Herz aus Stahl

di Saelde_und_Ehre
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PREMESSA

Era da tanto tempo che volevo scrivere qualcosa su questo periodo storico, che come tutti i periodi della Storia non è da vedersi come un blocco megalitico, bensì come un caleidoscopio in cui si alternano luci e ombre.
Tuttavia, più che come un romanzo storico tout-court (personaggi e vicende sono frutto della mia fantasia, pur essendo inseriti in un contesto storico immediatamente riconoscibile), vorrei che consideraste questa storia come un tributo a tre delle mie più grandi passioni: la storia militare, la cultura germanica e l’amore eroico di tradizione classica, basato sull’immortale connubio tra Eros e Thanatos.

 
Questa storia è, come credo sia chiaro dall'introduzione, raccontata dal punto di vista di un gruppo di soldati e ufficiali tedeschi al fronte.
Siccome il tema è stato trattato svariate volte, e sempre in un'ottica di denuncia, stavolta ho voluto stravolgere le prospettive e analizzare il fenomeno attraverso gli occhi di chi invece ci credeva, tralasciando proclami politicizzati e propaganda di vario genere.
Chiaramente non sarà questo il tema principale della storia, né il "messaggio" che intendo veicolare attraverso le righe: qualsiasi presa di posizione da parte dell'autrice è totalmente assente dalla narrazione, né credo debba essere oggetto di discussione in questa sede.
Questa è solo una storia di guerra come tante altre e spero che vediate l'umanità dei personaggi senza soffermarvi sulle uniformi che indossano.
Se però queste tematiche proprio vi disturbano, se non riuscite ad approcciarvi a cuor leggero alla lettura, fermatevi pure qui.
Se invece, date le premesse, avete comunque deciso di continuare, buona lettura.

Ringrazio fin da subito chiunque avrà voglia di seguirmi in questa nuova avventura.
 
***
 

So silent before the storm 
Awaiting command 
few has been chosen to stand 
As one outnumbered by far 
The orders from high command
Fight back, hold your ground!

In early September it came 
war unknown to the world 
No warning they entered that land 
That is protected by Polish hand 
Unless you are forty to one 
Your force will soon be undone

Sabaton - 40:1


 

I.
Blitzkrieg


 

Una striscia infuocata lambì la linea dell’orizzonte, incontrando il cobalto del cielo e infiammando le nuvole basse, mentre una densa cortina di polvere accompagnava la ritirata delle forze polacche.
“Torneranno, signori, torneranno”, borbottò il maresciallo Walther Eichmann dalla propria postazione, l’onnipresente binocolo che gli pendeva dal collo.
Il caporal maggiore Schneider si portò una sigaretta alle labbra e la accese, senza far caso alle occhiate torve dei serventi dell’obice da 105. “Domani è un altro giorno”, proclamò, soffiando assorto una boccata di fumo.
Eichmann non replicò. Si sistemò gli occhiali sul naso, si sporse al di là della barriera di sacchi imbottiti e puntò il binocolo verso la macchia di alberi sparuti oltre la quale si era rifugiata la fanteria polacca. “Scommetto che sono andati a cercare rinforzi da qualche parte, signori. Ci piomberanno alle spalle quando meno ce lo aspettiamo.”
“Stanno ripiegando verso Lodz, in attesa dell’intervento di Francia e Inghilterra”, disse con calma il capitano Fromm, intromettendosi nella conversazione, “non riescono più a contenere gli attacchi congiunti della fanteria, delle divisioni corazzate e della Luftwaffe.” Levò uno sguardo verso il cielo che imbruniva e alzò la voce per farsi sentire da tutti i presenti: “Possiamo iniziare a sgomberare il campo, dopodiché ci avvieremo verso i baraccamenti. Eichmann, Grünewald, Böhmer, a voi il compito di supervisionare le operazioni. I comandanti di plotone a rapporto da me entro cinque minuti.”
A quelle parole, il tenente Friedrich von Kleist si risollevò dalla scomoda posizione in cui era rimasto costretto per ore, vicino alla mitragliatrice pesante MG 08, e si ripulì i pantaloni sporchi di terra e fili d’erba. Settembre era appena iniziato, e con esso la guerra, ma il caldo di fine estate non accennava a diminuire. Fece scorrere uno sguardo sugli uomini del suo plotone: qualcuno dei mitraglieri si era tolto la giubba dell’uniforme ed era rimasto in camicia.
Il sottotenente Kühn, l’ufficiale aggregato al suo plotone, si sganciò l’elmetto per tergersi il sudore dalla fronte e si avvicinò ai soldati per aiutarli a smontare la pesante mitragliatrice da campo.
Quel gesto spontaneo provocò un leggero sorriso a von Kleist, che ripose le munizioni nell’apposita cassetta e si rialzò in piedi per sgranchirsi le ginocchia e i gomiti, troppo a lungo tenuti puntati contro il duro suolo. Quel giorno, la compagnia di Fromm non aveva riportato significativi progressi: c’era stato qualche scontro a fuoco con la fanteria polacca, azioni di disturbo che avevano tenuto bloccati i due schieramenti sulle due sponde opposte del fiume, ma niente che potesse dirsi veramente risolutivo per l’esito dell’avanzata tedesca. In compenso, però, Friedrich aveva avvertito distintamente il suono stridulo e raccapricciante delle trombe di Gerico, mentre gli Stuka volavano a stormi compatti sulle loro teste e si gettavano in picchiata per sganciare bombe sul suolo polacco, incuranti delle difese terrestri. Quasi tutti confidavano nel fatto che la guerra lampo si sarebbe conclusa in fretta, ma il suo ottimismo si manteneva ancora cauto.

