Un piccolo spiegone, prima di
cominciare: nel secondo libro della saga Aubrey/Maturin, “Costa
sottovento”, i due si invaghiscono entrambi della stessa donna. Il fatto porta a un progressivo raffreddamento dei rapporti, che culmina
con una sfida a duello.
La cosa procede, vengono
interpellati i secondi e tutto quanto, senonché poco prima che si
dia corso alla sfida, Aubrey deve rientrare in azione e la faccenda è
come da regolamento accantonata.
Nel corso di tale azione, il
capitano viene ferito così gravemente da essere in pericolo di vita
e Maturin lo assiste come sempre.
O’Brian non ci fa vedere
nessun chiarimento fra di loro: la faccenda del duello semplicemente
scompare e alla fine del libro i due sono amici come sempre.
Io ho provato a immaginare che
in occasione della grave ferita di Aubrey entrambi ripensino
all’accaduto. Aubrey in modo particolarmente crepuscolare, perché
tra le conseguenze di una forte perdita di sangue c’è anche una
maggiore fragilità emotiva.
Specifico naturalmente che i
personaggi non sono miei e che non guadagno nulla (se non lanci di
pomodori marci) scrivendo di loro.
LE COLPE DI UN AMICO SCRIVILE
NELLA SABBIA
“Vieni,
fratello,” gli disse Stephen all'orecchio, come in un
sogno, “devi scendere da basso, stai perdendo troppo sangue. Vieni,
vieni. Presto, Bonden, aiutatemi a trasportarlo.”[1]
Aubrey si sentì
sospingere in avanti, vacillò e braccia robuste si
protesero per sostenerlo. Percepì la voce del suo timoniere e subito
dopo quella del dottor Maturin, ma gli parve che giungessero da
distanze siderali. Che fossero fioche, vaghe.
Aveva
l’impressione di camminare nell’ovatta, in una penombra che
andava di momento in momento infittendosi. Sbatté la mano da qualche
parte e se ne accorse solo per il rumore che essa produsse.
Non sentì
dolore.
Non sentiva
quasi più niente, per la verità: né il pulsare sordo
della spalla, né le fitte alla testa. Era solo stanco,
terribilmente, disperatamente stanco…
“Aiutatemi,
Bonden,” ripeté Maturin. La fatica non fu persuadere
il comandante a sdraiarsi sulle quattro casse che fungevano da tavolo
operatorio, ma evitare che vi crollasse sopra di peso.
Il medico lo
fissò preoccupato: giaceva immobile, il volto di un
pallore mortale, il respiro ormai appena percettibile. Intrisi di
sangue, i capelli gli pendevano a lato del viso come una stoffa
fradicia. La camicia era quasi completamente rossa.
Si piegò su di
lui, gli voltò delicatamente la testa da un lato,
mettendo in evidenza una lunga ferita dai bordi irregolari che
partiva dalla fronte e finiva dietro l’orecchio. Nei punti in cui
essa era più profonda si intravedeva il biancore dell'osso
sottostante. Vi infilò dentro un dito, sondandola delicatamente alla
ricerca di linee di frattura. Aubrey rimase immobile, ma non di
quell’immobilità tesa di chi sente dolore e si impone di
sopportarlo: era inerte, abbandonato. Stephen non riuscì nemmeno a
capire se fosse ancora cosciente.
Si obbligò al
distacco, la sua apprensione non sarebbe stata di
nessuna utilità all’amico.
Passò a
esaminare lo squarcio che gli si allargava sulla spalla
sinistra, lasciato probabilmente da un colpo di sciabola: la punta
dell'arma era penetrata poco sotto la clavicola e si era diretta
verso il basso, ma per qualche miracolo non erano state recise né la
succlavia né l’arteria ascellare; l'assenza di bolle d'aria
deponeva a favore del fatto che anche l'apice polmonare fosse
indenne. La ferita comunque era profonda e continuava a sanguinare.
