Capitolo XIV
L'autobus
proveniente da Fuji rallentò in prossimità della
fermata e accostò.
Kumi
era
appena scesa, quando sentì una piccola goccia di pioggia
caderle sul viso.
Poi
ne
seguirono altre, che costrinsero lei e altre persone che camminavano
sulla
strada ad accelerare il passo e infine a correre, sollevando la
cartella sopra
la sua testa.
Una
volta
davanti alla porta di casa, sbuffò seccata, ma si
rasserenò nel riscontrare che
si era trattato soltanto del dispetto di una nuvola passeggera, e il
sole aveva
ripreso la sua preminenza in cielo.
«Sono
qui.» gridò, entrando nel salotto dopo essersi
cambiata le calzature nel
vestibolo. «Ciao papà.» disse poi, in
tono più calmo, vedendolo seduto al
tavolo, intento a leggere un quotidiano.
«Ciao
Kumi.» rispose l'uomo alzando gli occhi giusto per l'attimo
necessario a
guardarla in viso, per poi tornare alla sua lettura.
La
ragazza
fece un mezzo sorriso, per nulla stupita.
«Ciao
Kumi! Questa mattina hai ricevuto questo.» le
annunciò Reiko, posando una busta
bianca sul tavolo.
Kumi
la
prese tra le mani e avvertì un colpo al cuore quando lesse
l'indirizzo stampato
sul retro.
Con
gli
occhi sgranati e le labbra socchiuse, sollevò l'ala
superiore della busta e ne
estrasse un foglio su cui era scritto un breve comunicato: poche frasi,
ma che
le mozzarono il fiato.
Le
avevano
risposto più rapidamente di quanto si fosse aspettata
…
Venti
giorni prima Umeko, una sua compagna di classe conosciuta al tanki-daigaku e
come lei appassionata di
manga, le aveva prestato una rivista pubblicata da una piccola casa
editrice,
la cui sede si trovava proprio a Fuji.
«È
stata
fondata pochi anni fa.» le aveva detto la ragazza
«Al momento produce due
riviste, molto piacevoli da leggere. A quanto ne so, vendono bene.
Chissà,
potrebbe espandersi!»
Kumi
era
rimasta colpita favorevolmente da quel giornalino, le cui pagine
ospitavano
manga interessanti e, memore dei suggerimenti di Misaki, aveva inviato
alcuni
suoi disegni all'indirizzo stampato sull'ultima pagina.
«Ho
ricevuto una lettera dalla casa editrice Uchiyama
Shoten. Sono interessati ai miei lavori.»
«Che
casa
editrice è? Non l'ho mai sentita.» chiese Shinji,
inarcando un sopracciglio.
«È
stata
fondata da pochi anni, ha sede a Fuji. Sta cercando nuovi
autori.» spiegò Kumi.
«Credevo
fossi andata a Fuji per studiare.» replicò
sarcastico.
La
giovane
sospirò «Certo. Ma nel contempo, non rinuncio ai
miei sogni.» ribatté.
Shinji
tirò le labbra da un lato «Alla tua età
non avevo questi grilli per la testa.»
«Eppure
è
anche grazie a te se ho cominciato a disegnare.»
affermò Kumi, con un mezzo
sorriso di sfida.
«A
me?»
chiese, con un tono tra lo stupito e l'ironico.
«Sì,
a te.
Perché eri tu quello che fin da piccola mi faceva vedere i
film dei nostri
grandi cineasti, e che mi raccontava antiche leggende. Le stesse storie
che
ispirano i miei disegni.» dichiarò con tono
beffardo, incrociando le braccia e
sporgendosi verso di lui.
Shinji
sembrò esitare, poi aggrottò le sopracciglia
«Non ho mai desiderato che tu
facessi la mangaka. È un lavoro che non dà
nessuna certezza, è troppo legato ai
gusti del pubblico, che cambiano come il soffio del vento.»
«Ci
sono
artisti che hanno saputo attraversare le generazioni.»
«Ah
sì?
Beh, le Rumiko Takahashi e le Naoko Takeuchi si contano sulle dita di
una
mano.»
«Ma
esistono. Voglio sognare, finché
potrò.» ribatté ancora, imperterrita
«Questa
lettera è la dimostrazione che ci sono persone, in quel
settore che vedono in
me del talento e che sono intenzionate a darmi una
possibilità. Sarei stupida a
rinunciare proprio adesso.» insistette, mettendogliela
davanti al naso perché
la leggesse.
Ma
Shinji
sbuffò e allargò le braccia, in una posa teatrale
«Certo, e fuggire così dalla
vita reale. Il club di calcio, i manga … Sai una cosa, Kumi?
È proprio vero,
sei tutta strampalata. Proprio come tua nonna.»
La
ragazza
si alzò di scatto spingendo indietro la sedia
«Lascia in pace mia nonna! Lei è
una sensitiva. È una sua dote naturale, e non l'ha
soffocata.» gridò quasi, con
gli occhi contratti per la rabbia.
«Io
mi
preoccupo per te Kumi, come fanno tutti i genitori per l'avvenire dei
loro
figli!» ribatté Shinji, alzando anch'egli la voce.
«Continuerò
a studiare al tanki-daigaku,
se temi che
io possa lasciare la scuola. Ma cercherò anche di realizzare
il mio sogno. Non
voglio avere il rimpianto di non averci mai provato.» disse,
in tono
definitivo. Prima che suo padre potesse replicare, si alzò
dal tavolo e uscì
dalla porta di casa.
«Kumi!
Dove stai andando?» gridò, ma Reiko gli mise una
mano su un braccio.
«Smettila
di trattarla come una bambina irresponsabile.»
«È
lei che
si comporta così. È mio dovere farle tenere i
piedi per terra.»
«Lei
ce li
ha già, i piedi per terra. Solo che ogni tanto le piace
passare qualche ora in
mezzo alle nuvole. L'importante è che si ricordi di scendere
quando serve. E
finora l'ha fatto.» replicò la donna, con un
ammicco.
Shinji scosse la testa, con una
smorfia divertita, suo
malgrado «Kumi somiglia a te e a tua madre, da me ha preso
poco o nulla.»
affermò, guardando il bel viso di sua moglie, ancora
giovanile nonostante fosse
vicina a compiere quarant'anni. Si erano sposati appena maggiorenni,
quando
Reiko era già incinta di Kumi.
Era
stata
una gravidanza difficile … la donna era stata costretta a
passare gran parte di
quel periodo a letto, per non perdere la bambina. Ricordava ancora con
nitidezza l'angoscia patita in quei mesi che sembravano non dover
terminare mai
…
Era ancora bella, i lunghi capelli
castani e gli occhi di
un colore poco più chiaro di quelli di Kumi. E anche se a
vederla ora sembrava strano
da credere, anche Sakamae, la nonna, aveva avuto quell'aspetto, da
giovane.
Erano tutte e tre donne vivaci, entusiaste, curiose.
Lui,
che
era un sarariman
anche nell'aspetto con
i suoi corti capelli neri sempre in ordine e il suo impeccabile
completo in
giacca e cravatta, aveva trovato in Reiko una compagna allegra e con un
atteggiamento sempre positivo, un antidoto alla noia e al grigiore che
avrebbero altrimenti ammorbato la sua vita.
«Non
è
esatto. La cocciutaggine è tale e quale.» lo
punzecchiò «E anche se non ci
credi, è una ragazza con la testa sulle spalle. Non ha mai
saltato un giorno di
scuola, ha sempre avuto bei voti, sta studiando con impegno anche al tanki-daigaku.
Sarebbe onesto
riconoscerglielo, da parte tua.»
Shinji
strinse le labbra «Avrebbe avuto voti più alti, se
non avesse perso tempo con
il club di calcio e con i manga. Come la figlia degli Shimokawa, che
studia in
uno degli atenei più prestigiosi del Giappone.»
«Madoka
è
naturalmente portata per lo studio e ha altre aspirazioni.»
puntualizzò Reiko
«Comunque non devi preoccuparti. Kumi non si
perderà per strada. Sei tu
piuttosto, che devi fare attenzione. Hai sempre criticato le sue
passioni, i
suoi hobby, i suoi sogni. Continuando così,
finirà per odiarti e tu perderai
tua figlia.»
Shinji
sospirò e incrociò le braccia, stringendo ancora
le labbra.
Reiko
si
sedette di fronte a lui e si sporse sorridente, appoggiandogli una mano
su un
braccio.
«Non
è
così difficile, sai? Trova un compromesso, proprio come sta
facendo lei.»
I tifosi giapponesi, per la maggior
parte in piedi sugli
spalti del National Stadium di Tokyo, trattennero il respiro nel vedere
il tiro
potente e preciso di Mark Al Owairan dirigersi verso la porta del
Giappone.
Mancavano
pochi minuti al termine della partita e la Nazionale del Sol Levante
stava
vincendo per 1-0. Un risultato fondamentale con cui i calciatori
nipponici
stavano per togliere di mezzo la diretta rivale per la qualificazione
al
secondo posto del girone.
Ishizaki
respinse con la faccia il pallone lanciato dal capitano saudita.
I
supporter locali esultarono come se il difensore avesse segnato un gol.
Izawa
recuperò la sfera e ingannò gli avversari
fingendo un disimpegno.
Effettuò
invece un passaggio verso l'accorrente Misaki, che a sua volta
eseguì uno
splendido lancio in direzione di Nitta, che stava correndo velocissimo
verso la
porta, in posizione regolare. L'attaccante si trovò solo
davanti al portiere e
lo spiazzò con il suo potente tiro di destro.
Dopo
pochi
minuti, l’arbitro fischiò per tre volte nel
fischietto, decretando la fine
della partita tra Giappone e Arabia Saudita.