Il capitano Klaus Fromm li attendeva con le braccia incrociate sul petto e la schiena appoggiata al fianco di una Kübelwagen. Quando li vide avvicinarsi e mettersi sull’attenti, raccolse una mappa dal sedile posteriore del veicolo, la srotolò e la appoggiò sul cofano. “Allora, signori”, esordì senza mezzi termini, indicando col dito un punto contrassegnato con una X, “noi ci troviamo qui, mentre la compagnia del capitano Bentheim è attestata qui, oltre quei rilievi montuosi a ridosso del bosco. I polacchi che abbiamo respinto si sono diretti verso nord-est, oltre il fiume, e ho buone ragioni per credere che abbiano deciso di abbandonare quest’area.”
“Abbandonare quest’area,” ripeté il tenente Wessel, pensoso, “per consegnarla nelle nostre mani dopo nemmeno due giorni? I polacchi ci odiano a morte, signore, non credo che basti una scaramuccia di poco conto per indurli alla resa.”
“Non una resa, Wessel, ma una ritirata strategica. Non abbiamo ancora incontrato il nerbo dell’esercito.”
L’altro annuì, fece un passo avanti e si chinò a sua volta sulla mappa, per poi alzare lo sguardo sul comandante della compagnia. “Il resto della Ostpreußen dove si trova, signor capitano?”
“Sono già in cammino per raggiungere la decima armata, cosa che avremmo dovuto fare anche noi prima che cause di forza maggiore ci trattenessero qui.”
“Quali sono, dunque, i piani per i prossimi giorni?” s’informò il tenente Körner, passandosi nervosamente le dita tra i corti riccioli castani.
“Fino a nuovo ordine, ci atterremo alle disposizioni del maggiore Bühler. Stasera incontreremo il capitano Bentheim e domattina ci metteremo in marcia. Ci ricongiungeremo col resto della divisione qui,” – indicò un punto sulla mappa, tracciandovi un segno deciso con la stilografica che aveva tratto dal taschino – “e proseguiremo lungo il corso del fiume Warta. Qui, se tutto va bene, incontreremo parte della decima armata e il generale von Salza, per procedere con le manovre di accerchiamento.” Mentre parlava, osservò ad uno ad uno i suoi quattro sottoposti: Wessel ancora chino a studiare la mappa, Körner, il giovane Hartmann rigido e impettito sull’attenti, e von Kleist che si limitò a ricambiare il suo sguardo. “Tutto chiaro, signori?”
“Sissignore,” rispose Wessel, seguito a ruota da Hartmann e Körner.
Von Kleist rimase a fissare la mappa per un istante inquantificabile, poi rispose con un secco cenno d’assenso. “Tutto chiaro, signor capitano.”