Strinse le
labbra e valutò brevemente a quale delle due lesioni dare
la precedenza, quindi preparò ago e filo da sutura. “Ora dovrò
farti un po’ male, Jack,” lo avvisò con voce sommessa, come
faceva ogni volta che si apprestava a ricucirlo. Normalmente sarebbe
seguita qualche risposta fintamente noncurante del capitano, detta
più che altro per rassicurare lui o i suoi uomini, oppure qualche
battuta.
In quel caso ci
fu solo silenzio.
“Jack?”
Aubrey giaceva
esanime.
Senza indugiare
oltre, Maturin cominciò ad applicare punti di sutura
per chiudere la ferita alla spalla.
Stephen emise
un sospiro e finì di asciugarsi le mani. Nel bacile in
cui se le era lavate, l'acqua era diventata di un rosso cupo e denso.
Si voltò verso
la sua branda, nella quale aveva fatto sistemare il
comandante, e di nuovo strinse le labbra mentre una ruga verticale si
gli disegnava sulla fronte: Jack era immobile, il volto era cereo, i
bendaggi al capo e alla spalla erano già macchiati in più punti di
sangue. Se non fosse stato per il movimento quasi impercettibile del
petto, che si alzava e si abbassava negli atti del respiro, si
sarebbe detto già morto.
Si sedette
accanto a lui e gli tastò il polso, trovandolo aritmico e
filiforme. Come molti medici, anche lui sarebbe stato in grado di
riconoscere i suoi pazienti persino al buio, semplicemente
auscultandoli o valutando le loro pulsazioni: il contrasto fra quel
palpitare incerto e il battito vigoroso e regolare che di solito
caratterizzava Jack Aubrey lo sconcertò, dandogli la reale misura,
se mai ce ne fosse stato bisogno, delle condizioni in cui versava
l'amico. Gli riadagiò il braccio lungo il corpo.
“Fratello,”
mormorò poi, posandogli una mano sulla fronte. La
cute era fredda, umida del sudore malsano dell'ipovolemia.
Un rumore di
passi lo distrasse. Si voltò verso la porta e vide
comparire la figura alta e snella di Tom Pullings. Il giovane
ufficiale si fermò sulla soglia. Fece per aprire bocca, ma il suo
sguardo scattò immediatamente verso il comandante. Egli rinunciò a
parlare e rimase a contemplarlo con una sorta di doloroso sconcerto,
come se non si capacitasse di quello che stava vedendo.
Stephen notò la
contrazione del massetere sul suo volto magro:
Pullings stava stringendo i denti.
Distolse gli
occhi da lui e li riportò sulla figura immobile di
Jack. “Ha perso moltissimo sangue,” si limitò a spiegare.
Il giovane
ufficiale abbassò lo sguardo. “Capisco.”
Maturin fu
certo che effettivamente capisse e che anzi gli fosse ben
chiara tutta la drammatica portata di quella scarna informazione: per
uno come lui, abituato a combattere, la conseguenza estrema della
perdita di sangue non era certo un mistero.
“Ma voi lo
guarirete, non è così, dottore?” chiese il giovane
dopo qualche secondo di doloroso silenzio.
“È nelle mani
di Dio,” gli rispose Stephen con franchezza.
“Posso solo dirvi che farò anche l'impossibile per salvarlo.”
Pullings non
rispose. Di nuovo fissò il comandante e di nuovo sulle
sue mascelle i muscoli si tesero. “Il capitano Aubrey è molto
forte,” disse. Il tono aveva una vaga nota di premura, sembrava che
gli stesse ricordando un particolare del quale forse lui non aveva
tenuto il debito conto nella formulazione della prognosi. Subito dopo
gli rivolse uno sguardo speranzoso.
Maturin si
limitò ad annuire. “Sì, lo è,” confermò, “un
altro probabilmente sarebbe già morto.”
“Ma lui non
morirà, vero?”
