Le tre
intimità
Una
fanfiction su “X”
Di Natalie Baan
(traduzione di Shu)
La luna piena
galleggiava bassa, appena sopra i pini svettanti, un paio d’ore dopo essere
sorta. Lucciole tardive mandavano bagliori a tratti, popolando il buio profondo
sotto i rododendri: solo quelle poche rimaste, che continuavano a volare
silenziose e basse sul terreno, sebbene fosse ormai passata la loro stagione.
Arashi si fermò, e rivolse lo sguardo al cielo color carbone, ascoltando il
respiro del giardino intorno a lei, il fremito e il mormorio dei kami sotto il
ronzio della canzone degli insetti notturni, l’inalazione e l’esalazione di
energie sottili. Le parlavano senza parole, e parlavano di pace, di armonia, di
ordine. Liberando anche il suo respiro, lasciò andare insieme con esso alcune
delle tensioni della giornata, assaporando quella sensazione di una presenza
tutta avvolta in se stessa. Poi riprese a camminare sull’erba bassa quasi senza
rumore, non fosse stato per il fruscio della gonna pesante della sua uniforme
scolastica; seguì la sinuosa linea degli alberi sul pendio, con la bianca luce
lunare che brillava sull’acqua sotto e al di là di essi, visibile solo dove i
tronchi e i cespugli del sottobosco si facevano più sottili.
L’aveva in qualche modo
sorpresa trovare nel campus un giardino tradizionale come quello, nascosto
dietro la villa degli Imonoyama. Non avrebbe dovuto essere così: per tutte le
loro ben note stranezze, sia famiglia che la scuola davano ampio sussidio a
tutte le arti classiche giapponesi. Eppure gli edifici scolastici e la villa
stessa avevano un gusto così europeo, e allo stesso tempo vi si trovavano
giardini in stile orientale, forme geometriche solidamente bordate da un
tripudio di fiori, il sobrio ma ricco ripiano di file su file di rose, intrecci
d’erba, pergolati…
E poi era sorprendente girare
un angolo, un giorno, e trovarsi in un posto dove la mano dell’uomo si era
posata con leggerezza sulla natura, dandole forma solo per farle esprimere al
meglio se stessa: per poter volgere lo sguardo e incontrare un panorama
piacevolmente inatteso, per far risaltare gli apparentemente casuali disegni dei
rami e dei sassi, per lasciare che il verde si esprimesse in tutti i suoi
infiniti toni e ombre, facendo così spiccare, per contrasto, una sponda di
frementi iris, o la nebbiolina rosa tenue di un’azalea.
Uno scintillio d’oro balenò in
quel quadro, galleggiando al livello del suo viso. Arashi si fermò e tese la
mano verso di esso, lasciando scivolare via dalla mente ogni coscienza di sé. La
piccola luce si spense, ma mentre lei era lì, immobile e senza alcuna
intenzione, poté avvertire l’infinitesimale tocco, il quasi impercettibile
sfregare di una zampa d’insetto sulla sua pelle; con cautela, mantenendo il
respiro basso e controllato, ritirò la mano verso di sé. L’addome della lucciola
si accese di nuovo mentre l’insetto le risaliva il dito, proiettandovi un
cerchio di luce: il suo bagliore era una fiamma fredda, la povera candela di un
povero studente d’altri tempi che la rese cieca a tutto il resto mentre vi
concentrava lo sguardo.
Era sorprendente anche il
fatto che lì, all’estrema periferia di Tokyo, una città in cui lo smog e i fumi
delle fabbriche e l’incalzare delle automobili avevano reso l’aria spessa, fino
a nascondere l’orizzonte, creature così fragili e sensibili all’inquinamento
potessero sopravvivere, riprodursi, e riempire le sere d’estate di mille stelle
terrestri che si mandavano segnali l’una con l’altra.
Com’era possibile?
La lucciola arrivò alla punta
del dito; alzò le scure elitre delle ali, esitò, poi si librò nell’aria. La
ragazza la guardò zigzagare via nel suo volo irregolare, e custode di speranze.
Si chiese, con lievissima,
confusa inquietudine, se essa avesse trovato il suo compimento, o se ne fosse
ancora alla vana ricerca.