Quando finalmente abbandonarono il campo di battaglia per dirigersi ai baraccamenti, del Sole non restava altro che una vaga striscia di luce. I soldati marciavano allineati coi fucili in spalla, canticchiando Erika a gran voce.
Solo il tenente von Kleist, in testa al suo plotone, rimase in silenzio, perso nelle sue meditazioni.
“Il capitano ha detto che domani ci mettiamo in cammino per ricongiungerci con l’uomo di ferro e col resto del battaglione”, bisbigliò il caporal maggiore Schneider, rivolto al sergente Hoffmann.
Nell’udir nominare quell’epiteto, Friedrich drizzò le orecchie e si mise in ascolto, cercando di non farsi notare.
Hoffmann emise un fischio. “Se l’uomo di ferro ti becca un’altra volta a fumare vicino alle bocche da fuoco…”
“Già,” borbottò il graduato, portando una mano alla tasca in cui teneva il pacchetto delle sue sigarette, “ma io se non fumo divento nervoso, e poi chi lo sopporta lui che sbraita.”
Il sottufficiale gli batté una manata sulla spalla. “Basta che non lo fai incazzare e lui sta zitto.”
Schneider imprecò qualcosa tra i denti e si fece scivolare il fucile sull’altra spalla, ma trovò più saggio non dargli ulteriore corda, e dopo averlo superato di qualche passo si accese l’ennesima sigaretta.
“Se non ci fosse lui, signori…” sentenziò Eichmann, dopo qualche istante, “Bühler è giovane ma sa il fatto suo. Vorrei vedere voi, diventare maggiore a nemmeno trent’anni, prendere cento fucilieri e sfondare i fianchi della cavalleria polacca…”
Friedrich von Kleist dovette trattenersi dal lanciare di sottecchi un’occhiata torva al vecchio maresciallo. Com’è che quel vecchio gufo sa sempre tutto prima di me?
Si voltò verso il sottotenente Kühn, quasi come se si aspettasse una spiegazione che conosceva già. Nonostante avesse solo diciannove anni, il giovane lo superava in altezza di almeno un palmo e aveva una costituzione di gran lunga più robusta e poderosa; i suoi capelli color grano, scompigliati dall’elmetto, gli incorniciavano il volto annerito dal fumo. “Ne sa sempre una più di tutti gli altri”, rispose il ragazzo, stringendosi nelle ampie spalle.
Il tenente annuì; ormai era abituato ad apprendere dalle allusioni del maresciallo notizie che sarebbero dovute pervenire prima agli ufficiali. A proprie spese aveva appreso che Walther Eichmann era occhi e orecchie del plotone: era sconvolgente quante informazioni potessero captare quelle sue orecchie sporgenti, quante cose potessero vedere quei suoi acuti occhietti scuri. Ogni tanto, si faceva strada in lui il timore che neanche il suo segreto fosse al sicuro, nonostante tutto l’impegno che ci metteva per non lasciar trapelare nulla. Gli altri ufficiali lo bollavano come un lupo solitario, un tipo ombroso e poco incline a stare in compagnia, ma von Kleist era sempre stato orgoglioso della propria riservatezza – che, tra l’altro, spesso si era rivelata un’alleata preziosa.
Con una scrollata di spalle, riprese a camminare guardando dritto di fronte a sé, oltre i fitti alberi che si protendevano verso il cielo come una corona nero pece.
Le note allegre di Westerwald scandivano il ritmo della marcia, accompagnate dal chiurlare degli uccelli notturni, dallo scalpiccio degli stivali militari e dai sommessi fruscii del bosco.
Friedrich non poté fare a meno di sorridere tra sé e sé, a sua volta rinfrancato dal buonumore dei suoi soldati.

La colonna di fanti varcò l’ingresso dell’accampamento intonando Schwarzbraun ist die Haselnuss; i feriti bisognosi di assistenza furono subito smistati nella tenda adibita a infermeria, gli altri si avviarono verso la mensa per ricevere il rancio.
Solo il tenente von Kleist, anche dopo che il suo comandante lo ebbe congedato, si trattenne sul piazzale e si accostò alla barricata che delimitava il perimetro del campo. Le bandiere di guerra del Reich in rosso, bianco e nero ondeggiavano dolcemente sui pennoni, gli stendardi della Divisione pendevano dalle aste: in campo bianco, la croce del Gran Maestro dei Cavalieri Teutonici sormontata da un’aquila nera che tra gli artigli stringeva una svastica.
Dalla sommità della spianata su cui avevano montato le tende si poteva spaziare la vista per diversi chilometri: in lontananza, nella vallata tagliata dal fiume, emergevano dal buio le luci di una città e alcuni fuochi, probabilmente accampamenti militari tedeschi e polacchi; le stelle si specchiavano sul pelo dell’acqua come tanti piccoli diamanti immersi nella pece liquida. Friedrich von Kleist appoggiò entrambe le mani alla palizzata, socchiuse gli occhi e inspirò il pungente odore dei pini silvestri, lasciando che la brezza vespertina gli scompigliasse appena i capelli biondi. Mentre il pomeriggio era stato infiammato dalle tempeste d’acciaio e dall’eco delle esplosioni, adesso tutto era quiete e sussurri.
Und meine Seele spannte
weit ihre Flügel aus,
flog durch die stillen Lande
als flöge sie nach Haus…
1
Inevitabilmente, il suo pensiero tornò alla Patria che aveva lasciato, settimane addietro, per raggiungere la linea del fronte in attesa di dare il via alle ostilità. Pensò ai soldati del suo plotone che avevano dovuto lasciare mogli, figli e fidanzate in Germania, e le sue riflessioni sul Bund e tutto ciò che comportava iniziarono ad acquisire un senso ancor più profondo. Si attardò ancora un po’ a fissare i fuochi assorto, immaginando che da qualche parte ci fossero anche lui e il resto del battaglione, poi volse le spalle alla vallata e si avviò verso la mensa, pur sapendo che probabilmente il pasto sarebbe stato già freddo.

