno e la zia Lind, in piedi nel giardino a
sistemare tutto.
In realtà eravamo solo io e la zia a sistemare, dato che il
nonno Arthur aveva problemi di artrite e cercavamo di farlo sforzare il
meno possibile.
Quando andai a buttare l’immenso sacchetto riempito con
avanzi di torta, piatti e bicchieri di carta, stelle filanti, incarti
vuoti di patatine e bottiglie di plastica era già arrivata
quasi la sera.
Il bidone dell’immondizia per fortuna non era a chilometri di
distanza come a casa mia e ci misi poco per raggiungerlo e gettarvi
dentro il sacco con la spazzatura della festa.
Il più fu tornare indietro.
Già, perché mentre mi stavo girando per rientrare
in casa –con in mente di disfare le valigie nella camera
degli ospiti– dalla strada sterrata che portava nella foresta
uscì una jeep scura, con tutti i finestrini abbassati e un
ragazzone che sbucava dal tettuccio aperto.
Mentre il veicolo si avvicinò, notai che il grosso ragazzo
era vestito come appena tornato da un match di baseball, con il
cappello però girato di traverso come un rapper.
Ridacchiai, perché il volto di quel ragazzo dai capelli
bruni e corti mi ispirava simpatia, un po’ come gli
orsacchiotti che avevo nella mia vecchia camera a Dallas.
Quando l’auto, guidata da un ragazzo dai capelli ramati e
sparati in aria, arrivò a pochi metri da me il ragazzone si
infilò dentro la vettura, parlando concitatamente con il
ragazzo vicino a lui.
Era un tipo dai capelli color miele e in quel momento il volto
meraviglioso e pallido era contratto da una smorfia addolorata.
Sembrava che non dormisse da mesi, a vedere dalle grosse borse sotto
gli occhi.
All’interno della macchina c’era anche una ragazza,
la più bella che avessi mai visto: era bionda e gli occhi
gelidi erano ambrati e mi fissavano con tale insistenza che sembrava
volesse uccidermi.
Anche lei aveva la pelle pallidissima e delle ombre scure sotto gli
occhi.
Nel sedile davanti al ragazzo biondo c’era una ragazza dai
capelli lunghi e corvini che mi osservava un po’ con
divertita curiosità, un po’ con diffidenza.
Mentre l’auto mi superava io mi voltai, camminando
all’indietro per guardare ancora per un attimo il quintetto
che svoltava a destra, per entrare di più a Forks.
Quando feci per voltarmi e tornare in casa inciampai nella staccionata
bianca e caddi in giardino a gambe all’aria «bene,
perfetto» dissi a me stessa «sei da un giorno in
una città nuova e ti fai conoscere subito…che
grama figura» e mi alzai, scuotendo dai jeans i pochi fili
d’erba che erano rimasti attaccati come velcro.
Non avevo capito una parola di quello che i ragazzi stessero dicendo
quando l’auto mi sorpassò, eppure ero sicura che
stessero parlando.
Forse ero troppo distratta nel delineare i profili di ognuno di loro.
Quello alla guida sembrava incuriosito e mi aveva guardato con
un’espressione da “ma dai?”, mentre il
ragazzo con la faccia da orsacchiotto aveva battuto una mano sulla
spalla del biondo.
«Sarah! Vieni dentro che sta per piovere! »
urlò zia Lind dalla porta di casa e io di riflesso guardai
il cielo così nero che sembrava preannunciare
l’apocalisse.
Rientrai con una piccola corsa, con ancora in mente il gruppo di
ragazzi pallidi che mi aveva completamente stregata.
Il giorno dopo pioveva ancora e zia Lind stava pulendo i pavimenti
mentre mio nonno era andato a trovare Billy giù alla
riserva, probabilmente per andare alla bocciofila.
Nonostante ci fossero una decina d’anni che separavano le
età dei due amici, mio nonno e il padre di Jacob sono sempre
stati dei grandi mattacchioni e fedeli l’uno verso
l’altro come lo erano stati ognuno con la propria moglie.
Mi alzai con quel sonno appiccicoso che non se ne va via, tipico delle
giornate di pioggia, e mi vestii un po’ a casaccio, prendendo
gli abiti dalla valigia ancora da disfare.