Poi ricominciò a scendere, una
volta che i suoi occhi si furono abituati all’oscurità, verso le falde della
piccola collina, attraverso quel nastro di bosco libero, grazie al quale non
aveva bisogno di alcun sentiero. Scelse con cura il cammino fra le ombre, e
infine, scostando una cortina di foglie e di rami, attraverso cui riflessi e
bagliori d’argento battevano nel suo sguardo e l’abbacinavano, le si aprì la
vista della superficie del lago, appena increspata dall’aria fresca che le
sfiorava il viso. In alto sopra il lago si librava la luna, libera
dall’intralcio degli alberi, la sua presenza pura e immobile come un respiro di
ghiaccio sorto nel silenzio dopo una nevicata.
Non sapeva cosa l’avesse
raggiunta prima, se il suono o la sensazione della presenza, ma voltò lo sguardo
e scorse una figura seduta su uno spuntone di roccia, non lontano dal bordo
dell’acqua. Trattenendo di nuovo il respiro, osservò il profilo allampanato e
diritto di Sorata, la particolare linea delle sue spalle e quel ciuffo
disordinato di capelli, mentre la maggior parte degli altri dettagli sfuggiva
tra la luce confusa della luna e i bagliori stordenti del lago, dietro a cui
l’occhio si perdeva. Si sentiva vagamente stupita per averlo riconosciuto da
null’altro che da quel primo sguardo colto a metà. Il ragazzo stava guardando
verso un punto poco lontano da lei, lo sguardo teso ad abbracciare tutta la
superficie del lago, con il capo appena inclinato in avanti, come fosse in
meditazione, il mormorio della sua voce solo d’un soffio troppo basso per essere
intelligibile. Arashi rimase ad osservarlo sedere lì in apparente serenità,
immobile come lo era lei, e i suoi occhi coglievano l’occasione di appagarsi
senza il rischio di essere ricambiati –avrebbe potuto continuare a guardarlo
ancora per molto, molto tempo, lo sapeva, tra le mille domande che le sorgevano
e ricadevano dentro senza alcuna risposta. Si morse il labbro, esitante. Poi,
dopo un attimo d’incertezza, intrecciò le dita ad un ramo e spostò il peso del
corpo sul piede più arretrato, pronta a fuggire via.
“Cos’è stato?”
Gli occhi di lei avevano già
guizzato verso il ragazzo, ancora una volta, anche prima che avesse parlato –poi
lui alzò la testa, e quel movimento la gelò. La voce di lui era bassa ma
estremamente chiara. Arashi si guardò intorno, esaminando l’oscurità in cui si
trovava –sicuramente non poteva essere vista, pensò, ma non era neanche
completamente indistinguibile, non per uno di loro, i Draghi del Cielo- e la
possibilità di essere scoperta che era sottesa in quel momento rubato,
improvvisamente realizzata, le accelerò il battito del cuore. “Bellezza?”
Scappare via,
anche se lui non l’aveva praticamente neanche vista, sarebbe stata
un’ammissione, una debolezza, un arrendersi. Si chinò sotto il ramo, e lo lasciò
ricadere dietro di lei. Sorata indossava la sua veste da monaco, si accorse con
sorpresa dandogli un’occhiata più approfondita mentre si avvicinava; e la stava
guardando, seduto a gambe incrociate sulla roccia, le mani intrecciate in una
complicata figura abbandonate in grembo. Camminando verso la sponda del lago, a
qualche metro di distanza di lato da lui, Arashi si gettò i capelli dietro le
spalle, e lasciò scivolare sul ragazzo uno sguardo più diretto. I loro occhi
s’incontrarono per un istante, un respiro di perfetta sospensione, rotto solo
dal ronzare degli insetti e dall’alto gracidio di una rana che riecheggiava
sull’acqua.
“Yu-hu!! Come sono fortunato!
La mia bella è venuta fin qui per un appuntamentino al chiaro di luna! Che
romanticooooo!!”
Fastidio e senso di offesa le
esplosero in uno strappo al centro della fronte, e una familiare ruga di
tensione le corse tra i sopraccigli; diede un leggerissimo sbuffo d’irritazione.
Il silenzio dopo lo scoppio di voce a tutto volume di Sorata vibrava ancora di
quel suono, la pace della notte si era infranta e tutti quei suoi piccoli rumori
sembravano essere ammutoliti per lo spavento. Con un liquido staccato di lievi
tonfi, la luna sulla superficie del lago s’infranse in mille increspature quando
la rana s’immerse nell’acqua, e Arashi girò sui tacchi, fuggendo dalla troppo
familiare visione dell’espressione beata e strappalacrime di Sorata, delle sue
mani unite in adorazione contro la guancia.
“Oh, aspetta! Non andartene!