I
calciatori dell’Under 23 giapponese levarono le braccia al
cielo e strinsero i
pugni, esultando compostamente.
Il
primo
tassello era stato posto.
Mark
Al
Owairan, il giovane capitano saudita, si passò una mano sul
viso per asciugare
il sudore misto a qualche silenziosa lacrima e si diresse verso Taro
Misaki,
che aveva appena dato una pacca sulla spalla al portiere Morisaki che
non aveva
fatto passare un solo tiro, nemmeno quelli più insidiosi,
come se lo spirito di
Wakabayashi si fosse in parte trasferito dentro di lui.
«Complimenti,
Misaki. Diventi più forte di partita in partita.»
sorrise, tendendogli una
mano.
«Grazie.
Anche tu e i tuoi compagni vi siete fatti onore.»
replicò, stringendogliela.
Mark
assentì con il capo.
«Il
sogno
olimpico per noi finisce qui, Misaki. Ma come membro della famiglia
reale e
giocatore della Nazionale saudita, onorerò questa maglia
anche contro
l'Australia e giocherò con il massimo impegno.»
«Grazie
Mark. Ho fiducia nelle tue parole.»
Taro
scese
dall'autobus che dalla stazione di Tokyo lo aveva portato a Nankatsu.
Kira
aveva
concesso un paio di giorni di riposo, prima delle partite con Vietnam e
Australia, tra le quali non ci sarebbero state pause, e lui aveva
deciso di
approfittarne per trascorrere un po' di tempo con suo padre, che non
vedeva da
settimane per via del suo soggiorno in Corea del Sud.
Giunto
in
prossimità della sua abitazione, i suoi occhi vennero
attirati da qualcosa di
insolito.
La
Toyota
Yaris parcheggiata davanti all'entrata di casa, con i fanali rivolti
verso
l'esterno, testimoniava la presenza di ospiti. Si chiese chi potesse
essere
arrivato.
Attraversò
il vialetto lastricato che portava all'ingresso dell'abitazione e
aprì la
porta.
Incontrò
subito suo padre nel vestibolo. Stava per rientrare in salotto, ma si
era
voltato nel sentire la maniglia della porta abbassata.
«Sei
solo
in casa?» chiese, guardandosi intorno alla ricerca di altre
persone.
«Certo.
Chi altro dovrebbe esserci?»
«C'è
un'auto lì fuori. Credevo fosse venuto qualcuno.»
«Ah,
quell'auto?» disse in tono di apparente noncuranza,
dirigendosi verso la porta
e invitandolo a uscire con lui.
Nel
giardino, Ichiro guardò la Toyota e poi si voltò
verso Taro, con un sorriso.
«Papà
…»
mormorò il ragazzo, dopo aver trattenuto il fiato.
Ichiro
annuì e gli afferrò le spalle «Buon
compleanno, figlio mio.»
Taro
guidava lungo una
strada poco trafficata, diretto a Fuji, il luogo scelto dal padre come
soggetto
del suo nuovo quadro.
Perché
non poteva
tralasciare proprio la città omonima del vulcano per cui
provava da sempre un
misto di venerazione e soggezione, anche dopo aver realizzato l'opera
che gli
era valsa un premio prestigioso.
Gli
occhi
di Ichiro erano fissi sul paesaggio costiero che scorreva davanti ai
loro
occhi, deciso a coglierne nuovi particolari.
Era
tornato dal suo breve soggiorno in Corea del Sud portando con
sé nuove tele, in
cui aveva ritratto paesaggi suggestivi, come sempre lontani dal caos,
dalla
frenesia, dal sovraffollamento cittadino. Campagne, periferie,
località in riva
al mare. Quei paesaggi di cui troppo spesso ci si dimenticava
l’esistenza o cui
non veniva data adeguata considerazione.
E
ora
aveva ripreso a dedicarsi al suo amato Giappone, e soprattutto al Monte
Fuji
cui aveva intenzione di dedicare una serie di quadri come aveva fatto
Hokusai
con le sue "Trentasei vedute".
Gli
occhi
di Ichiro erano piccoli, ma sapevano cogliere dettagli che ad altri
sfuggivano.
La
contemplazione dei paesaggi e della natura era ciò che
l’aveva affascinato e
appassionato fin da bambino, al punto da voler passare la sua vita a
imprimere
ognuna di quelle manifestazioni su una tela, quando aveva scoperto che
esisteva
un mestiere bellissimo: quello del pittore.
Abbassò
la
testa sulla fotocamera, scorrendo le immagini che Taro aveva scattato
nella sua
breve permanenza a Sendai. Taro abbracciato a Yumiko e con le mani
sulle spalle
della sorella Yoshiko, e altre foto che lo ritraevano con la famiglia
Yamaoka
al completo, un'altra ancora in cui era seduto al tavolo con Taisho, la
sera
della cena organizzata per festeggiare i suoi ventun anni.
«Sai
papà
… ora che ho un ottimo rapporto anche con la famiglia della
mamma, mi
piacerebbe festeggiare un compleanno in cui siamo tutti
insieme.» gli confidò
Taro dopo quei minuti di silenzio, come se avesse captato i suoi
pensieri.
Ichiro
annuì, con aria assorta «Sì, sarebbe
bello.»
Una
volta a Fuji, Taro
parcheggiò di fronte a un bar-ristorante, a poca distanza da
una radura da cui
il grandioso vulcano offriva una vista a dir poco emozionante.
Sembrava
così grande e
così vicino …
Ichiro
si diresse
verso quel luogo, riempiendosi gli occhi di ogni elemento di quello
scenario.
Vagò
per il terreno,
quasi misurando i passi, poi appoggiò il cavalletto sul
punto da lui scelto.
Posizionò la tela e il secchio, prese la tavolozza, il
pennello e cominciò a
mischiare i colori, osservando il paesaggio davanti a sé.
«Sai
Taro» disse
voltandosi verso il figlio, in piedi qualche passo dietro di lui
«Ho sempre
visto in te qualcosa di tua madre. I lineamenti del viso, il taglio e
il colore
degli occhi, li hai presi da lei. E anche la riservatezza, quella
straordinaria
emotività che ha rischiato di distruggerla.»
«Non
si è
fatta sentire per dieci anni … le ho chiesto il
perché e mi ha risposto che
temeva di non essere una buona madre, per me … che aveva
dovuto ricostruire sé
stessa, e mi ha lasciato con te perché sapeva che mi avresti
cresciuto con
amore e con attenzione. Poi mi ha guardato come per pregarmi di non
chiederle
altro.»
Ichiro
chinò
leggermente la testa, con un sorriso triste «Vedi Taro,
quando stavamo insieme,
io mi spostavo spesso per il mio lavoro, e Yumiko mi
seguiva.» si interruppe ed
emise un sospiro impercettibile. Stava per rivelare a Taro un periodo
doloroso
e penoso della loro vita, e aveva scelto di tacerlo per non
instillargli l'idea
sbagliata che lui ne fosse stato la causa. Ma adesso suo figlio era un
uomo, ed
era giusto che conoscesse tutto di un passato che riguardava anche lui.
«Quando
rimase incinta di te, lasciò momentaneamente gli studi e mi
seguì finché il suo
fisico glielo permise. Poi ci stabilimmo a Kobe, la sua
città natale. Poche
settimane dopo la tua nascita, a tua nonna, la madre di Yumiko, venne
diagnosticato un tumore al pancreas. Era già in fase
avanzata e i medici da
subito non avevano dato speranze di guarigione. Tuttavia, Yumiko non si
perse
d'animo: accompagnava sua madre alle sedute di chemioterapia, le
comprava e le
somministrava le medicine, le stava accanto nei momenti peggiori,
quando
vomitava tutto quello che mangiava e beveva …»
raccontò, con un lieve
abbassamento della voce, mentre gli occhi di Taro divenivano sempre
più
sconvolti.
Sua
madre
non gli aveva mai raccontato nulla … sapeva che la sua nonna
materna era morta
pochi mesi dopo la sua nascita, ma aveva sempre ignorato tutti i
particolari
che Ichiro gli stava raccontando.
«Io
rimanevo a casa ad occuparmi di te, lei quando poteva tornava e ti dava
da
mangiare, mi aiutava a cambiarti il pannolino, a farti giocare
… ti cantava la
ninnananna.» ricordò ancora Ichiro, con un sorriso
triste «Non ti ha
trascurato. Cercava di dare la giusta attenzione a te e a tua nonna. Ti
abbiamo
desiderato entrambi, Taro. Purtroppo la situazione della madre di
Yumiko era
compromessa e lei era l'unica che poteva starle costantemente accanto e
aiutare
suo padre, perché sua sorella viveva a Okinawa con la sua
famiglia, e raramente
veniva a Kobe.»
Guardò
ancora Taro, che lo stava ascoltando attentamente e con gli occhi lo
esortò a
continuare. Ichiro trasse un altro profondo respiro e
raccontò infine l'ultima
parte di quella storia, quella più angosciosa per quella che
era stata la
famiglia Misaki … una famiglia sfaldatasi poco dopo essersi
formata …
«Tua
nonna
morì pochi mesi dopo. Yumiko ebbe un esaurimento nervoso e
cadde in
depressione. Non riprese gli studi come era sua intenzione.
Cominciò a soffrire
di disturbi alimentari, diventò aggressiva verso gli altri,
anche verso di te.