Friedrich oltrepassò le tende dei soldati con aria svagata, realizzando che la maggior parte di loro erano ancora riuniti nel tendone che fungeva da refettorio e sala comune.
Varie torce da campo, appese a un lungo filo, pendevano da un albero all’altro e spandevano per terra una luce giallastra che attirava falene e altri insetti notturni; alcuni soldati erano seduti su un cumulo di sacchi imbottiti e bevevano del vino direttamente dalla stessa bottiglia, mentre si raccontavano aneddoti riuniti intorno a un falò. Uno di loro, appena lo vide, scattò in piedi e si mise sull’attenti per salutarlo.
Il tenente lo blandì con un gesto indulgente. “Comodo, soldato. Sto cercando il capitano Bentheim, qualcuno lo ha per caso visto?”
“No, signor tenente. Ha provato in mensa?”
Egli scosse impercettibilmente il capo, ringraziò e si congedò. Si affacciò al grande tendone, dove scorse il sottotenente Kühn di spalle, in fila per ricevere il rancio, mentre il capitano Fromm, seduto a una lunga tavolata, s’intratteneva insieme a Helmut Wessel, Hermann Körner e gli altri ufficiali – ma di Bentheim nemmeno l’ombra, anche se un paio di giorni prima si era accordato con lui per consumare insieme il pasto serale non appena la loro sistemazione glielo avesse concesso.
Possibile che…? Per un istante, gli balenò per la mente il pensiero che potesse essere ferito, o che per qualche altra ragione fosse stato trattenuto in infermeria. Aggirò la tenda con la croce rossa e chiese di lui a un tenente medico che fumava un sigaro vicino all’entrata, ma questi si sistemò gli occhiali sul naso affilato, si rassettò il camice bianco e si strinse nelle spalle: “Era qui fino a mezz’ora fa, per prestare assistenza ad alcuni feriti della sua compagnia.” Sollevò le sopracciglia con aria disinteressata, l’aria di qualcuno che sta per ribadire l’ovvio. “Ha provato a cercarlo in mensa, tenente?”
“Ho già controllato, ma non c’è”, rispose von Kleist a mezza bocca, trattenendosi dall’esprimere ad alta voce i propri pensieri.
A quel punto, rifletté mentre si allontanava, l’unica possibilità era che Bentheim fosse tornato alla propria tenda per prepararsi. In quell’accampamento c’erano solo il primo battaglione e due compagnie del terzo, quindi non fu difficile districarsi tra i padiglioni per individuare il settore occupato dalla compagnia di Bentheim, proprio a ridosso della parete rocciosa che s’innalzava a precipizio per un paio di decine di metri sopra di loro, come una protezione naturale.
“Friedrich!” esclamò una voce familiare alle sue spalle.
Prima che potesse individuarlo, nel campo visivo del tenente comparve la figura di un ufficiale alto, con le spalle larghe e i capelli neri come l’ala di corvo. Sulle spalline dell’uniforme portava le mostrine di capitano e la croce di ferro simbolo della Divisione, e gli occhi di un grigio chiarissimo spiccavano sul volto pallido e sporco di fuliggine.
“Konrad, ti stavo cercando!” lo salutò von Kleist, squadrandolo da capo a piedi. “Ma che ti è successo? Sembri un minatore della Ruhr.”
Bentheim si ripulì la manica con noncuranza e volse uno sguardo al tendone della mensa. “Ti spiegherò tutto di fronte a una scodella di cibo caldo. Vado a darmi una sistemata e ti raggiungo, tu aspettami pure qui.”