Scusa se ho rovinato tutto! Per favore…” e il cambiamento di tono della sua voce
in quell’ultima parola, quella nota diversa nel suo riecheggiare, la fece
fermare e guardarsi indietro. Lui sorrideva, la sua espressione non era
esattamente quello che avrebbe potuto definire seria, era un po’ differente:
obliqua e raccolta, franca, come qualche volta succedeva. Batté con la mano
sulla roccia accanto a lui, in un invito semplice, che non pretendeva niente, ma
neanche completamente disinteressato. Fermo immobile con quel sorriso insolito
per lui, le chiese: “Perché non ti siedi qui accanto a me?”
Non avrebbe dovuto considerare
la domanda, nemmeno per un istante –la sua indecisione era già una risposta.
Tornò lentamente verso di lui. Il ragazzo dovette contorcersi un po’ per farle
più spazio, e lei salì con un balzo sulla roccia, lisciandosi poi la gonna sulle
ginocchia e sistemandosi a sedere, ancora lievemente accigliata. La rana di
prima, o forse un’altra, fece udire un suono basso, come per saggiare il
silenzio. Arashi lasciò scivolare uno sguardo di lato verso Sorata e colse il
suo profilo, poi alzò gli occhi al disco della luna, sempre all’erta eppure più
rilassata, mentre la pallida luce scivolava sul viso di lui rendendolo
splendente, privo di ombre. Conosceva quel genere di momenti, il silenzio che a
volte cadeva su di lui, e quando questo accadeva si sentiva sempre lacerata fra
l’attrazione e la paura. Paura di quello che quel lato più serio del carattere
di lui avrebbe potuto farle affiorare nel cuore se solo fosse durato più a
lungo, paura di vedere la serietà perdersi ancora una volta nell’ironia,
cosicché non avrebbe più potuto distinguere tra quale fosse il suo vero
carattere e quale la maschera –se solo fosse stato possibile semplicemente
rimanere così, senza mai cadere in quella breccia, solo a condividere la
presenza e la notte…
Ebbe un improvviso timore che
Sorata stesse per cominciare a farle una dichiarazione sdolcinata; la stoffa si
tendeva sul petto di lui mentre tratteneva il respiro…
“Che stavi facendo?”
Il ragazzo espirò
profondamente e la guardò, distratto per la sorpresa da qualsiasi cosa stesse
per dire. Il respiro si fermò anche nel petto di lei, e si costrinse a guardarlo
negli occhi, come sicura nel suo territorio, senza fare nessuna ritirata
difensiva nelle mura. Sostenne lo sguardo curioso di lui, e alla fine il ragazzo
sorrise; una pausa tiepida, e poi la decisione.
“Gachirinkan.”
Il gelo le scivolò dentro,
lasciandosi dietro una lunga, liquida, fredda scia.
“E’ una pratica del credo
Shingon, -aggiunse- la conosci?”
“No.” La voce di lei suonava
come fosse quella di qualcun altro: troppo bassa e impedita, soffocata, simile
al raschiare di un tessuto grezzo. Sorata si girò un po’ sistemandosi meglio a
sedere per poterla guardare in viso più direttamente; per poco il suo ginocchio
non sfiorò la piega della sua gonna.
“Sai che il
buddismo Shingon insegna a raggiungere l’illuminazione in questa vita?” Lei
annuì, pratica com’era delle dottrine essoteriche delle altre religioni
giapponesi, come del resto lui doveva di certo saperne qualche cosa della via
dei kami. “E’ scritto che se uno anche solo si impegna a sufficienza e compie i
rituali con cuore puro, Dainichi Nyorai gli dona in risposta illuminazione e
potere.” C’era di più, e lei lo sapeva, ma non voleva scoprirlo, non nei
dettagli, in ogni caso –Shingon era un credo pieno di segreti e di misteri, e
chi poteva saperlo meglio di lei, che era una Miko Nascosta del tempio di Ise, e
che custodiva il kami nel santuario della propria carne? Aveva paura che lui le
rivelasse ciò che doveva rimanere nascosto solo perché gli aveva fatto una
domanda a riguardo, e di cosa questo avrebbe potuto significare per lui e per
lei stessa…
“Gachirinkan è semplicemente
uno di questi rituali. E’ una combinazione delle pratiche note come ‘Le Tre
Intimità’.”
“ ‘Tre… intimità’?”
“Proprio così.” Era come se il
mondo sotto di lei stesse ruotando sul suo asse, come se l’infinito cielo
notturno oscillasse in una tremula eclittica. Abbassò lo sguardo verso le sue
nocche, contratte e sbiancate nella luce lunare contro il nero d’inchiostro
della sua gonna.