Una notte, tu cominciasti a piangere e lei si alzò di scatto
e ti sollevò dalla
culla. Credevo ti avesse preso in braccio per cercare di
tranquillizzarti,
invece iniziò a gridare, a scuoterti … mi fiondai
su di lei e ti strappai
letteralmente dalle sue mani. Non si poteva più andare
avanti così … e la
convinsi a ricoverarsi in una clinica. Io nel frattempo, per motivi di
lavoro
dovetti lasciare Kobe e ti portai con me. Il padre di Yumiko non fece
nulla per
trattenermi, anzi mi invitò a non farmi più
vedere finché sua figlia non fosse
completamente guarita … non aveva mai visto di buon occhio
la mia relazione con
lei… non ero il classico impiegato, con un posto di lavoro e
uno stipendio
fisso. E ovviamente ha dato la colpa a me, di quello che le era
capitato.»
Taro
strinse le labbra. Non aveva mai conosciuto suo nonno, sapeva solo che
era
anziano e viveva ancora a Kobe. Yumiko non ne parlava spesso, e quello
che gli
aveva raccontato suo padre eliminò ogni briciolo di
desiderio di conoscerlo.
«La
mamma
non me ne ha mai parlato …» mormorò.
«È
normale, Taro. Tutti tendiamo a vergognarci del male che facciamo agli
altri e
a noi stessi, quando ce ne rendiamo conto. E non parlarne è
un po' come fingere
che non sia accaduto e minimizzarne le conseguenze.»
Il
ragazzo
abbassò la testa e strinse le labbra. Agli angoli degli
occhi erano comparse
due piccole lacrime.
«Sono
passati tanti anni senza vederci … lei nella mia infanzia
non c'è mai stata …
ma ora abbiamo un buon rapporto, e non ci voglio rinunciare.»
Ichiro
annuì e gli mise una mano su una spalla «Se
accetti un consiglio, Taro … quando
ti legherai a una donna … amala, proteggila, ma non
permetterle di dipendere da
te. Deve avere una sua personalità,
un'individualità, dei sogni suoi.
Altrimenti finirete per soffrire entrambi.»
Taro
attraversò la strada e si recò al bar-ristorante
di fronte al parcheggio in cui
aveva lasciato la sua nuova auto. Ichiro stava dipingendo
ininterrottamente da
quasi un'ora e il giovane calciatore aveva deciso di andare a
prendergli un
caffè e qualcosa da mettere sotto i denti.
Si
trovava
da poco davanti al bancone in attesa di essere servito, quando si
sentì
chiamare da una squillante voce femminile. Una voce che ormai conosceva
bene …
Si
voltò e
vide Kumi che agitava una mano, seduta a un tavolo con un'altra ragazza
dai
corti capelli castani che lo guardava incuriosita.
«Sugimoto!»
rispose con un sorriso, e si avvicinò. L'altra ragazza stava
di fronte a lei,
probabilmente una sua compagna di scuola. Kumi gli presentò
Umeko e i due si
salutarono con un cenno del capo.
«Hai
terminato i corsi?» chiese poi all'ex manager.
«Quelli
del mattino, ma tra non molto iniziano quelli pomeridiani.»
In
quel
momento sentirono il rumore di una sedia spostata all'indietro.
«Kumi,
io
vado avanti. Ci vediamo dopo, a scuola.» le
annunciò Umeko strizzandole un
occhio e salutando nuovamente Taro, il quale andò a sedersi
sulla sedia
imbottita lasciata libera.
«Sai»
disse Kumi «Un paio di settimane fa ho inviato alcuni miei
disegni alla Uchiyama
Shoten, una casa editrice di questa
città.» si interruppe e lo guardò,
attendendo la sua reazione.
«Hai
fatto
bene.» rispose, con un cenno di approvazione «Hai
già ricevuto una risposta?»
Kumi
annuì, con gli occhi che brillavano come quelli di una bimba
«Sì. Ieri mi è
arrivata una loro lettera, e sono interessati. Vogliono che li chiami
per
fissare un appuntamento e presentarmi alla sede con altri miei
lavori.»
«Ma
è
splendido!» esclamò Taro, esprimendo un entusiasmo
quasi pari a quello
dell'amica.
Kumi
sollevò le labbra, scoprendo i denti in un sorriso pieno di
gioia. La gioia di
aver ricevuto una così bella notizia, aggiunta a quella di
vedere il ragazzo
che amava parteciparvi sinceramente …
«È
merito
tuo se ho preso questa decisione. Mi sono ricordata di quello che mi
hai detto
due mesi e mezzo fa, alla cartolibreria.» disse.
Taro
avvertì un intenso calore invadere il suo petto, a quelle
parole. «Hai
intenzione di accettare?»
«Credo
di
sì, indipendentemente dall'esito del concorso. In fondo,
vincerlo significa
fare uno stage alla Shogakukan,
certo
sarebbe un'esperienza fantastica ma non è detto che poi mi
assumano.»
«E
tuo
padre lo sa?» le chiese Taro, ricordandosi di quello che gli
aveva raccontato
sulla ferrea opposizione del signor Sugimoto a quel progetto.
Kumi
smise
di sorridere e tirò le labbra da entrambi i lati
«Sì … ero seduta a tavola con
lui quando la mamma mi ha dato la lettera. Non l'ha presa bene. I
soliti
discorsi: devo pensare a studiare, disegnare non mi darà un
futuro stabile,
sono un'illusa … e altre amenità.»
concluse, appoggiando il mento su una mano e
abbozzando un sorriso amaro.
«È
una
convinzione radicata nella società, Sugimoto …
molti faticano a metterla in
discussione.»
«So
che in
fondo lui si preoccupa per me. Ma questa mancanza non dico di
approvazione, ma
di comprensione … me lo rende lontano. E questo mi
dispiace.» disse, stringendo
le labbra, e mostrandogli per la prima volta degli occhi malinconici e
sofferenti.
«Pensare
che quando ero bambina» riprese poi, giocherellando con gli
angoli di un
tovagliolo «mi faceva vedere i classici del cinema
d'animazione e i film dei
grandi registi. Quando ero piccola, di ritorno dal lavoro mi portava
sempre
qualche rivista piena di fumetti o dei libri illustrati. In un certo
senso, è
stato lui a far nascere dentro di me questa passione. E ora che vorrei
farne un
lavoro, cerca di convincermi che non ne vale la pena.»
«Sono
sicuro che con tuo padre le cose si sistemeranno, prima o poi. Intanto,
hai già
delle persone che ti sostengono: tua madre, le tue amiche, e anche io
ed Elena
apprezziamo molto i tuoi disegni.»
Kumi
sorrise e assentì con il capo «Grazie Misaki. Le
tue parole mi fanno capire che
non sono sola.»
«No,
Sugimoto. Non sei sola.» ribadì lui, guardandola
con un sorriso teso a
confortarla e incoraggiarla.
I
due
tennero lo sguardo l'uno sull'altra per alcuni secondi, poi lei
sgranò gli
occhi e alzò il braccio per controllare il suo orologio da
polso.
«Devo
andare. Tra pochissimo comincia la lezione. Arriverò
sicuramente in ritardo.»
esclamò, alzandosi e prendendo la sua cartella posata per
terra.
«Non
perdi
mai il vizio, eh?» la punzecchiò Taro, con bonomia.
Kumi
lo
guardò stupita, e Taro fece una smorfia, imbarazzato.
«Scusami.
È che mi sono ricordato di quando arrivavi di corsa a scuola
e ti fiondavi in
fretta nella tua classe.»
La
giovane
chinò la testa e ridacchiò
«Già. Dovevo essere proprio buffa.»
Taro
rise
di rimando «Comunque ho l'auto parcheggiata qui fuori. Se
vuoi ti do uno
strappo fino al tanki-daigaku.
Non so se
servirà a evitarti il ritardo, ma almeno guadagnerai qualche
minuto.»
«Va
… va
bene.» rispose stupita. Era tutto così
… bello, così inaspettato da sembrarle
irreale.
Taro
comprò due filoni di pane e due lattine di caffè,
Kumi pagò il conto del suo
pranzo, e i due ragazzi uscirono nel piazzale antistante il locale.
Il
sole
dominava nel cielo azzurro, solo poche nuvole scorrevano lente, senza
attenuarne lo splendore. Un vento lieve giocava con i capelli di Kumi.
Il
calciatore aprì cavallerescamente la portiera del lato
passeggero della sua
auto, permettendole di prendere posto e accomodarsi. Poi,
andò a mettersi alla
guida.
Dopo
pochi
minuti arrivarono davanti al cancello ancora aperto della scuola.
Kumi
guardò ancora una volta il suo orologio e lanciò
un gridolino di gioia «Sono
puntuale! La lezione inizia tra tre minuti!»
cinguettò, suscitando in Taro una
smorfia divertita. Recuperò la sua cartella, scese e si
chinò leggermente, per
ringraziarlo attraverso il finestrino abbassato.
Il
ragazzo
fece un cenno del capo e la salutò, prima che lei si
voltasse e si mettesse a
correre verso l'entrata.
Mantenne
gli occhi su di lei finché non la vide aprire la porta e
sparire all'interno
dell'edificio.
Rimise
in
moto e si diresse verso la radura dove suo padre stava ancora
dipingendo.
«Papà,
che ne dici di
fermarti e fare una pausa? A pancia piena si dipinge meglio.»
«Aspetta
…
l’ispirazione non va interrotta.» rispose Ichiro,
sfumando la chioma di un
albero con il pennello.
Taro
accennò una
risata «È sempre così quando lavori a
un quadro … perdi la cognizione del tempo
e ti dimentichi perfino di mangiare.»
Il
pittore alzò la
testa, tenendo il pennello stretto tra le dita e si voltò
verso il figlio, con
un’espressione di bonario rimprovero «E tu
dimentichi tutte le volte che sei
arrivato in ritardo per la cena, perché eri rimasto al campo
di calcio?»
