Bracciale di perline

di 09Chia
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Gessato
                                                                                               E briciole di cavalleria
 
 
Ore 9, primo piano, atrio: panico dilagante tra gli studenti che aspettano l’inizio dell’orale. Il professore non è ancora apparso, degli assistenti nessuna traccia.
Solo voci, che ripetono concitate date, nomi, versi riarrangiati in qualche modo per far si che la metrica non metta in luce gli strafalcioni.
-Io è la sesta volta che lo ripeto-
-Zitto guarda, l’ultima volta ha mandato a casa  una perché non si ricordava il secondo nome di Vittorino-
-Ma smettila!-
-Te lo giuro! Me lo ha detto Stefano-
-Ma Dante è prima o dopo S. Francesco?- 
-L’assistente coi capelli corti è incinta, dicono-
-Speriamo abbia la luna dritta-
-Oh, altrimenti si torna il dodici…-
-Sto cavolo. Si passa oggi e basta.-
-Senti, mi provi Petrarca? Controlla le date…-
Si apre la porta dell’ascensore, svelando due figure. Gli sguardi dell’intero corpo studenti sono su quella dell’uomo, a destra.  Indossa, come al solito, un completo blu gessato. Come al solito, la cravatta è stretta, lunga e sottile, in tinta con l’abito. Gli occhiali spessi scivolano sempre un po’ troppo sul naso, i capelli corti sono leggermente imbiancati sulle tempie.
Come al solito, è sepolto sotto una pila di libri: tiene tra le mani una piccola torre di volumi, incastrati sotto al mento per non farli scivolare; sotto al braccio sinistro, la sua inseparabile ventiquattrore. Quando l’ascensore si apre, lui si abbassa e recupera da terra sue pesanti borse di tela stracolme di portalistini e quaderni, e una sottile borsa di pelle. Riesce in un battito di ciglia a disporre tutto quanto in equilibrio e si incammina verso di noi con passo deciso.
Accanto a lui c’è una ragazza sulla trentina con i capelli corti, il vestito beige appena tirato sul ventre svela una leggera rotondità: arrossisce di botto.
«Paolo, lascia stare» tenta di protestare «dammi almeno la mia borsa». Ci superano rapidamente: lei ci rivolge un sorriso rassicurante, con appena un filo di imbarazzo; lui ci saluta con un tonante «Buongiorno, ragazzi» e l’aria disinvolta di chi sta facendo una passeggiata al parco. Come se non fosse sepolto sotto dieci chili di cultura in formato manualistico.
«Non ti preoccupare» lo sentiamo rispondere, qualche passo dopo «Una fanciulla in dolce attesa non deve portare pesi».
Superano la porta dell’aula. Sentiamo che lei dice qualcosa sul fatto che è appena ai primi mesi. Lui appoggia i vari libri sulla cattedra, le rivolge un sorriso e alza le spalle: «Un briciolo di cavalleria non può far male.»
 
Passano le ore, diminuiscono i sussurri agitati. Tanti escono esultanti, qualche lacrima.
Chiamano il mio nome. Quarantacinque minuti di agonia, poi una firma sul libretto e una stretta di mano soddisfatta.
Il professore è più veloce di me a spostarsi dalla cattedra e raggiungere la porta.
«Prego» dice, tenendola aperta e restando rispettosamente di lato, col suo vestito blu gessato e la spontanea eleganza di un gentleman di altri tempi «e complimenti».
Fuori, mi ritrovo assalita da compagni che mi interrogano su domande e richieste dell’esame, e mi fermo a rifletterci solo una volta uscita dal portone, in strada, circondata dal mondo di tutti i giorni dove la galanteria è una cosa da libri.
Eppure anche nella nostra epoca, a piccole dosi, ogni tanto, un briciolo di cavalleria non può far male. Anche se al posto dell’armatura c’è un completo blu gessato.




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