“La prima è
formare mudra con le dita.” Le mani di lui scivolarono entro il suo campo
visivo, muovendosi come un addensarsi di nubi, le vennero vicino e toccarono le
sue dita –coraggioso, pensò di lui più tardi, in modo confuso ma non per la
prima volta, considerando quanto spesso l’aveva rimproverato anche per meno.
Leggere come l’aria, ma più calde, le dita di lui sollevarono le sue, e si
ritrovò con le mani piegate ad arco su di esse, che ad esse si adattavano,
leggevano la loro solida forza e la loro trama come quelle di un cieco, mentre
lui formava con esse una figura, e lei non sapeva più se quel tremore fosse di
se stessa o di lui. Il palmo le mandò una fitta: la reminiscenza di una spada…
“La seconda… la seconda è
recitare mantra con le labbra.” Sollevando ancora di un altro poco le mani di
lei, con delicatezza, si curvò su di esse.
“Shu jo mun hen sei gan do.”
Staccate e penetranti nel loro oscuro
significato, come un filo di sacri gioielli, quelle sillabe sembravano scandire
il battito martellante del cuore di lei.
“Fuku chi mu hen sei gan shu. Ho mun
mu hen sei gan gaku.”
Battendo le palpebre, Arashi rivolse lo
sguardo in basso, verso i capelli di Sorata, che stava avvicinando ancora di più
le mani di lei al suo viso; e quel dolore continuava a crescerle dentro, era
come aver inghiottito quella gonfia, turgida luna piena.
“Nyo rai mu hen
sei gan ji.”
Avvertì il respiro di lui
sulle dita, poi la vibrazione delle parole stesse mentre quelle labbra quasi le
sfioravano la pelle.
“Bo dai mu jo sei gan sho.”
Il senso di occlusione nel
retro della gola sembrò rotolarle un po’ più in basso, giusto quel tanto che le
bastava per mandarlo giù deglutendo a vuoto. Il ragazzo si raddrizzò solo di
pochissimo, ma il viso rimase chino sulle mani di lei. “E la terza è calarsi
nella meditazione con la mente.” disse dopo una pausa, durante la quale era
rimasto seduto, immobile, mentre a lei il sangue correva tumultuoso nelle vene,
e la sua mente era come paralizzata. “Devi fissare la luna, o un’immagine della
luna, fino ad essere in grado di tenere stretta la sua luce al centro dei tuoi
pensieri. Finché non sarà sempre con te, senza esitazioni.” Alzò la testa, aprì
gli occhi per incontrare quelli di lei, in uno sguardo ingenuo, diretto. “Sempre
nel tuo cuore.”
Arashi trasalì, le sue dita si
serrarono sotto quelle di lui per riflesso mentre s’irrigidiva, colpita da uno
spasmo, una fitta acuta, simile ad un morso della fame. Ricambiò il suo sguardo,
combattuta come lo era sempre quando cercava di adattare, di contenere le parole
e le costanti attenzioni di lui entro i limiti di ciò che fosse possibile,
accettabile, permesso, anche se in fondo lo sapeva, lo sapeva che la realtà era
un’altra.
Quasi si sentiva precipitare…
–sì– cantava quella piccola voce dentro di lei -sì, vivi, scopri la
vita- ma non era così facile, né per lei né per nessuno degli altri, sempre
in equilibrio sul margine sottile e acuto della decisione, sempre costretta a
guardare con gli occhi aperti dritto nelle fauci del drago della distruzione… E
come avrebbe potuto, in coscienza, accettare la gioia che avrebbe potuto
provare, sapendo che era a quel prezzo, al prezzo del sacrificio di una persona
come quella, per una come lei? Un baratro vuoto le si spalancava dentro,
immenso, profondo.
Strappando via tutte e due le
mani da quelle di Sorata, balzò in piedi, saltò giù dalla roccia, corse via
furiosamente, con l’erba che assurdamente le cedeva sotto i piedi, lasciando
dietro di sé la luna a specchiarsi sull’acqua. Strinse forte le dita a pugno
contro il battito nelle sue vene, contro il dolore nel suo petto, contro il
destino, contro il potere del kami che le bruciava dentro, un respiro affannoso,
un gemito –perché viviamo, a cosa serve questa vita, per essere soli o
affrontare il dolore?