Taro
alzò le spalle «Touché.»
«A
ogni modo hai
ragione, è meglio fare una pausa.» disse,
riponendo il pennello e la tavolozza
e prendendo la lattina di caffè che il figlio gli stava
porgendo.
Poi
Taro stese una
tovaglia sul prato.
Ichiro
lasciò
momentaneamente il suo lavoro e si sedette, prendendo un filone di pane.
«Con
ogni probabilità,
sarà una delle ultime giornate che potremo passare
così, Taro.» disse,
spezzandolo in due parti.
Sentiva
che dopo
quell’estate, avrebbe preso il volo. Anche con la
qualificazione alle Olimpiadi
in bilico, Taro aveva attirato l’interesse di importanti
squadre europee:
l’Atlético Madrid, il Siviglia, il Borussia
Dortmund, l’Arsenal e quel Paris
Saint Germain che era stato a un passo dall’ingaggiarlo,
prima che quel
maledetto infortunio facesse sfumare tutto.
Lui,
lo aveva già
deciso, sarebbe rimasto in Giappone.
Le
immagini di suo
figlio comparivano con sempre maggiore frequenza sui quotidiani e
riviste
specializzati, la sua maglietta dello Jubilo Iwata era ancora la
più venduta, e
le sue giocate, le movenze con cui aveva superato avversari forti e con
maggiore esperienza internazionale erano spesso proposte dalle
trasmissioni
sportive.
Era
considerato già
uno dei centrocampisti più promettenti della nuova
generazione che avrebbe dato
lustro al calcio internazionale nel decennio successivo.
Genzo
si
arrestò davanti al complesso sportivo Shiroyama. Rimase
fermo per qualche
minuto davanti all'entrata, riprendendo fiato.
Era
stato
operato e ora doveva osservare un periodo di convalescenza.
Il
dottor
Ikebe gli aveva detto che c'erano ottime probabilità di un
recupero più rapido
rispetto ai tempi previsti.
Le
sue
lezioni di kickboxing erano finite anzitempo, e incapace di starsene a
casa a
vagare per il grande giardino, aveva indossato una tuta ed era andato a
fare
una corsa per la città.
Spinse
la
porta, salutò la segretaria e si diresse verso la palestra
in cui si insegnava
ginnastica artistica. Non vi si stava svolgendo nessuna lezione
… ma c'era lei.
Era
accanto a una vaschetta e si stava cospargendo le mani di polvere di
magnesio.
Si
apprestava a eseguire un esercizio alle parallele …
quell'attrezzo che per
tanto tempo non era riuscita ad affrontare.
Con
un
salto afferrò lo staggio inferiore e fece una prima,
semplice capovolta.
Eseguì
alcuni volteggi, saltando con scioltezza da uno staggio all'altro.
Poi
tentò
alcune combinazioni più difficili.
Una
verticale a gambe unite e tese, per poi fare una capovolta e darsi una
spinta
al termine della quale si ritrovò nella medesima posizione,
per poi lasciare la
presa sullo staggio inferiore e cercare di afferrare quello superiore.
Era
uno Shaposhnikova,
come gli aveva detto Arimi
quando l'aveva visto alla kermesse di Numazu.
Forse
era
stato allora che si era reso conto di quanto Elena lo affascinasse.
Il
modo in
cui incitava, incoraggiava, riprendeva e consolava le sue ragazze lo
aveva
coinvolto e colmato d'ammirazione, e aveva alimentato il desiderio di
conoscere
ancora di più, su di lei.
Un
errore
della ragazza lo fece sussultare.
Elena
mancò di poco la presa e ricadde sul materassino. Rimase con
le ginocchia
piegate e portò le mani sulle cosce. Inspirò
profondamente, e rilasciò un lento
sospiro.
Era
il
primo esercizio che stava cercando di svolgere per intero, dopotutto. E
aveva
provato un elemento difficile, forse troppo per lei che aveva ripreso
dopo un
anno.
«Ti
sei
fatta male?» le chiese Genzo, avvicinandosi a passo rapido.
La
ragazza
trasalì e alzò la testa, guardando dapprima
davanti a sé, per poi voltare il
viso verso di lui. Era a pochi passi dal materasso, nello spazio tra le
due
parallele.
«No,
non
mi sono fatta niente. Capita spesso di cadere dalle
parallele.» spiegò, con un
leggero sorriso.
Genzo
fece
un cenno d'assenso con il capo, e le tese una mano.
Lei
scosse
la testa, facendo dondolare la coda in cui aveva legato i suoi capelli
«Una
ginnasta deve sapersi rialzare da sola.» disse con voce
pacata, e con una
spinta si sollevò sulle gambe segnate da alcuni lividi,
parzialmente coperti
dalla polvere di magnesio che era sparsa anche sulla canottiera e i
pantaloncini che indossava.
Soffiò
sui
palmi delle mani, dove la pelle era screpolata.
«Ti
fanno
male?»
Elena
fece
una piccola smorfia «Vesciche … non ci sono
più abituata.» sorrise ancora.
I
suoi
occhi brillavano. Era la stessa luce che vedeva negli occhi dei suoi
compagni
quando giocavano a calcio e che di certo aveva anche lui stesso.
Ma
il suo
tono sembrava più … freddo, rispetto ai loro
precedenti incontri.
Si
stava
ritraendo di nuovo nel suo guscio.
«Vedo
però
che non hai intenzione di fermarti.» continuò lui,
senza lasciarsi scoraggiare.
Elena
annuì «La grande Nadia dice che l’unico
modo per sconfiggere le proprie paure è
correre verso di loro e calpestarle sotto i piedi.»
Genzo
fece
un sorriso d'approvazione.
Le
si
avvicinò e le prese le mani. I palmi avevano delle
sbucciature, contornate da
altra polvere di magnesio, di cui alcuni granelli si erano depositati
anche sui
ciuffi di capelli sfuggiti all'elastico.
«Le
mani
sono importanti anche per una ginnasta.» mormorò,
sfiorandole piano, con una
delicatezza impensabile per quelle mani così grandi,
disegnandone i contorni
con lievi tocchi delle dita.
Elena
ne
osservò i movimenti e quella stretta ormai familiare quando
si trovava accanto
a lui, quel calore che si irradiava dal petto, la invase.
La
ginnastica artistica era un mondo in cui le sue preoccupazioni e i suoi
turbamenti non esistevano. Quando si allenava o si apprestava a fare un
esercizio, dimenticava tutto. I pensieri, le preoccupazioni, le angosce
… si
dissolvevano. Era come entrare in un'altra dimensione.
E
Genzo
stava irrompendo anche lì … non poteva
permetterlo.
«Genzo
…
non invadere il mio mondo … l’unico in cui mi
sento al sicuro.» gli disse,
sfilando le mani dalle sue dita.
Lui
la
guardò. Quegli occhi azzurri sembravano diventati due gemme
dure.
«Al
sicuro? Elena … parli come se avessi paura di me
…» replicò, guardandola dritto
negli occhi. Le sue iridi, nonostante fossero contornate dalla maschera
protettiva, sembravano più larghe … la ragazza
sentì che si sarebbe persa, se
le avesse guardate un secondo di più.
Arrossì
e
distolse lo sguardo.
Genzo
strinse le labbra e si allontanò di pochi passi.
«Vado.»
disse «Stasera sarò al Tokyo Dome a vedere il
match di Carlo.» le annunciò, per
poi voltarsi e avviarsi verso l'uscita della palestra.
Elena
era
rimasta nella stessa posizione e si riscosse solo quando udì
la porta
chiudersi.
I
suoi
occhi erano umidi. Il cuore batteva sempre forte, più forte
di quanto volesse …
Nei
primi
mesi successivi all'allontanamento di Gianluca, si addormentava
desiderando di
risvegliarsi in un giorno qualsiasi purché fosse precedente
a quello
dell'incidente.
Ma
ogni
giorno riapriva gli occhi, rendendosi conto inevitabilmente che era
sempre un
nuovo domani, anche se le sue giornate avevano preso a susseguirsi
tutte
uguali.
Pensava
al
futuro senza slancio, senza stimoli. Vedeva soltanto il vuoto
… poi le vacanze
natalizie avevano portato Carlo a Roma, dove le aveva proposto di
passare un
periodo in Giappone.
E
lì aveva
trovato più di quanto si fosse aspettata … forse
persino più di quanto avesse
sperato e voluto.
Aveva
riscoperto la sua passione per la ginnastica artistica, aveva fatto
nuove
amicizie, aveva rincontrato Taro e conosciuto una ragazza piena di
energia ed
entusiasmo come Kumi. E poi … aveva conosciuto anche Genzo.
Un ragazzo dal
carattere forte e determinato, ma anche sensibile e generoso. Un vero
amico. Ma
negli ultimi tempi l'ammirazione e l'affetto verso di lui erano
progressivamente cresciuti, e ora aveva paura di dire fino a che punto.
Sì
… aveva
paura dei suoi sentimenti. Sentiva che non doveva stargli accanto
troppo a
lungo, perché anche quando pensava di aver eretto una
barriera, lui riusciva
sempre a indebolire, pian piano, le sue difese. Anche solo guardandola
e
pronunciando il suo nome … con lui, ormai, era come
camminare su un filo
sottile.
Era
affascinata e temeva che uno sguardo o un gesto in più da
parte di lui
avrebbero potuto causare qualcosa che le avrebbe procurato un senso di
colpa
indelebile.
Anche
perché ormai riteneva di conoscerlo abbastanza bene per
essere certa che non
stava fingendo, non si stava divertendo a darle attenzioni di cui
sentiva la
mancanza.