“È nelle mani
di Dio,” ripeté il medico.
Il giovane si
costrinse a un lieve sorriso e rispose: “No, è nelle
vostre, dottore, che con il vostro permesso mi danno molto più
affidamento.”
Stephen rimase
di nuovo solo con Jack. Per l'ennesima volta gli sentì
il polso e quasi sospirò di sollievo quando le sue dita incontrarono
il palpitare lieve dell'arteria radiale. Rimase a valutalo per un
po', quindi raccolse una pezzuola da una bacinella che aveva a
fianco, la strizzò e gliela passò sul viso.
Lo fissò
preoccupato: Jack era talmente pallido che quasi si
indovinava sotto la pelle il disegno dei vasi superficiali. Le labbra
avevano perso colore, intorno agli occhi aveva un vago alone
violaceo. Il volto sembrava smagrito, come svuotato. Sparsi sul
cuscino, i capelli biondi conservavano ancora qualche incrostazione
di sangue rappreso.
Protese una
mano a sistemargli delicatamente la medicazione alla
testa, poi si allungò appena sulla sedia e si pose sulle ginocchia
un trattato di entomologia.
Per un po'
cercò di leggere, ma quando, giunto alla fine della
pagina, realizzò di non ricordarsi nemmeno se il testo parlava di
Archostemata o Adephaga, abbandonò il libro ed emise un sospiro di
frustrazione.
Inutile
negarlo: la preoccupazione per l'amico minava la sua
proverbiale capacità di mantenere il distacco e la lucidità anche
nelle situazioni più critiche.
Il problema non
era però solo quello. Anzi, avrebbe potuto
sbilanciarsi nell'affermare che il problema non era decisamente
quello. Gli bastava alzare lo sguardo per avere davanti agli occhi lo
stipo nel quale erano riposte le sue pistole: non più di pochi
giorni prima le aveva pulite e caricate per sparare a Jack Aubrey e
ora era seduto accanto a lui, con la prospettiva di passare quello
che restava del giorno e tutta la notte senza staccargli gli occhi di
dosso, pregando Dio, la Vergine e tutti i santi di non dover vedere
sul suo corpo prostrato la comparsa e poi l'inesorabile progredire
dei segni dell'agonia.
Sospirò di
nuovo. In un gesto ormai automatico, la sua mano corse al
polso di Jack e per l'ennesima volta cercò l'arteria radiale.
Si chiese cosa
sarebbe successo, se si fossero veramente affrontati
in duello. Era certo che Aubrey non sarebbe riuscito a ucciderlo:
l’aveva visto abbattere innumerevoli nemici nella foga della
battaglia, ma non l’aveva mai visto fare del male a qualcuno al di
fuori di una situazione di guerra. Aveva un coraggio che rasentava
l’incoscienza, sapeva buttarsi negli scontri senza un attimo di
esitazione, trascinando gli uomini con sé in una sorta di barbarica
esaltazione guerresca, ma forse gli mancava il particolare tipo di
freddezza che gli avrebbe consentito di mirare a un suo punto vitale
e premere il grilletto senza che la mano gli tremasse.
E lui, si
chiese, sarebbe riuscito a uccidere Jack in duello?
Di nuovo emise
un lungo sospiro: l’avrebbe fatto, per giorni era
stato deciso a farlo.
Spostò
nuovamente lo sguardo su di lui, per l'ennesima volta gli
tastò il polso e gli sistemò i bendaggi. Il capitano diede un lieve
gemito a quel contatto, ma per il resto rimase immobile.
“Fratello,”
mormorò Maturin. Prese la pezzuola umida e gliela
passò sul viso, indugiando sulle sue labbra aride. Valutò che Jack
avrebbe avuto bisogno di bere, data la consistente emorragia, ma
finché era in stato di incoscienza la cosa era ovviamente
impossibile.
Una voce aspra
lo distrasse: “Sarebbe che vi ho portato un po' di
caffè, dottore.”