Indossai una maglietta a maniche corte, una giacca di jeans e dei
pantaloni di fustagno non troppo spessi.
Pensai che magari, essendo l’inizio dell’estate,
non doveva essere poi così freddo.
Preparai il mio zaino scuro con i libri delle lezioni di quel giorno
con un po’ di timore –avrei avuto due ore di
storia, una materia a me sempre stata indigesta– e scesi le
scale che portavano al secondo piano, quindi al salotto e alla cucina
«buongiorno zia! » esclamai, allegra.
Mi ero pettinata, facendo in modo che le corte ciocche dei miei capelli
scuri fossero rivolte verso l’alto, e mi ero messa un filo di
trucco –solo perché era il primo giorno di scuola
e volevo essere perlomeno presentabile– «ohhh
buongiorno! Così oggi primo giorno di scuola eh? Cerca di
non combinare guai» mi disse zia Lind, posandomi davanti un
piatto di uova e bacon.
Io sorrisi, nel vedere la pietanza.
La vecchia cara zia sapeva esattamente cosa mi piaceva e cosa non mi
piaceva.
Beh, cose che non mi piacevano non ne esistevano molte e per mia
fortuna avevo un tipo di metabolismo particolare, che mi impediva di
assimilare tutto quello che mangiavo.
Che era una vagonata di cibo.
Divorai il piatto in fretta e mi misi in spalla lo zaino
«vado, ci vediamo oggi! » salutai, di buon umore, e
presi le chiavi del pick-up posteggiato nel viottolo davanti al garage.
Il mio sorriso si congelò letteralmente sul mio viso, quando
aprii la porta: l’acqua che veniva giù dai
nuvoloni scuri era ghiacciata e ogni goccia mi faceva mugolare di
dolore.
Nonno Arthur, vecchio cuore cowboy, doveva aver installato un impianto
di riscaldamento che doveva raggiungere la temperatura di una fucina, a
sentire dallo sbalzo termico.
Raggiunsi con una corsa la vettura, una Toyota, e mi ci fiondai dentro
completamente fradicia.
In quel momento mi chiesi per la settima volta da quando ero partita
perché proprio Forks; inserii la chiave e la prima cosa che
accesi fu il riscaldamento, per potermi coccolare nel calduccio ancora
un po’ prima di entrare a scuola.
La mia giacchetta di jeans non si asciugò durante il
tragitto fino alla scuola e prese ancora più acqua quando
uscii e corsi verso l’entrata.
Mentre mi appuntavo nel mio memo mentale “la prossima volta
portati asciugamano e phon”, mi diressi verso la porta
d’ingresso.
Una mano a dir poco bollente mi cascò sulla spalla
–forse ero io a essere gelata– e una risata
conosciuta mi obbligarono a girarmi.
Era Jake, ammantato in un keeway scuro con il cappuccio tirato su
«hey nanetta! Hai fatto un tuffo in piscina? » mi
domandò, guardando lo stato pietoso in cui ero.
Il trucco, poi, era completamente andato al creatore «ah-ah
molto spiritoso patatone! Ho solo dimenticato che qui non piove in modo
normale…ma avete dei rubinetti al posto delle nuvole qua?!
» e ridacchiai.
Il mio tono di voce si era un po’ alzato, perché
proprio contenta non lo ero, ma alla fine permisi al ragazzo di darmi
la sua giacca «ma sei una stufa! » gli dissi
ridendo, mentre indossavo l’impermeabile.
In effetti la temperatura del corpo di Jacob non era mai stata come la
mia: sembrava sempre che avesse la febbre e un giorno che gli chiesi se
stava bene lui mi disse che mai era stato meglio.
Feci spallucce alla sua risata, poi guardai il foglietto che mi era
stato lasciato dal preside della scuola e guardai dove si trovasse
l’aula di storia «oddio sono in ritardo!
» esclamai.
In effetti ero veramente in ritardo e di parecchi minuti!
Il mio primo giorno di scuola!
Salutai Jake, ridandogli l’incerata scura e riprendendomi
quello straccio che era diventata la mia giacca di jeans, poi corsi su
per le scale e andare al secondo piano.
Dove sicuramente il professore mi stava aspettando.
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