“E quindi, Tiedemann è rimasto ferito nell’esplosione di una granata e tu hai dovuto sostituirlo,” ripeté von Kleist, rigirando la forchetta nella scodella.
Seduto di fronte a lui, diversi posti vacanti a separarli dagli altri ufficiali, il capitano Bentheim annuì. “Ecco perché ci ho messo tanto. Siamo arrivati prima di voi, ma lo smistamento dei feriti ci ha preso un bel po’ di tempo. Sai com’è, mi sono preso l’impegno di dirigere personalmente le operazioni…”
“È grave?”
“No, per fortuna è stato colpito solo di striscio.” Il capitano sorbì un sorso d’acqua. “Ma i medici gli hanno consigliato di stare a riposo per un paio di giorni e lontano dai campi di battaglia per almeno una settimana. Domani marcerà con noi, ma finché non sarà nuovamente in grado di combattere mi occuperò io delle sue unità.”
“Per noi è stata una giornata relativamente tranquilla. Niente di rilevante”, interloquì il tenente. “Mi pare di aver capito che per voi, invece, sia stato l’esatto contrario.”
“Sì, ma ci ha dato delle soddisfazioni. Ci siamo scontrati frontalmente con un settore di fanteria e con qualche mezzo corazzato, ma nonostante la minoranza numerica siamo riusciti ad aver ragione delle truppe polacche prima del tramonto. Poter gestire le operazioni in autonomia ha i suoi vantaggi.”
Von Kleist cercò di immaginarsi l’amico mentre si destreggiava tra le file di soldati, schivando le grandinate di piombo e i pezzi d’artiglieria vagante, con un orecchio rivolto ai portaordini e gli occhi puntati sull’obiettivo da colpire. “Sei partito con le idee molto chiare.”
“Ci mancherebbe,” rispose l’altro pacatamente, con una scrollata di spalle e un lieve sorriso.
Continuarono a mangiare in silenzio per qualche minuto, circondati dal brusio di molte voci e dal tintinnio delle posate. Inevitabilmente, la mente di Friedrich tornò alla persona che più di tutte avrebbe voluto al proprio fianco.
Certi sottufficiali dicono che anche Hans abbia avuto successo sul campo”, disse infine, in tono allusivo.
“Cinque chilometri sulla linea del fronte, in un solo giorno”, rispose Bentheim, “hanno messo in fuga un’intera ala di cavalleria e si sono scontrati con un contingente corazzato. Si avvicinano sempre di più alla decima armata e al resto della Divisione.”
Con aria assorta, von Kleist si passò una mano tra le ciocche bionde e leggermente ondulate. Da quando avevano messo piede su suolo polacco, non si erano più incontrati col loro comandante di battaglione, tuttavia quella notizia non lo stupì particolarmente: sapeva bene, forse più di chiunque altro, di che stoffa fosse fatto il maggiore Hans Bühler. “Così deve essere,” disse semplicemente, mentre le sue labbra s’incresparono in un leggero sorriso. “Siamo qui per questo.”
Il capitano Bentheim scostò da sé il piatto ormai vuoto e tacque, assorto nei suoi pensieri. Friedrich non gli disse nulla e si limitò a rivolgere la propria attenzione all’ambiente circostante: il volume del chiacchiericcio si era abbassato, e all’interno della mensa non erano rimaste che poche decine di soldati che si attardavano a conversare a piccoli gruppetti.
“È tutto così diverso dall’Accademia e dalle sessioni di addestramento, vero, Fritz?”
Alle parole dell’amico, von Kleist quasi sussultò. Si guardò ancora una volta intorno, poi alzò di nuovo gli occhi su di lui e disse: “Già. Ma credo che sia questa la vera essenza della vita da soldato… non certo i circoli esclusivi di aspiranti ufficiali, rampolli della nobiltà prussiana.”
Konrad annuì in silenzio, e Friedrich comprese che anch’egli stava ripensando alla Preußische Kriegsakademie di Potsdam dove, seppur a distanza di un paio d’anni l’uno dall’altro, entrambi avevano ricevuto la formazione come ufficiali: una poderosa costruzione di fine Settecento, dove il rigore marziale della disciplina quotidiana incontrava l’eleganza misurata dell’estetica neoclassica. Pavimenti a scacchi bianchi e neri, candide colonne marmoree e statue di eroi della mitologia adornavano i corridoi più antichi, mentre gli edifici che ospitavano gli allievi – quasi tutti provenienti dalla vecchia aristocrazia prussiana ormai in declino – rispecchiavano i canoni spartani del Nazionalsocialismo. “È così”, convenne infine il capitano. “Qui, sul campo, non contano più i titoli nobiliari, le conoscenze altolocate o i successi conseguiti in Accademia.”
“Per fortuna,” disse il tenente, a denti stretti. Friedrich Hartwig, il conte von Kleist, era molto riservato quando si trattava di parlare di sé e delle sue origini. “Non immagini l’imbarazzo quando il colonnello Wolff mi ha chiesto se ero davvero figlio di quel colonnello von Kleist…” Abbassò la voce, anche se ormai nessuno avrebbe potuto sentirlo. “E poi è venuto fuori che conosceva mio padre perché avevano combattuto insieme a Tannenberg, nel ‘14, anche se si trovavano in disaccordo quasi su tutto… le sue nostalgie monarchiche non gli hanno procurato una buona fama, a quanto pare.”
“Anche su di me girano delle… voci.” In pochi, oltre a Friedrich, sapevano che il vero nome del capitano era Konrad Wilhelm Fürst von Bentheim und Steinfurt, ed egli non aveva alcun interesse a farlo sapere in giro. “Tuttavia, credo che la cosa migliore da fare sia sorridere con indulgenza e lasciar correre: la gente spesso si immischia negli affari altrui perché non ha nient’altro d’interessante da fare, non perché gli interessi davvero.”
“E parla degli altri perché non ha nient’altro d’interessante da dire,” completò von Kleist.
“Esatto.” Bentheim fece scorrere lo sguardo attraverso la sala vuota, poi si alzò e disse: “Ma andiamo fuori a parlare, ti va? Gli inservienti ci stanno guardando male da un bel po’.”
Friedrich annuì, raccolse il berretto e seguì l’amico fuori dal tendone.