Ma
ogni
volta che Genzo si avvicinava a lei, ogni volta che la guardava, il
pensiero di
Gianluca bloccato in un letto, incapace di muoversi, la faceva sentire
meschina
per sentirsi attratta da un ragazzo che era la personificazione della
salute e
della forza fisica e interiore.
Era
quasi
felice che il fidanzamento con quella bellissima ereditiera costituisse
un
ostacolo che il portiere evidentemente ancora non voleva o non poteva
rimuovere.
Anche
se i
suoi sentimenti per lui non erano più quelli dei suoi primi
mesi in Giappone.
Chiuse
gli
occhi, sentendosi improvvisamente più fiduciosa.
In
fondo …
avrebbe dovuto tenere duro soltanto poco più di un mese,
ossia quanto mancava
alla fine dell'esperienza alla palestra Shiroyama e al ritorno in
Italia.
Ce
l'avrebbe fatta.
Cominciò
a
camminare a passo più svelto già a pochi metri di
distanza dalla palestra, per
poi riprendere gradualmente il ritmo di corsa.
Che
si
aspettava? Elena pensava ancora al suo ex ragazzo, e lui frequentava
Asami.
Asami
…
l'avrebbe vista anche quella sera, perché sarebbe andato a
cena con lei e poi
insieme, a vedere il match.
Già,
finito l'incontro avrebbe presentato a Carlo quella che era ormai
considerata
la sua fidanzata ufficiale.
E
poi
l'avrebbe accompagnata a casa e lì avrebbe fatto l'amore con
lei, come sempre.
Anche
se
il giorno dopo aveva un esame.
Tutto
questo mentre Elena sarebbe rimasta a casa perché in quel
periodo alla palestra
il lavoro era raddoppiato e ormai la teneva impegnata anche al mattino.
Mancava
poco più di un mese, poi lei sarebbe tornata in Italia
… doveva capire cosa
voleva davvero, prima che uscisse dalla sua vita, lasciandogli soltanto
domande
cui non avrebbe mai potuto dare una risposta.
Accolti
dagli applausi e dalle grida di incitamento degli spettatori che
avevano
riempito il Tokyo Dome, in una scenografia con sfondo scuro illuminata
dai
riflettori e dai flash dei fotografi, i due contendenti, il tedesco di
origini
per metà italiane Carlo Nerlinger e il giovane astro
nascente, il serbo Dragan
Iljanovic fecero il loro ingresso sul ring, accompagnati dai rispettivi
allenatori e secondi uomini, introdotti da un'entusiastica
presentazione in
stile americano.
Dopo
le
rituali spiegazioni delle regole da parte dell'arbitro, il match ebbe
inizio.
Carlo
fece
subito valere la sua esperienza attaccando Iljanovic con una
combinazione di
calci e pugni che lo disorientarono.
Poi
il
giovane serbo riuscì a recuperare terreno e fu il suo turno
di sferrare calci e
pugni dalla potenza micidiale, alle gambe, ai fianchi, alla testa.
Carlo
resistette eroicamente in piedi, fino al termine del primo round.
All'inizio
del secondo round, dopo pochi minuti passati dal gong, Dragan
trovò la
combinazione risolutiva.
Il
giovane
serbo colpì Carlo con un calcio al fianco sinistro, e con i
pugni riuscì a
sfondare la sua difesa. Lo colpì di nuovo, stavolta dal lato
sinistro, con un
calcio alla testa che lo fece cadere a terra.
I
dieci
secondi della conta dell'arbitro passarono tutti, senza che Carlo
riuscisse a
rialzarsi. Dragan corse verso uno degli angoli del ring, e
sollevò braccia e
pugni, esultando mostrando un sorriso da bambino felice, coperto dal
paradenti.
L'arbitro
alzò il braccio del nuovo campione, mentre Carlo, rialzatosi
con l'aiuto di
Akinori Shiroyama e del suo secondo, il suo allievo Ieshige Honda,
sorrideva
orgoglioso, come sempre, e dopo la proclamazione andò ad
abbracciare il suo
erede.
Genzo
applaudì, dispiaciuto per la sconfitta del suo maestro, che
usciva comunque dal
ring a testa alta, ma convinto che avesse perduto contro un degno
avversario.
Asami
applaudiva e sorrideva accanto a lui.
«È
stato
davvero un bell'incontro. Breve, ma emozionante.»
commentò, alzando leggermente
la voce per farsi sentire in mezzo alla salva di applausi e grida
d'incitamento.
Genzo
fece
un cenno d'assenso. Un pensiero si fece strada nella sua mente, e per
un attimo
lo spiazzò. Si chiese se Elena si sarebbe limitata a un
commento tutto sommato
banale come quello appena espresso dalla sua ragazza.
Si
affrettò a scacciarlo, alzandosi in piedi e tendendole una
mano.
«Vieni,
ti
faccio conoscere il maestro Nerlinger.»
Lei
abbassò la testa in segno d'assenso e intrecciò
le dita con le sue, per poi
alzarsi a sua volta.
Avevano
quasi percorso tutta la fila delle poltrone su cui erano stati seduti
quando
furono raggiunti da uno Ieshige sudato e agitato.
«Honda,
che succede?» chiese Genzo, esprimendo nella sua voce
l'angoscia mostrata dal
giovane allievo.
«È
terribile, Wakabayashi!» rispose, con voce rotta
«Il maestro Nerlinger … io e
il maestro Shiroyama lo abbiamo trovato nello spogliatoio, disteso per
terra …
svenuto! Respira, ma non risponde … non si sveglia! Abbiamo
chiamato i
sanitari. Stanno per portarlo in ospedale.» spiegò
concitato, davanti
all'espressione sempre più inorridita di Genzo e al viso
preoccupato di Asami,
che strinse le mani attorno al braccio del fidanzato.
«Io
e il
maestro Shiroyama adesso andiamo con lui allo Juntendo
Hospital.»
«Va
bene,
Honda. Io vi raggiungerò più tardi.»
disse, dandogli una leggera pacca sulla
spalla per infondergli coraggio.
«Devo
chiamarla.» mormorò, dopo che Ieshige se ne fu
andato.
Asami
lo
guardò, senza dire nulla. Sapeva di chi si trattava: la
nipote di Nerlinger, la
ragazza che aveva incontrato in ospedale quando Genzo era stato
ricoverato.
«Elena?
Sì, è finito.» sorrise debolmente,
accennando una risata forzata «Sì, ha perso
davvero con onore. Credo anch'io che non mollerà tanto
facilmente. Senti, devo
dirti una cosa …» sospirò, cercando di
metterla al corrente della situazione
senza allarmarla più del dovuto «Tuo zio si
è sentito male negli spogliatoi.
L'hanno appena portato allo Juntendo Hospital. Io sto andando
lì … ti chiamo un
taxi che ti porti alla stazione di Nankatsu. Poi, a Tokyo, troverai
Kuroda ad
aspettarti. Sì, me ne occupo io. Ti chiamerò se
ci saranno delle novità.»
Ripose
il
cellulare nella tasca e si rivolse alla ragazza accanto a lui.
«Asami,
ti
accompagno a casa e poi vado in ospedale.»
«Lo
Juntendo Hospital è più vicino rispetto a casa
mia. Ti faccio accompagnare lì.»
Genzo
annuì e i due si incamminarono verso l'uscita del Tokyo Dome.
La
berlina
della famiglia Ujimori giunse nel piazzale davanti all'ospedale in cui
era
stato portato Carlo.
«Vengo
con
te?» chiese Asami.
Genzo
scosse piano la testa «Non so a che ora tornerò.
Tu hai un esame importante,
domani.» le disse, sfiorandole una spalla con le dita
«Hai bisogno di
riposare.»
La
ragazza
piegò il capo, in segno d'assenso «Va bene. Fammi
sapere. So che gli sei
affezionato, è anche grazie a lui se sei migliorato ancora
in questo periodo.»
Genzo
annuì. Le posò un lieve bacio sulle labbra e
scese. L'autista degli Ujimori
rimise l'auto in moto e si avviò verso l'appartamento in cui
abitava la giovane ereditiera.
«Ma
com'è
possibile … è sceso dal ring, sorrideva, era lo
stesso di sempre.» obiettò,
incredula.
«Sì
è
sentito male nello spogliatoio ed è svenuto. È
stato soccorso dai sanitari, che
lo hanno intubato e lo hanno portato in ospedale con
un'ambulanza.» le spiegò
Genzo.
Elena
rimase zitta per alcuni secondi, il suo cervello faticava a
razionalizzare ciò
che l'amico le aveva appena detto, a credere a ciò che le
aveva succintamente
raccontato.
«Ti faccio
chiamare un taxi, tra poco sarà da te. Poi, arrivata alla
stazione di Tokyo,
troverai Kuroda ad aspettarti. Ti porterà davanti alla
clinica. Anch'io sto
andando lì.»
«Elena,
mi
hai sentito?» chiese, non sentendo giungere alcuna risposta.
«Sì
…»
mormorò. Poi, in un tono più deciso
«Sì, scusami. Grazie. A più tardi,
allora.»
Chiuse
la
chiamata e lasciò la presa sul cellulare, che cadde sul
cuscino del divano.
Ristette
in piedi, senza altro pensiero che recarsi all'ospedale e rivedere suo
zio.
Poi
iniziò
a muoversi, confusa e agitata, il televisore ancora sintonizzato sul
canale che
aveva trasmesso il match tra suo zio e Dragan Iljanovic, cercando di
mantenere
almeno la lucidità necessaria a mettere nella sua borsa lo
stretto necessario
per una notte da passare nella sala d'attesa di un ospedale.