Maturin si
voltò: sulla porta c'era Killick con un bricco fumante in
una mano e una tazza nell'altra. “È bello caldo come piace a voi,
dottore,” specificò il famiglio.
Stephen si fece
da parte per consentirgli di passare, egli entrò
nella cabina e pose il recipiente sul tavolino, quindi gettò
un'occhiata a Aubrey, scosse la testa e brontolò: “La giacca
numero uno lasciata chissà dove, la camicia da buttare, per non
parlare dei calzoni. Non verranno mai più puliti, con tutto quel
sangue. Ma nessuno ci pensa al povero Killick, nossignore. Nessuno
che gli dia uno straccio di notizia, neanche.” Di nuovo fissò il
capitano e profonde rughe gli comparvero sulla fronte. “Sarebbe che
uno vuole solo sapere come stanno le cose, ” borbottò poi senza
staccare gli occhi da Jack, “ecco che cosa vuole.”
“È presto per
dirlo, Kllick,” sospirò Maturin.
A quelle
parole, il famiglio parve ingobbirsi come se un peso gli
fosse di colpo calato sulle spalle.
“Beh, lo
saprete voi,” brontolò infine fra i denti, quindi fece
per andarsene.
Stephen lo
richiamò indietro: “Killick, vorresti fare qualcosa per
il comandante?”
L’altro ritrovò
un barlume della consueta insolenza: “Sarebbe
che sono qui apposta, dottore.”
“Allora portami
dell’acqua pura. Acqua di fonte, se possibile.”
Killick gli
rivolse uno sguardo truce, con l’aria di essere incerto
se considerare la strana richiesta uno scherzo di cattivo gusto o una
delle innumerevoli eccentricità del medico.
“Acqua pura,”
ripeté Maturin imperterrito. “Di fonte,
pulitissima. E succo di limoncello.”
Il famiglio
uscì scuotendo la testa. Stephen si versò una tazza di
caffè e di nuovo si sedette accanto a Jack. Abbassò gli occhi sulla
bevanda fumante e subito gli tornarono in mente gli innumerevoli
episodi in cui lui e Aubrey si erano spartiti un bricco di caffè.
Ricordò le chiacchiere sommesse, il senso di complicità, il calore
dell’affetto reciproco. Appoggiò la tazza ancora piena,
chiedendosi se le cose fra loro sarebbero mai tornate come prima.
Ripensò a una frase di Pitagora: le colpe di un amico scrivile nella
sabbia.
In quel
momento, Aubrey emise un lieve gemito. Subito Maturin
abbandonò le sue angosciose meditazioni per chinarsi su di lui: Jack
aveva gli occhi socchiusi, due schegge celesti che nella penombra
risaltavano sul volto pallido, ma non doveva essere cosciente. Tentò
di muoversi e i suoi lineamenti si contrassero in un’espressione di
dolore.
“Fratello, devi
stare fermo,” gli raccomandò Stephen con voce
sommessa, prendendolo delicatamente per le spalle, “altrimenti ti
si riaprono le ferite.”
Di nuovo Aubrey
tentò di muoversi, ma era talmente debole che
Maturin non fece alcuna fatica a impedirglielo. “Sta’
tranquillo,” gli raccomandò. “Ci sono io qui con te, sta’
tranquillo.” Attese che l’altro si fosse calmato, quindi
abbandonò la presa e raccolse dalla bacinella la pezzuola umida, la
strizzò e poi gliela passò sul viso. “Tranquillo,” sussurrò
ancora una volta. Aubrey fece un altro fiacco tentativo di muoversi,
ma sotto il suo tocco rassicurante pian piano si rilassò di nuovo.
Stephen ripose
la pezzuola e gli tastò di nuovo il polso,
ricavandone l’impressione che esso fosse più debole rispetto
all’ultima volta che l’aveva controllato, più fiacco, più
aritmico. Prese lo stetoscopio e gli auscultò il torace, traendone
segni ancora meno rassicuranti.