Spirava un vento leggero, che faceva tremolare i fuochi e animava la foresta di mille sussurri. Da qualche parte nel folto degli alberi, un gufo emetteva il suo cupo richiamo, e nel silenzio si poteva udire anche il placido gorgogliare di un ruscello.
Von Kleist e Bentheim rimasero per un po’ in silenzio a osservare le luci lontane, ognuno apparentemente assorto nei propri pensieri. Si conoscevano così tanto bene, e da così tanto tempo, che a Friedrich bastò uno sguardo per capire che il suo amico stava indugiando in qualche ricordo lontano.
“Mi chiedo che cosa penserebbero gli altri ufficiali, se sapessero”, disse infine Bentheim, quasi parlando tra sé.
Il tenente aprì la bocca per dire qualcosa, ma l’altro lo prevenne con un gesto di diniego: “Forse è meglio rimanere col beneficio del dubbio e concentrarci sull’obiettivo presente,” concluse, cambiando discorso. “Sai, ieri ho visto Paul von Seydlitz mentre era in ricognizione.”
“Ah, sì? E che dice?”
“Mah, non abbiamo avuto molto tempo per parlare… però propone di incontrarci per una bevuta tutti insieme, non appena ci ritroveremo operativi nella stessa zona.”
“E del maggiore von Bülow e del tenente von Falkenstein-Kurzbach, hai notizie?”
“Niente che tu già non sappia: i vari reparti della Ostpreußen sono sparpagliati nel raggio di cinquanta chilometri, e le comunicazioni per radio o staffette sono riservate alle situazioni di emergenza… è probabile che ci ricompatteremo soltanto quando raggiungeremo il generale lungo la strada per Varsavia.”
Friedrich annuì. “Mio cugino mi deve ancora la rivincita. Spero se lo ricordi.”
L’altro si voltò verso di lui, alzando un sopracciglio. “Rivincita per cosa?”
“Duello con la sciabola”, rispose il giovane, con un guizzo negli occhi. “Sarà stata anche un’occasione amichevole, ma ne va del mio onore.”
Il capitano rise, memore degli innumerevoli episodi di rivalità cavalleresca tra i due. “Se lo ricorderà sicuramente. Paul non è tipo da dimenticare certe cose.”
“Oh, se lo so. Con mio fratello ne combina di peggio, e lui gli dà pure corda. Anzi, di solito è proprio lui quello che salta fuori con le idee più strampalate. Hai presente, no?” Friedrich sorrise con indulgenza: lui, Manfred von Kleist e Paul Joseph von Seydlitz erano amici d’infanzia, cugini cresciuti quasi come tre fratelli nonostante le differenze caratteriali, e non perdevano mai occasione per sfidarsi – che fosse nelle discipline marziali, negli sport all’aperto o nei giochi di società, faceva poca differenza.
“Mesi fa mi ha raccontato che una volta avete tentato di attraversare a nuoto il lago della sua tenuta… in pieno inverno”, disse Bentheim, inarcando le sopracciglia. “E poi siete finiti entrambi a letto con la febbre.”
Von Kleist si schermì. “Fu un’idea sua… naturalmente.”
“Ma tu non rifiutasti.”
“Eravamo dei ragazzini. E nonostante si vantasse dei suoi successi nelle gare sportive, fui io il primo a giungere sull’altra sponda.”
“Nientemeno”, commentò l’altro.
Continuarono a passeggiare lungo il perimetro della palizzata discorrendo di amenità, Bentheim con le braccia intrecciate dietro la schiena e Friedrich con le mani in tasca. Di tanto in tanto, il più giovane lanciava sguardi oltre la cortina di alberi, verso i fuochi degli accampamenti lontani, curandosi di non lasciar riaffiorare la sua nostalgia e i suoi più intimi pensieri.
Si sollevò una folata di vento, che fece ondeggiare le cime degli alberi e garrire le bandiere alle loro spalle. La luna era ormai alta in cielo, e molti dei soldati si stavano avviando ai baraccamenti. Uno di loro caracollò ubriaco e inciampò nella corda di una tenda, ma due suoi commilitoni intervennero tempestivamente per impedirgli di cadere lungo disteso, ridendo e motteggiando nel loro dialetto locale.
Quasi simultaneamente, Konrad e Friedrich si volsero l’uno verso l’altro. “Che ne dici, andiamo a dormire anche noi?” propose il primo. “Durante la marcia, domani, avremo tutto il tempo per parlare.”
Il tenente rispose con un tacito cenno d’assenso, pur sapendo che avrebbe preso sonno solo dopo la mezzanotte inoltrata: nella sua tenda, avrebbe trovato un buon libro ad attenderlo, qualche ora di solitudine da dedicare alle sue riflessioni e un giaciglio su cui stendere le membra stanche.
Così si separarono, dandosi appuntamento per l’indomani.