La
telefonata di Genzo l'aveva dapprima sorpresa, poi sconvolta e gettata
nell'angoscia totale.
Aveva
potuto seguire il match solo alla televisione, perché il
mattino seguente
doveva andare in palestra per coadiuvare Mayuko nella direzione degli
allenamenti delle loro ginnaste.
Avvertì
un
tuffo al cuore quando sentì Wilhelm abbaiare. Si
avvicinò a una delle finestre
della facciata della casa e vide un'auto bianca rallentare e fermarsi
davanti
al cancello.
Era
tutto
vero … stava accadendo realmente …
Prese
la
sua borsa, ci infilò il cellulare e uscì nel
giardino.
«Buono,
Wilhelm.» mormorò, chinandosi ad accarezzargli la
testa «Vado dallo zio … che
non sta bene.» disse a voce bassa. Il cane sembrò
percepire la preoccupazione
nell'espressione e nel tono di voce della ragazza, perché
abbassò le orecchie e
si accucciò, incassando il muso tra le zampe anteriori.
Elena
aprì
e varcò il cancello e salì sul taxi.
Nel
cielo
nero in cui occhieggiavano le stelle, la luna piena e luminosa sembrava
vegliare sul suo percorso, ma in quel momento non vedeva nulla attorno
a sé.
Soltanto
l'immagine di Carlo, combattente indomito che ora stava lottando per la
sua
vita.
Ogni
tanto
guardava lo schermo del cellulare. Non c'erano simboli di chiamate
perse o di
messaggi ricevuti. Riusciva soltanto a rimanere seduta, guardando fuori
dal
finestrino dello Shinkansen
che la stava
portando a Tokyo.
Non
percepiva né rumori né voci attorno a
sé, se non sotto forma di brusio.
Era
passata la mezzanotte quando arrivò all'ospedale.
Salì
le
scale che portavano al primo piano, dove si trovava la stanza assegnata
a suo
zio, come recitavano le indicazioni datele da Genzo in una seconda
telefonata,
in cui le aveva annunciato che il primario aveva disposto una delicata
operazione alla testa.
Si
ritrovò
ancora una volta ad attraversare quei corridoi bianchi e asettici. Il
forte
odore di disinfettante le penetrò nelle narici. Sperava di
non mettere piede in
un luogo come quello, almeno lì in Giappone. E invece c'era
stato l'infortunio
di Genzo, e ora suo zio …
Vide
Genzo
seduto all'estremità più lontana di una serie di
poltroncine e velocizzò i
passi, al punto che lui sollevò la testa e si
girò verso di lei, alzandosi
subito in piedi e andandole incontro.
Dietro
di
lui vide Ieshige Honda, seduto con le spalle ricurve, la gambe
allungate
davanti a sé e le mani intrecciate sulle ginocchia, che
alzò appena la testa
per rivolgerle un cenno di saluto. Si stava letteralmente consumando
dalla
preoccupazione, e non era un'immagine incoraggiante. Genzo, invece, era
imperscrutabile.
Oppure
semplicemente, stava aspettando di conoscere l'esito dell'intervento,
senza
esternare la sua apprensione.
«Genzo.
Come sta lo zio?»
«È
ancora
in sala operatoria.»
Elena
annuì, ma dentro di sé avvertì la
morsa stringere ancora di più il suo petto.
Stava
andando per le lunghe …
«Il
maestro Shiroyama è qui?»
«È
andato
via poco fa. Deve essere a Nankatsu per sottoporre degli allievi a
degli esami
per l'assegnazione delle nuove cinture. Honda rimarrà qui
fino al termine
dell'operazione.» disse, guardando il ragazzo, che continuava
a guardare per
terra, incapace di uscire dalla bolla fatta di paura e inquietudine.
Elena
emise un lieve sospiro «È meglio che chiami i
miei, prima che lo leggano su
Internet o che lo sentano da qualche giornalista sportivo su un canale
tematico.» affermò, selezionando il numero di sua
madre dal registro delle
chiamate sul cellulare.
In
Italia
erano passate le sedici, doveva aver già terminato il suo
turno al
supermercato.
Comunicò
la notizia senza giri di parole, cercando di sembrare tranquilla. Non
voleva
nascondere nulla, ma nemmeno allarmare oltremodo i suoi genitori.
«Vi
terrò
aggiornati. Ah mamma, papà come sta? Almeno lui …
sì, ci sentiamo domani.»
riattaccò, facendo una piccola smorfia.
«Le
ho
chiesto come sta papà …» disse poi, con
un sorriso amaro «sembra che agli
uomini che mi stanno accanto debba sempre accadere qualcosa di brutto
…»
mormorò, volgendo gli occhi verso il basso.
Chiuse
gli
occhi e cercò di fare un respiro profondo, per cercare di
calmarsi, ma questo
si spezzò.
Le
sue
guance cominciarono a rigarsi di lacrime, il suo petto venne scosso dai
singhiozzi.
Genzo
le
andò incontro e le mise le sue grandi mani sulle spalle. La
trasse lentamente a
sé, e lei non oppose alcuna resistenza.
Pianse
con
il viso sepolto sul suo petto, mentre lui le cingeva la schiena con un
braccio
e le accarezzava piano i capelli con l'altra mano, senza dire niente.
Senza
chiederle se tra gli uomini di cui parlava c'era anche lui.
«Carlo
è
un lottatore nato. Ce la farà.» le disse soltanto,
con voce pacata e
rassicurante.
Il
suo
respiro le sfiorava i capelli, poteva sentire il calore delle sue
parole
irradiarsi dal petto e avvolgere anche lei.
Gli
si
accostò ancora di più, abbandonandosi alla
sensazione di sicurezza che le
donava. L'unica cosa che desiderava, dopo il risveglio di suo zio, era
che
Genzo continuasse a tenerla stretta, trasmettendole la convinzione che
nulla di
brutto sarebbe potuto succedere.
Un
uomo di
mezza età, magro e non molto alto, comparve sul corridoio.
Indossava
un camice e una mascherina pendeva dal collo. Fece un cenno verso
Genzo, che
scambiò un'occhiata con Elena e si avvicinò
insieme a lei e a Honda.
«Lei
è una
parente?» le chiese il dottore.
«Sì,
sono
Elena Rulli, la nipote del signor Nerlinger.»
L'uomo
fece un cenno d'assenso.
«Signorina,
suo zio ha riportato un trauma cranico dovuto ai colpi ricevuti durante
l'incontro. È stato sottoposto a un intervento chirurgico
per la riduzione di
un ematoma, fortunatamente non molto esteso. È in prognosi
riservata, ma la
situazione è sotto controllo.»
«Quindi
non è in pericolo di vita …?» chiese
Elena, con occhi spalancati che
imploravano una risposta affermativa.
Il
medico
le sorrise e scosse la testa «No, signorina. Si
riprenderà.»
Elena
espirò, chiuse gli occhi e sorrise, e si mise una mano sul
petto «Grazie.»
Il
dottore
assentì con il capo e tornò nella sala operatoria.
Ieshige
guardò verso l'alto e strinse i pugni in silenzio, Genzo
chiuse gli occhi e
sorrise, manifestando compostamente il suo sollievo.
Pochi
minuti dopo, nel corridoio comparve il letto su cui era sdraiato Carlo,
spinto
da due infermiere. Era addormentato.
Elena
e
Ieshige lo seguirono con lo sguardo finché non venne
sistemato nella stanza, il
fiato trattenuto e gli occhi lucidi, mentre Genzo guardava
alternatamente il
suo maestro e poi la ragazza.
La
ragazza
strinse la mano a Honda, poi guardò Genzo e gli sorrise. I
suoi occhi
brillavano di nuove lacrime, questa volta di sollievo e di
felicità. Lui
avrebbe voluto stringerla di nuovo tra le sue braccia, ma si
limitò a
ricambiare il sorriso e a chiederle se avesse bisogno di qualcosa.
Elena
scosse la testa «Rimarrò qui, voglio esserci
quando lo zio si risveglierà.»
«Ora
sono
più tranquillo.» intervenne finalmente Ieshige
«Devo tornare a Nankatsu per gli
esami degli allievi. In assenza del maestro Nerlinger, lo sostituisco
io.
Tornerò a trovarlo domani sera.»
annunciò, incontrando il cenno d'assenso di
entrambi i ragazzi.
Non
sapeva
da quanti minuti avesse lo sguardo su di lei, come a vegliarla.
Rassicurata
dalle parole del medico sulle condizioni di suo zio, Elena si era
addormentata
su una poltroncina accanto a quella dov’era seduto lui. Si
era seduta di
traverso, con le gambe appoggiate su un bracciolo e la testa sullo
schienale,
il busto leggermente ricurvo.
I
suoi
lunghi capelli gli celavano il viso. Avrebbe voluto alzarsi,
avvicinarsi a lei
e sfiorarglieli con una mano, ma rimase fermo dov'era.
Un
gesto
di troppo avrebbe potuto rovinare tutto …
Una
giovane infermiera comparve sul corridoio, fermandosi davanti a lui.
«C'è
un
divanetto nella sala d'attesa accanto, ed è
libero.» lo informò.
Genzo
annuì e la ringraziò, poi guardò
Elena. Se l'avesse svegliata, avrebbe
rischiato di spaventarla, ma non poteva nemmeno lasciare che dormisse
in quella
posizione scomoda.
Si
alzò e
si avvicinò a lei. Si chinò, le mise un braccio
attorno alla schiena e fece
passare l'altro sotto le sue gambe, sollevandola e prendendola in
braccio.
Percorse qualche passo verso la saletta accanto e, con la massima
delicatezza,
la stese sul divanetto.
Le
scostò
alcuni capelli rimasti sul viso, sfiorandole inavvertitamente una
guancia.