Si sedette di
nuovo, intrecciò le mani in grembo e lo fissò. Dopo
qualche secondo distolse gli occhi, come per non doversi trovare a
vedere l’insorgenza di quei segni che tante volte aveva visto
manifestarsi prima dell’exitus.
Passò un tempo
imprecisato. Jack era sempre immobile, ma perlomeno
respirava ancora. Stephen aveva provato a riprendere il trattato di
entomologia, ma dopo poco aveva dovuto abbandonarlo, perché ogni
mezzo rigo i suoi occhi saettavano verso l’amico, nell’affannosa
ricerca di qualche variazione del quadro clinico.
Si era dovuto
fare violenza per non auscultarlo e non palpargli il
polso continuamente, lui che di solito considerava con una sorta di
distaccata sufficienza chi si lasciava prendere dall’emozione nei
momenti critici.
Percepì
l’avvicinarsi di un passo pesante. Alzò la testa. “Sei
tu, Killick?” chiese.
Quello che
comparve non era il famiglio, ma Bonden, con un orcio di
terracotta stretto al petto e un paio di limoni nella mano libera.
“Vi ho portato l’acqua di fonte, dottore,” annunciò il nuovo
arrivato. “E anche dei limoni.”
Depose tutto
sul tavolino.
Maturin sollevò
il coperchio dell’orcio, constatò che l’acqua
era effettivamente pura e cristallina come richiesto, poi disse:
“Molto bene. Andate pure, Bonden.”
Il timoniere
non si mosse.
Il medico lo
fissò. “Che c’è adesso?”
“Gli uomini
chiedono come vanno le cose, signore.” Lo sguardo
corse al comandante esanime. “Sarebbe che si fanno delle brutte
idee, signore.” Tacque per qualche secondo, forse indeciso se
proseguire, quindi in tono lugubre aggiunse: “Brutte davvero,
signore.”
“L’ho già
detto,” replicò Maturin in tono tagliente, “potrò
dirvi qualcosa di certo solo domani.”
“Voi lo
guarirete, vero, signore?”
Il medico
aggrottò le sopracciglia, gli occhi chiarissimi parvero
mandare lampi. “Vi ho già detto che non sopporto questa fede
bovina nelle mie capacità. Credete forse che io sia uno stregone in
grado di compiere magie?”
“Perdonatemi,
signore,” rispose in fretta Bonden, poi pensò bene
di battere in ritirata.
Maturin si
sedette con un sospiro, ripromettendosi di chiedergli
scusa alla prima occasione. Si voltò verso Jack e per l’ennesima
volta gli tastò il polso, traendone come ogni volta le stesse
sconfortanti conclusioni. Sospirò di nuovo.
Tornò all’orcio
d’acqua, ne attinse un bicchiere e vi spremette
dentro alcune gocce di succo di limone, quindi si chinò accanto
all’amico e gli passò la mano libera dietro la nuca. “Fratello,
devi bere un po’ d’acqua,” gli sussurrò all’orecchio. Gli
sollevò appena la testa.
Aubrey gemette,
di nuovo socchiuse gli occhi. Maturin gli appoggiò
il bicchiere alle labbra. “Acqua e limone,” gli disse in tono
sommesso, “tonico e astringente. Bevi.” Anche se era certo che
l’amico fosse ben lontano dall’essere lucido, conoscendo la
superstiziosità dei marinai, evitò di specificare che si trattava
della stessa bevanda somministrata a Lord Nelson quando era stato
ferito a Trafalgar.
Inclinò appena
il recipiente. “Bevi, fratello,” ripeté.
Aubrey tossì,
un rivolo d’acqua gli scorse lungo il mento.
“Adagio,” gli
raccomandò Maturin, senza abbassare il bicchiere.