Il maggiore Hans Bühler si lasciò alle spalle la compagnia gaudente e uscì nella placida notte d’inizio settembre. Camminò per un po’ avanti e indietro, poi appoggiò i gomiti alla staccionata e fece vagare lo sguardo attraverso il paesaggio immerso nell’oscurità. Lontano dalle luci della fattoria e dal chiacchiericcio dei soldati, l’immensa campagna appariva come un mare di alti steli che ondeggiavano al vento, lambiti appena dal chiarore della luna. In lontananza, su un’altura prospiciente il fiume, l’ufficiale intravide i fuochi di un accampamento, che – se i suoi calcoli erano giusti – ospitava il primo battaglione e le due compagnie che mancavano ancora all’appello, compreso von Kleist. Per la prima volta da quella mattina, il pensiero che presto lo avrebbe rivisto gli procurò un leggero sorriso, che però disparve quasi subito, inquinato dal ricordo della giornata campale appena trascorsa: per lui c’era ben poco da festeggiare, nonostante la vittoria sul campo.
Trasse una sigaretta dall’astuccio di metallo che portava nella tasca dell’uniforme, se la mise tra le labbra e l’accese, soffiando nervosamente il fumo dal naso.
“Signor maggiore?”
Bühler si voltò in direzione della voce, trovandosi di fronte un uomo robusto sulla trentina, coi capelli biondi cortissimi e un imponente naso aquilino. “Capitano Schwieger”, disse semplicemente, porgendogli il pacchetto come in un rituale consolidato. “Una sigaretta?”
“Volentieri, signore.”
Hans rimase in silenzio a guardare il suo subalterno che si appoggiava con la schiena alla staccionata, volgendo gli occhi al cielo scuro. Günther Schwieger, di un anno più anziano di lui, era un suo commilitone di vecchia data, e spesso si trovavano a ricercare la reciproca compagnia. In un certo senso si fidavano l’uno dell’altro, nonostante l’inconciliabilità di certe loro visioni.
“Non si unisce ai soldati, signor maggiore?” chiese l’altro, dopo un lungo silenzio.
Egli si strinse nelle spalle con indifferenza. “Lei ormai mi conosce, Schwieger: sul campo sono sempre presente per i miei soldati, ma non amo il chiasso e la vita mondana.”
Il capitano lo scrutò di sotto in su. “Se mi permette, signore, vorrei chiederle che provvedimenti ha intenzione di prendere.”
“Prego?”
“Il sottotenente Schultz,” specificò l’altro, senza preamboli.
Il maggiore si irrigidì e gettò la cicca con un gesto sdegnato, schiacciandola sotto il tallone. “Alla prossima infrazione lo mando a pulire le latrine per un mese,” ringhiò, a denti stretti. “I miei ordini erano ben precisi.”
Schwieger tacque, impressionato da quell’improvviso impeto di rabbia.
Bühler si accese un’altra sigaretta e riprese a camminare avanti e indietro, come un animale in gabbia. Cercava sempre di non farsi vedere dai suoi subalterni quando perdeva le staffe, ma quella volta mantenere un tono di voce normale gli costò una fatica sovrumana. “Dai miei ufficiali non sono disposto a tollerare un simile comportamento, capitano.” La vampata che gli era salita al volto parve acquietarsi, ed egli si appoggiò alla staccionata, ricomponendosi. “Questi ragazzotti sono stati inviati al fronte appena usciti dalla Hitlerjugend. Con che faccia tosta pretendono di