Come una nenia cantata da una
voce bambina, poi, le sue stesse parole tornarono a lei: una cantilena monotona,
priva di significato che si ripeteva nella sua mente, fredda e beffarda:
- Non esiste battaglia
dalla quale tutti escano illesi… -
Sorata rimase a guardare la
corsa impetuosa di lei tra le ombre sotto gli alberi, il nero dei suoi capelli e
della sua uniforme che si perdeva rapidamente nella notte. Lo scricchiolio di un
ramo, il fruscio delle foglie, il quasi inaudibile passo di piedi veloci furono
presto svaniti del tutto. Rimasto solo con i piccoli, ordinari suoni e rumori
del giardino, sospirò. Voltandosi, alzò lo sguardo verso la luna ancora una
volta: quella luna irraggiungibile, intangibile, ma in qualche modo intima;
completa in se stessa, ma anche tutt’uno con il suo riflesso; una pietra di
paragone contro l’infinita oscurità che le si stendeva sotto.
“Bellezza.”
Chiuse gli occhi.
“A me non serve la luna per
guardare oltre.”
Note dell’autrice:
questa fic mi è stata ispirata da “Japanese Moonlight” di Jason Sanders, un
articolo inviato per la pubblicazione al giornale dove lavoro. Non avevo mai
sentito un sintagma come “Le tre intimità” riferito alle pratiche del buddismo
Shingon –la traduzione più comune per “sanmitsu” sembra essere “I tre segreti” o
“I tre misteri”- però ho consultato il mio dizionario dei kanji e ho potuto
constatare con sicurezza che effettivamente “mitsu” vale anche “vicino” o
“intimo” allo stesso modo di “segreto”, “nascosto”. La mia immediata connessione
di questo piccolo fatterello con Sorata e i suoi sentimenti verso Arashi
dovrebbe essere più che comprensibile!
Qualche notizia in più
riguardo a queste “Tre intimità”: mudra, mantra e meditazione. Il mantra che
recita Sorata è chiamato “I Cinque Grandi Voti”, e viene pronunciato prima di
entrare in meditazione. Credo che, come succede per la maggior parte di queste
litanie buddiste, le sillabe non siano la traduzione letterale delle frasi che
vi scrivo ora sotto, bensì siano fatte per evocare il loro significato
esoterico:
SHU JO MU HEN SEI
GAN DO Gli esseri senzienti sono
innumerevoli, giuro di liberarli tutti FUKU CHI MU HEN
SEI GAN SHU I meriti e le saggezze sono senza
confini, giuro di accumularli tutti HO MUN MU HEN SEI
GAN GAKU I
cancelli del Dharma sono infiniti, giuro di conoscerli tutti NYO RAI MU HEN SEI
GAN JI Le
forme di Buddha sono innumerabili, giuro di servirle tutte BO DAI MU JO SEI GAN SHO L’illuminazione è cosa senza pari, giuro di raggiungerla.
Purtroppo non
ne so abbastanza sull’uso che nel buddismo si fa dei mudra, o figure sacre
composte con i gesti delle mani, per poterli descrivere nel dettaglio; per gli
scopi di questo racconto, ho supposto che siano abbastanza simili ai gesti dell’onmyoujitsu
di Subaru. La parte del Gachirinkan che consiste nella meditazione è nota come
“Visualizzazione Primaria”, e funziona praticamente come la descrive Sorata: chi
medita concentra lo sguardo su un’immagine della luna finché può crearsi e
possedere all’interno della mente quell’immagine. Lo scopo è rendersi conto alla
fine di come tutti gli esseri viventi partecipino ad un unico spirito, che tutto
è impregnato della stessa forza vitale del Buddha, e che perciò non c’è niente
che sia in opposizione a qualcos’altro. Questo raggiungimento dell’illuminazione
ha sicuramente parecchie implicazioni interessanti per la relazione di Sorata
con Arashi, e anche un impatto sul fatto che lui abbia compreso che l’ultima
battaglia è dunque un gran bel pasticcio. Dainichi
Nyorai è il nome della divinità principale del buddismo Shingon, un particolare
aspetto del Buddha che credo sia identificato con il sole. La citazione
del flashback di Arashi è tratta dal suo character file, nella
traduzione di Fuu. E adesso
direi che siamo finalmente arrivati in chiusura di tutte queste note. Phew!
Ringrazio come sempre Kristin O. per i suoi commenti e le sue ricerche in campo
botanico che vanno ben oltre il dovuto, e Jason per il suo articolo veramente
ben fatto. Spero che questo racconto vi sia piaciuto!
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