Jack doveva bere, perlomeno finché non fosse comparsa la benedetta
diuresi, a dimostrare che la funzionalità renale si era ristabilita.
Se ciò non
fosse accaduto, se la perdita di sangue si fosse rivelata
eccessiva anche per un uomo della sua tempra, ebbene…
Non finì la
frase nemmeno col pensiero. Exitus.
Jack socchiuse
gli occhi, diede un lieve colpo di tosse.
Stephen inclinò
il bicchiere fino a che l’acqua non gli bagnò di
nuovo le labbra, quindi pazientemente ripeté: “Fratello, manda giù
qualche sorso, per favore. Devi bere per ricreare il sangue perduto.”
Jack si rivide
in acqua, mentre nuotava sul dorso trascinandosi
dietro una cima. Era notte e il cielo era solcato dai lampi delle
esplosioni. Poi però c’erano due lune, Cassiopea non era nella
posizione giusta. E la cima che si trascinava dietro diventava a ogni
bracciata più pesante.
L’acqua gli
invase la gola, tossì e una fitta lancinante gli
attraversò la spalla. Gemette e udì una voce rassicurante che
diceva: “Sta’ tranquillo, Jack.”
Sbatté gli
occhi. Lo scenario della battaglia sbiadì lentamente e
al suo posto comparve quello di una cabina. Vide libri allineati su
uno scaffale, una giacca appesa. Percepì il rassicurante
scricchiolio delle strutture di una nave.
Una voce attirò
nuovamente la sua attenzione: “Fratello?”
Girò lo
sguardo, incontrando un volto che pur sfocato gli comunicò
una piacevole sensazione di calore. Abbozzò un pallido sorriso.
“Fratello, sono
io.”
“...Stephen…?”
“Jack.”
Aubrey percepì
il bordo di un bicchiere contro il labbro e
istintivamente bevve un sorso.
“Così, bravo.”
Bevve ancora,
realizzando di essere terribilmente assetato.
“Un altro
bicchiere,” gli raccomandò Maturin quando ebbe vuotato
il primo.
Jack bevve
obbediente, con l’impressione che ogni sorso cadesse su
un terreno screpolato dall’aridità e venisse immediatamente
assorbito. Man mano che l’acqua lo ristorava, tornava anche la
consapevolezza delle cose. “Stephen, gli uomini?” chiese allora
ansiosamente. “Ci sono state molte perdite?”
“No, Jack. Sta’
tranquillo.”
“Io devo...”
fece per muoversi, ma immediatamente Maturin lo
trattenne e in tono duro gli ingiunse: “Non devi muoverti! Vuoi far
riaprire le ferite? È questo che vuoi?”
“No, io...”
“Non devi
muoverti,” ripeté Stephen in tono più gentile,
lasciando che Jack adagiasse nuovamente il capo sul cuscino. Recuperò
la pezzuola e ancora una volta gliela passò sul viso. “Hai avuto
una forte emorragia,” disse poi a mo’ di spiegazione, “sei
molto debole.”
Aubrey non
rispose. Si rendeva conto da solo che non sarebbe stato in
grado nemmeno di sollevare una mano senza aiuto. Era spossato,
svuotato, anche solo dire una parola gli costava una fatica
terribile. Se chiudeva gli occhi, continuava a rivedere la Polychrest
che affondava, ancora e ancora, ma nella sua visione la nave, invece
di posarsi sul fondo sabbioso e rimanere lì con gli alberi che
spuntavano dall’acqua, continuava ad affondare in un abisso sempre
più scuro, fino a che non scompariva nel buio.
Era stato
ferito molte altre volte, ma non aveva mai provato una
spossatezza così profonda, in grado di abbattere lo spirito oltre al
corpo. Perché sì, si sentiva fisicamente uno straccio, ma
soprattutto si sentiva prostrato nell’animo.