poter dirigere operazioni campali? Gli avevo detto chiaramente di seguire il tenente Wagner e di non prendere per nessuna ragione iniziative personali. E invece Schultz che ha fatto? Quando Wagner è rimasto ferito, lui ha preso il comando del plotone e l’ha condotto in una zona pericolosa… che cosa si aspettava, una decorazione al valore?” Le ultime tre parole gli uscirono dalla bocca come una sfilza di dardi ghiacciati. “Non sono disposto a tollerare un’altra bravata del genere. Ha rifiutato la mia offerta d’aiuto. Ha detto che i polacchi erano meno di cento e che sarebbero stati perfettamente in grado di respingerli da soli… invece erano più di trecento, e li hanno quasi sopraffatti!”
“Probabilmente sperava di attirare la sua attenzione,” osservò Schwieger, dopo aver ponderato con cautela le sue parole. “Se ne sarà accorto anche lei, di quanto gli ufficiali più giovani si prodighino per cercare di compiacerla. Sanno che lei è giovane, che apprezza l’eroismo…”
“Questa è incoscienza, non eroismo”, ribatté il maggiore. “Ha rischiato di condurre cinquanta soldati al macello.”
Il capitano annuì in silenzio, la sigaretta tra le labbra. Soffiò l’ultimo tiro, poi gettò via il mozzicone a sua volta, scrutando il suo comandante da sotto le sopracciglia: ogni tanto la sua apparenza severa e imponente lasciava riemergere la giovane età e il peso dell’inesperienza in quel ruolo che gli era stato affidato poco prima dell’inizio della guerra, ma con altrettanta rapidità riusciva a recuperare la lucidità e il controllo delle situazioni.
Senza far caso al suo sguardo, il maggiore si passò una mano sul viso, ravviandosi all’indietro una ciocca di capelli castani. “Abbiamo sfiorato il disastro,” proferì lapidario. Ancora una volta, appoggiò entrambe le mani alla staccionata e si perse a contemplare la campagna, prestando un orecchio distratto al lontano sferragliare di un treno sulle rotaie. “Non sono disposto a passarci sopra,” decretò. Drizzò le spalle, si volse verso di lui e lo fissò dritto negli occhi. “Da domani la assegnerò alle retroguardie, affidandole il compito di sorvegliare personalmente l’operato del sottotenente Schultz.”
“Sarà fatto, signore.”
“Molto bene.” Bühler gli rivolse un leggero cenno d’approvazione. “Conterò su di lei, Schwieger.”
“Entro quanto tempo stima di ricongiungerci col resto del battaglione?”
“Massimo due giorni.”
“La vedo fiducioso.”
“Abbiamo degli ufficiali che sanno fare bene il loro lavoro.”
Per un istante, il suo pensiero tornò al tenente Friedrich von Kleist. Gli parve quasi di vederlo, di rievocare quel suo guizzo baldanzoso negli occhi color del ghiaccio: lui non aveva mai cercato di compiacerlo, non si era mai piegato a quegli squallidi trucchetti. Eppure, era stato davvero l’unico in grado di colpirlo positivamente fin da subito.
“Anche loro si metteranno in marcia domani…” concluse, incamminandosi verso la fattoria occupata dai soldati. “Sempre che non incontrino altre seccature lungo la via.”


  1. Mondnacht, Eichendorff: “E la mia anima spiegò / le ali, spiccò il volo / attraverso la landa silenziosa, / come se volasse verso casa…”↩︎





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