Fredda

di fotone
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Fredda. Ginevra era fredda. Guglielmo accarezzò con le sue dita bollenti di desiderio la sua lucente pelle di un chiaro pallore che la faceva sembrare una fata, una dolce fetta di torta alla crema, una candida ninfa dai colori invernali. Posò le sue labbra sulle sue guance soffici e fredde, inspirò profondamente il profumo della sua pelle in decomposizione e sorrise, inebriato dall’aroma di morte, per poi baciare la meravigliosa bambola di plastica che aveva ora reso sua. Accarezzò la sua pancia, la sua vita, i suoi seni, il suo collo. Era perfetta, era come lui l’aveva resa: un pallido e fresco corpo morto che giaceva accanto al suo corpo, vivo solo in apparenza, sotto le lenzuola bianche e candide come la pelle di quella creatura fatata. Non pensava di essere ormai tanto diverso da lei. Ora che era morta, appartenevano alla stessa specie: alla specie degli organismi il cui non vi è un cuore che batte, come i funghi, come i fiori. Ginevra sembrava un fiore. Ginevra sembrava una stella alpina. Guglielmo riteneva che lui, con i suoi pensieri neri come la pece, rari come un cuore puro, fosse simile ad una rosa nera. Ginevra era pura, lui era l’opposto. Ginevra aveva un’anima che respirava, da viva e da morta, ma un corpo che, nella pratica, non respirava più. Guglielmo, al contrario, pur avendo un corpo che, nella pratica, respirava, aveva un’anima che non aveva probabilmente mai respirato, nei lunghi anni in cui aveva vissuto. Si accigliò, prendendo coscienza della loro diversità. Accarezzò la guancia della sua fata privata e si posizionò sopra il suo corpo, con l’intenzione di riempirla di lui in modo che la sua anima nera potesse penetrare il suo corpo bianco e vuoto in modo da mischiarsi ad esso, come il caffè si mischiava al caffè latte quando li mescolava ogni mattina.




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