La vittoria
conseguita non gli dava nessuna soddisfazione. Gli
conferiva anzi un penoso senso di inadeguatezza, come se in qualche
modo non fosse riuscito a fare tutto ciò che ci si sarebbe aspettato
da lui. Il veliero conquistato, la Fanciulla, sul quale doveva
trovarsi in quel momento, gli sembrava di nessun valore a fronte
della perdita della sua nave.
L’idea che
molti dei suoi uomini fossero morti lo riempiva di una
forma particolarmente amara di disperazione.
“Stephen...”
mormorò.
Subito l’amico
fu al suo fianco. “Cosa c’è, Jack?”
“Stephen, se io
dovessi non farcela...” cominciò faticosamente,
e poi si rese conto che non avrebbe saputo come continuare. Chi c’era
da avvertire, nel caso non ce l’avesse fatta? L’Ammiragliato
avrebbe ricevuto la comunicazione della sua morte dal signor Parker,
per il resto non c’era nessuno cui la cosa potesse interessare.
Sophie avrebbe pianto per un paio di settimane, forse, poi si sarebbe
trovata un brav’uomo con cui mettere su famiglia e si sarebbe
dimenticata di lui. Diana Villiers, per la quale aveva sfidato a
duello il suo migliore amico, probabilmente di lui s’era già
dimenticata. “Se io dovessi...” riprovò, ma questa volta Maturin
lo fermò. Gli pose una mano sull’avambraccio e disse: “Ora basta
con queste sciocchezze, Jack. Ti rimetterai presto.”
Aubrey provò a
voltarsi verso di lui, e già quel semplice movimento
gli parve pesante come far girare il cabestano da solo. Sentì la sua
mano fresca sulla fronte e realizzò che probabilmente Stephen era
l’unica persona cui sarebbe importato veramente se lui fosse
morto.
Si sentì
indegno di quella considerazione. Aveva mancato in tanti
modi nei suoi confronti. Con pensieri, azioni e omissioni, come
piaceva tanto ripetere ai cappellani.
“Perdonami,”
mormorò.
“Per cosa
dovrei perdonarti, fratello?”
Jack avrebbe
voluto replicare in modo articolato, ma faceva fatica a
parlare, e prostrato com’era faceva anche fatica a mettere in
ordine i concetti. Era come avere un gran mucchio di cime tutte
aggrovigliate e non avere la forza per addugliarle una per una. “Lo
sai,” si limitò a rispondere.
Stephen gli
accarezzò la fronte e di nuovo gli prese il polso fra le
dita. Per un po’ rimase a valutarlo assorto, infine disse: “Sono
io che dovrei chiedere perdono a te, amico mio.”
Aubrey lo fissò
stranito. Fece per replicare, ma l’altro, serio,
scosse la testa. “Ora basta, devi assolutamente riposare.”
Jack si limitò
ad abbassare le palpebre e di nuovo gli ricomparve
davanti agli occhi la Polychrest che si inabissava e
andava
sempre più giù… sempre più giù...
Maturin gli
contò per l’ennesima volta le pulsazioni, gli sistemò
le fasciature e constatò che le macchie di sangue che le sporcavano
perlomeno non si erano allargate.
La sudorazione
algida forse era diminuita un po’, indubbiamente
grazie ai liquidi che era riuscito a fargli ingerire.
Indugiò con lo
sguardo sulle sue spalle larghe, che si intravedevano
appena sotto la coperta. È forte, si ripeté per
l’ennesima
volta, si
rimetterà.
Si accomodò
meglio sulla sedia che si trovava accanto alla branda:
nessuna forza terrena o ultraterrena sarebbe stata in grado di
smuoverlo da lì fino a che non fosse stato certo che la crisi era
superata. Ripensò a quello che era successo fra loro e tutto gli
parve terribilmente stupido e privo di senso.
Forse aveva
proprio ragione Pitagora, quella faccenda andava scritta
sulla sabbia, così che vento e acqua avrebbero potuto cancellarla
per sempre.
[1] Costa
sottovento.
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