Rimase
a
contemplarla, per alcuni istanti. I lineamenti del viso rilassati, la
bocca
leggermente dischiusa … era bella. Sentì un
calore ormai consueto nascere e
irradiarsi nel suo petto.
Chiuse
gli
occhi ed emise un leggero sospiro.
Doveva
accontentarsi di questo, per il momento …
Poi
si
voltò, per tornare nel corridoio.
L'infermiera
aveva assistito alla scena e lo guardò con un sorriso, ma
non era malizioso né
insinuante. Era dolce e quasi commosso, tanto che Genzo lo
ricambiò d'istinto,
prima di tornare a sedersi sulla poltroncina e chiudere gli occhi,
cedendo
infine anch'egli alla stanchezza prodotta dalla mancanza di sonno e
dalle
emozioni susseguitesi nel corso di quella giornata.
«Elena.»
Le
scosse
una spalla con quanta più delicatezza possibile, ma
abbastanza forte da
riuscire a svegliarla.
La
ragazza
fece una smorfia e aprì lentamente gli occhi, sbattendo
più volte le palpebre
per abituarli alla luce del sole che filtrava dalle persiane abbassate.
Poi
mise a
fuoco il volto di Genzo che le sorrideva con dolcezza, infondendole
subito
quella calma che le faceva capire che era stata una notte serena, non
c'erano
state brutte sorprese e nella migliore delle ipotesi suo zio dormiva
tranquillo
dietro la porta della stanza in cui era stato ricoverato.
«Che
ore
sono?» chiese, la voce ancora flebile per il sonno, mentre si
rendeva conto di
essere sdraiata su un divanetto.
«Quasi
le
nove.» rispose Genzo.
Elena
si mise a
sedere, i capelli biondi le ricaddero sulle spalle e ne
scostò alcune ciocche
finite davanti al viso.
«Non
mi
sono addormentata qui, stanotte.» disse, alzando gli occhi sul
portiere.
«No,
infatti. Un'infermiera mi ha avvisato che quel divanetto era libero e
io ti ho
sollevata e ti ci ho sdraiata.» spiegò
semplicemente, senza alcuna nota di
malizia.
Elena
assentì
«Grazie.»
Genzo
le sorrise e le
tese una mano per aiutarla a rialzarsi, come aveva fatto il giorno
prima.
Stavolta
Elena la
accettò, e riuscì a reggersi in equilibrio sulle
ginocchia indolenzite.
«E
tu sei rimasto qui
tutta la notte …?»
Genzo
annuì. La
maschera celava le occhiaie, ma non i capillari che attraversavano le
sclere
dei suoi occhi e che testimoniavano le poche ore di sonno.
«Non
dovevi …» mormorò
commossa, dandogli una lieve carezza su una guancia.
Genzo
avvertì la pelle
bruciare lì dove Elena l'aveva toccato.
Lei
gli sorrise, con
dolcezza e gratitudine.
Quei
gesti lo stavano
sconvolgendo più di quanto gli accadeva facendo l'amore con
Asami …
Fortunatamente
fu la
sua stessa sollecitudine a venirgli in aiuto, facendogli recuperare il
contegno.
«Vuoi
mangiare
qualcosa? Posso andarti a prendere un caffè al bar qui
sotto.»
Elena
lo guardò
ancora, riconoscente per la sua premura che sembrava infinita
…
«Sì,
grazie … mi
prenderesti anche un croissant alla fragola? Io intanto, vado a darmi
una
sistemata.» disse, passandosi una mano sui capelli spettinati.
Lui
annuì, distendendo
le labbra in un sorriso aperto.
Un
quarto d'ora dopo,
Genzo ritornò al primo piano e trovò Elena seduta
su una delle poltroncine. Il
ragazzo si accomodò accanto a lei e le porse il cornetto
ancora caldo e
fragrante e la tazza di caffè, prontamente ringraziato.
Era
strano, e
sicuramente non sarebbe stato possibile se suo zio fosse stato ancora
in
pericolo di vita, ma Elena provava una sensazione di benessere e
serenità.
La
bontà e la dolcezza
di quella colazione, sapere che Genzo aveva vegliato su di lei per
tutta la
notte e si stava prendendo cura di lei, in un certo senso. Come un
amico.
Le
sarebbe mancato,
una volta tornata in Italia, e i pensieri che aveva fatto quel mattino
in
merito non le sembrarono più così confortanti.
«Signori,
se volete
vedere il signor Nerlinger, si è svegliato.» la
voce dell'infermiera li
riscosse e li fece voltare. Si alzarono quasi contemporaneamente e si
diressero
verso la donna, che fece loro cenno di entrare.
Appena
varcata la
soglia, Elena corse verso il letto su cui era sdraiato Carlo, che le
sorrise
non appena la vide, la parte superiore della testa completamente
fasciata.
«Zio
… come stai?» gli
chiese, chinandosi su di lui e circondandogli il collo con le braccia,
in un
buffo abbraccio.
«Ho
la testa dura.»
rispose, toccandosi leggermente la fasciatura e, nel contempo,
sollevando
l'altro braccio per scambiare una forte stretta di mano con Genzo.
«Ci
scherzi sempre su
… ma io ho avuto paura di perderti.»
confessò, sollevandosi e guardandolo con
un piccolo broncio di rimprovero.
«Sì,
questa volta me
la sono vista brutta, effettivamente.» ammise infine, con un
tono di voce
fattosi serio «Ma credo sia stato il mio ultimo incontro. I
medici mi hanno
sconsigliato di riprendere l'attività agonistica.»
rivelò, guardando i due
ragazzi con le labbra tirate ai due lati.
I
suoi occhi azzurri
sembravano ancora più chiari, e si affrettò a
stringerli per impedire alle
lacrime di scendere lungo il viso e manifestare la loro presenza.
Genzo
vide in quel
gesto un comportamento che era caratteristico anche di Elena
… non mostrare la
propria sofferenza.
«Puoi
essere fiero
della tua carriera zio, e dell'esempio che hai saputo dare, facendo
sempre le
tue scelte in autonomia. E comunque puoi continuare a insegnare, hai
dimostrato
di saper trasmettere le tue conoscenze e soprattutto la tua passione.
Genzo può
testimoniarlo.»
Il
portiere assentì,
di rimando.
Carlo
sorrise, con una smorfia che sapeva di rassegnazione
«Sarà difficile … nel
codice del guerriero non esiste la resa. E anche quando il corpo dice
"Basta", lo spirito grida "Mai".» affermò,
risoluto. Poi
ammise, con un tono di voce più sommesso «Ma
stavolta ho davvero temuto di non
svegliarmi mai più.»
L'infermiera
annunciò una nuova visita, e lasciò entrare un
uomo alto, con un corpo
massiccio, corti capelli castani e un volto squadrato dai tratti
decisi,
segnato da un paio di cicatrici testimoni di una carriera di kickboxer
conclusa
da alcuni anni.
«Frank!»
lo salutò Elena, andandogli incontro.
«Sei
Elena, vero?» esclamò l'uomo, stringendole la mano
con entrambe le sue, grandi
e ruvide «Sì, lei è la tua nipotina
bionda, quella mora si chiama Angelina, se
non ricordo male.» disse guardando verso Carlo, che
assentì con il capo. «Da
quanto tempo non ti vedo?» chiese, rivolgendosi nuovamente a
Elena «Eri alta la
metà di adesso e io ero ancora un aitante ragazzone che si
divertiva a far
penare tuo zio sul ring!»
«Veramente
quello che ti faceva sputare sangue ero io.»
ribatté Carlo, sporgendosi verso
di lui con un tono tra il provocatorio e lo scherzoso.
«Eccoli
che cominciano …» ridacchiò Elena,
voltandosi verso Genzo «Ti presento Frank
O'Malley, ex kickboxer statunitense, uno dei suoi rivali più
agguerriti.»
«Chi
vinceva più gare?» chiese il portiere, con un
sogghigno, aspettandosi già la
risposta.
«Io!»
gridarono infatti entrambi gli atleti, per poi scoppiare a ridere.
«Diciamo
che ce le davamo di santa ragione. Però sempre nel rispetto
delle regole, e
fuori dal ring siamo sempre stati ottimi amici.» rispose
Carlo.
«Se
non
sbaglio, lui è il portiere che stai allenando.»
disse Frank, guardando Genzo.
Il
ragazzo
fece un cenno d'assenso.
«Viaggio
molto per lavoro e ho visto spesso la tua foto sui quotidiani sportivi.
Complimenti, sei uno forte.» gli disse, stringendogli la mano
e dandogli una
pacca sulla spalla.
«Lui
ha
capito da un pezzo quando è saggio fermarsi.»
commentò Carlo, facendo cenno con
il mento al suo antico compagno di battaglie.
«Ero
completamente suonato. Non ho mai avuto la tua resistenza.»
obiettò Frank.
«Hai
preferito tenerti tua moglie e farci dei figli, mentre io non ho voluto
lasciare il kickboxing. E così ho detto addio alla donna che
mi è stata accanto
per quindici anni.» replicò Carlo, con un lampo di
disappunto negli occhi.
«Su
coraggio, ormai ci sono uomini che si sposano e fanno figli a
sessant'anni, tu
sei ancora un ragazzino.»
Carlo
scosse la testa «Mi sa che i miei nipoti diventeranno
genitori prima di me.»
ribatté guardando Elena di sottecchi.
Lei
pensò
ad Angelina che aveva sentito per telefono il giorno prima e le aveva
nuovamente chiesto dove intendeva frequentare l'università.
In fin dei conti,
era maggio ormai, ed era tempo di prendere una decisione.
«Che
ora
è, ragazzi?» chiese Carlo, dopo che Frank se ne fu
andato.
Fu
Genzo a
rispondergli, dopo un'occhiata al suo orologio da polso «Le
undici.»
«Le
undici? Elena, che ci fai ancora qui? Devi tornare a Nankatsu, a
preparare le
Nazionali juniores!» la rimproverò Carlo.
Elena
spalancò gli occhi, poi aggrottò le sopracciglia
e si mise una mano su un
fianco «Come potevo andarmene senza sapere se ti saresti
ripreso?»
«Beh,
sei
qui da ore ormai, e adesso sto bene. Rimarrò qui ancora per
diversi giorni, ma
mi riprenderò in tempo per venire ad assistere alle gare,
quindi devi
rimetterti al lavoro.»
Elena
chiuse gli occhi e sorrise «Va bene, vado in stazione a
prendere il treno.»
«È
un
peccato che tu sia costretto qui, Carlo. Avrei voluto invitarvi a cena
insieme
a Mikami, la sera della partita contro il Vietnam.» disse
Genzo, volgendo lo
sguardo anche alla ragazza.
«Beh,
io
non potrò esserci per ovvi motivi, ma … tu Elena,
ci puoi andare.» le disse,
con un ammicco.
«Io
…»
esitò, presa alla sprovvista « … certo,
perché no?» concesse poi, guardando
Genzo con un sorriso. In fondo, l'aveva aiutata e le era stato vicino,
ancora
una volta. E non aveva ragione di avere paura di lui, quali che fossero
i suoi
sentimenti. Non si sarebbe mai comportato in modo sleale, non l'avrebbe
mai
forzata a fare qualcosa che lei non avesse voluto. E poi, non sarebbero
stati
soli, visto che era ospite anche il suo allenatore e mentore.
Mandò
un
sms a Mayuko. Sarebbe tornata alla palestra quel pomeriggio stesso.
«Genzo,
puoi accompagnarla se vuoi.» gli propose Carlo, strizzandogli
un occhio.
Erano
da
poco giunti al pianoterra quando incrociarono il giovane campione
serbo, Dragan
Iljanovic.
Sul
viso
erano ancora visibili i lividi e le escoriazioni retaggio dei colpi
ricevuti
durante il match.
«Scusate.
Volevo sapere come sta il maestro Nerlinger.» disse in un
inglese dall'accento
slavo.
Elena
fece
un cenno d'assenso con la testa «Sta bene. Ha riportato un
trauma cerebrale, ma
si riprenderà.»
Dragan
annuì, sollevato «Mi dispiace averti fatto
prendere questo spavento. Purtroppo
nel nostro sport si danno e si ricevono colpi molto duri e a volte
questo può
arrivare a costarci la vita.»
«Lo
so. Ma
è la vostra passione.» replicò,
mostrando di comprendere perfettamente di cosa
stava parlando e i sentimenti che provava.
Dragan
sorrise «Carlo è uno dei miei idoli, fin da
bambino. Posso andare a fargli
visita?»
«Certo.
È
ricoverato al primo piano, stanza 31.»
Il
giovane
la ringraziò e si diresse verso le scale.
Uscirono
dal piazzale dell'ospedale e si ritrovarono sul marciapiede della
strada
antistante, nuovamente immersi nella luce del sole e nei rumori della
città. Un
primo ritorno alla vita di tutti i giorni.
Elena
si
portò dietro le orecchie le ciocche di capelli mosse da un
vento un po' più
forte rispetto agli altri giorni.
«Vieni
anche tu alla stazione?» chiese, volgendosi verso Genzo.
Stava
per
risponderle quando sentì un trillo ovattato provenire dalla
tasca dei suoi
pantaloni.
Estrasse
il cellulare e il simbolo e la scritta sul display gli comunicavano che
aveva
appena ricevuto un messaggio.
Ho passato l'esame. Massimo dei
voti. Pranziamo
insieme?
Genzo
sospirò.
«No.
Ho un
impegno.» disse con voce monocorde, digitando qualcosa sul
cellulare e
riponendolo nella tasca, stringendo le labbra.
In
quel
momento, un taxi rallentò e accostò nel punto in
cui si trovavano.
«D'accordo.
Ci vediamo la sera della partita allora. Grazie ancora, di
tutto.» replicò
Elena con serenità, per poi aprire la portiera del taxi e
infilarsi dentro.
Mentre
l'auto spariva nel traffico, Genzo rimase a vagare per alcuni minuti su
quel
tratto di marciapiede, per poi fermare anche lui un taxi e farsi
portare alla
residenza della sua famiglia, lì in città.
***Note***
Come
suggerisce il titolo, in questo capitolo ha molta importanza il
rapporto che
lega tre dei quattro protagonisti di questa storia ai loro padri o
comunque
parenti che possono essere considerati una sorta di figura paterna
(come nel
caso di Carlo con Elena).
Ichiro,
padre che ha sempre incoraggiato Taro a inseguire i suoi sogni e a
prendere in
autonomia anche le decisioni più importanti, persino quelle
solitamente
ritenute premature; Shinji, padre che tende invece a dissuadere Kumi
dall'intraprendere un percorso che lui non approva poiché
non lo ritiene
"sicuro" per il suo avvenire.
Carlo
non
è il papà di Elena, ma lo si può
considerare una seconda figura paterna per
lei. L'ha avviata al mondo dello sport, l'ha chiamata con sé
in Giappone, le
sta vicino e la consiglia come se fosse un genitore.
Shoten è
un termine
giapponese che significa "libreria". Viene usato molto dagli editori
che decidono di dare il loro cognome alle case editrici da loro fondate.
Sarariman:
pronuncia
giapponese del termine inglese salaryman,
significa letteralmente "lavoratore salariato" e indica un lavoratore
dipendente impiegato nel settore terziario, in particolare presso
aziende, con
un reddito fisso.
La
descrizione dell'azione del gol di Shun Nitta e il dialogo tra Mark Al
Owairan
e Taro Misaki sono tratti dal capitolo 82 del "Golden 23".
Hokusai, nome d'arte
di Katsuhika Sori
(1760-1849) è stato un pittore e xilografo giapponese,
autore appunto della
serie "Trentasei vedute del Monte Fuji", di cui fa parte la
celeberrima opera "La grande onda di Kanagawa".
Qui la sua biografia.
Il
Tokyo Dome è
uno stadio situato nel quartiere
speciale di Bunkyo, dove si trova, tra l'altro, l'Università
di Tokyo (Todai).
Inaugurato nel 1988, ospita moltissimi eventi di vario genere, dalle
gare
sportive (football, boxe, arti marziali) ai concerti degli artisti
più famosi a
livello mondiale. Lo Juntendo
Hospital esiste
realmente e si trova sempre nel quartiere speciale di Bunkyo, a poca
distanza
dal Tokyo Dome.
Le parole di Carlo e il breve dialogo
tra Dragan ed Elena
sono ispirate dalla canzone "Burning
Heart" dei Survivor,
che fa parte della colonna sonora di
"Rocky IV" (1985).
In
particolare, questa parte di testo:
In the warrior's code
There's no surrender
Though his body says, "Stop"
His spirit cries, "Never"
Deep in our soul
A quiet ember
Knows it's you against you
It's the paradox that drives us
on
It's a battle of wills
In the heat of attack
It's the passion that kills
The victory is yours alone
Questa
è
la traduzione:
[Nel codice del guerriero
Non esiste la resa
Se il suo corpo dice "Basta"
Il suo spirito grida "Mai"
Nel profondo della nostra anima
Una quieta brace
Sa che sei tu contro te stesso
È il paradosso che ci
guida
È una battaglia di
volontà
Nel fervore dell'attacco
È la passione che
uccide
La vittoria è solo
tua]
Piccolo dizionario di ginnastica
artistica:
La "grande Nadia" è Nadia
Comaneci, leggendaria
ginnasta romena, la prima a ottenere un "10 perfetto" ai Giochi
Olimpici di Montréal 1976 (gliene vennero assegnati sette in
tutto). È rimasto
nella storia e nell'immaginario collettivo degli amanti di questo sport
il suo
esercizio alle parallele asimmetriche (qui il video).
Sua
la
frase: "Non scappo da
una sfida perché ho
paura. Piuttosto corro verso di lei, perché l'unico modo per
sfuggire alla
paura è calpestarla sotto i piedi" citata da
Elena.
Una
curiosità: il secondo nome della Comaneci è
proprio Elena.
A
proposito di curiose coincidenze, esiste un'ex ginnasta che ai tempi in
cui
gareggiava era la sosia in carne e ossa proprio della nostra
protagonista.
Si
chiama
Olga Mostepanova e nella prima metà degli anni '80 ha fatto
parte della
fortissima Nazionale sovietica. Era una ginnasta dall'eleganza e dal
talento
sbalorditivi, ma a causa del boicottaggio deciso dal governo dell'URSS
non poté
partecipare alle Olimpiadi di Los Angeles 1984.
Ecco due immagini. La
somiglianza con Elena è notevole!
Lo Shaposhnikova, chiamato familiarmente "Shaposh"
è un elemento
delle parallele asimmetriche presentato da Natalia Shaposhnikova, una
delle
ginnaste di punta della Nazionale sovietica a cavallo tra gli anni '70
e '80.
Qui un video che mostra le evoluzioni di questo
elemento, ripreso e
arricchito nel corso degli anni da altre ginnaste, con combinazioni
sempre più
difficili.
Ecco il XIV capitolo
… riesco finalmente a postarlo
dopo un mese infernale -_-
Chiedo scusa per il ritardo.
Grazie ancora a chi continua a
leggere questa storia!
:-*
Sandie