I
Scesi dall'auto con
l'intento di recarmi subito al mercatino. Quel giorno volevo
assolutamente
comprare delle piante e almeno un libro. Ero ispirato, volevo qualcosa
di nuovo
che mi soddisfacesse e mi aiutasse a dimenticare il litigio che era
avvenuto
poco prima a casa mia.
Quel mostro immondo
di mio padre non aveva fatto che gridare fin dalle prime ore dell'alba,
facendomi sentire una merda come soltanto lui era in grado di fare. Era
stato
orribile soprattutto sentirlo ribadire che ero un fallito
perché non avevo
ancora messo incinta una femmina fertile.
Mi ero limitato a
mandarlo al diavolo e mi ero precipitato in macchina, deciso ad
andarmene di lì
e a dedicarmi a uno dei miei adorati mercatini.
Cominciai a
gironzolare, facendo lo slalom tra persone e bancarelle che non
destavano il
mio interesse.
Mi venne quasi da
ridere nel ripensare al mostro che mi aveva messo al mondo. Se solo
avesse
saputo che le femmine
fertili di
cui parlava non mi interessavano più di
tanto, se solo avesse saputo che preferivo gli uomini maturi e
rassicuranti...
ah, avrebbe dato di matto, quel folle!
Ero in cerca di un
bel banco di piante rare e bellissime, quando notai una bancarella
stracolma di
cianfrusaglie. Non mi ci sarei mai soffermato, se dietro di esso non ci
fosse
stato un signore che straparlava con un sacco di clienti, quasi tutte
donne e
completamente catturare dalle sue ceramiche, dagli orologi da parete e
da un
sacco di altre chincaglierie.
Rimasi impalato a
osservarlo, pur mantenendo una certa discrezione, con il risultato di
ricevere
imprecazioni e spintoni dalle persone a cui stavo intralciando il
cammino.
Era bellissimo.
Doveva avere almeno sessant'anni, portava i capelli brizzolati corti e
teneva
gli occhi marroni e vispi a scandagliare i vari avventori che si
assiepavano
attorno al suo banco.
Come preso da un
istinto incontrollabile, mi accostai a mia volta e presi a osservare
con poco
interesse la merce esposta, lanciando continue e brevi occhiate al
venditore
che aveva destato il mio interesse.
«Quanto
costa
questa ciotola? Che bella!» strillò una signora,
la sua voce acuta mi penetrò
nelle orecchie, scombussolandomi.
«Venticinque»
rispose lui gentilmente. Il suo timbro era caldo e non troppo profondo,
mi fece
rabbrividire e costrinse i miei occhi a posarsi ancora una volta su
quel viso
particolare e attraente.
«Me lo fa lo
sconto?» gracchiò ancora la vecchietta,
sistemandosi meglio il fazzoletto sulla
testa.
«È
un pezzo unico,
ne approfitti, altrimenti lo compro io» intervenne una donna
poco più giovane,
esaminando attentamente la ciotola color tortora che ai miei occhi non
aveva
proprio niente di unico.
«La voglio
io, giù
le mani, maleducata!» si rivoltò la più
anziana, stringendo l'oggetto sotto il
braccio e portando fuori una banconota da venti euro. «Prendi
questi» aggiunse.
«Ho detto
venticinque, signora» le fece notare il venditore.
«Arrivederci!»
La
donna girò i tacchi e se ne andò in fretta,
zoppicando leggermente.
Io rimasi basito.
«La gente non ha più pudore» mi ritrovai
a commentare senza accorgermene.
L'uomo dietro il
banco spostò lo sguardo su di me e mi fissò per
qualche istante. «Non importa,
lasciamola perdere» ammiccò, mentre sul suo volto
maturo si allargava un dolce
sorriso.
Strinsi tra le dita
le chiavi della macchina. Era difficile non osservarlo per me, ero
caduto
vittima di un colpo di fulmine capace di stordirmi e mandarmi in tilt.
Qualche altro
cliente fece un acquisto, qualcun altro osservò gli oggetti
e chiese
informazioni sui prezzi, e nel frattempo io rimasi lì a
godermi la compagnia di
quello sconosciuto e a sorridere ogni tanto per il modo bizzarro e
singolare
con cui si rivolgeva agli avventori e con cui scherzava apertamente.
Io ero decisamente
più timido di lui, non sarei mai stato capace di comportarmi
in quel modo.
Forse era proprio questo il motivo che mi dissuadeva dal portare i
prodotti che
coltivavo e producevo al mercato, sicuramente sarei stato incapace di
attirare
la clientela e di pormi nel modo giusto. Era un mestiere che richiedeva
molta
pazienza, ma anche un carattere solare, allegro e socievole.
Dopo un po' mi
decisi ad andarmene, non era certo utile che io rimanessi lì
impalato a fissare
un uomo che aveva almeno trent'anni in più di me e che era
decisamente fuori
dalla mia portata.
Chinai il capo e mi
voltai, pronto per cercare le mie piante e il mio libro.
Per tutto il tempo
non feci che pensare a lui, era come se camminassi a un metro da terra.
Poche
volte in vita mia avevo sperimentato sensazioni del genere, non avevo
la minima
idea di come gestirle.
Cominciai a
seguirlo in diversi mercatini, nonostante la sua merce risultasse
piuttosto
inutile e scadente ai miei occhi.
Un giorno faceva
freddo e io mi ero coperto per bene, mettendo addosso la mia fidata
sciarpa
fucsia e avevo messo ai piedi i miei scarponcini preferiti. Mi ero
perfino
guardato allo specchio prima di uscire, tentando di dare un senso ai
miei
capelli un poco scombinati.
Lo trovai che
contrattava per il prezzo di un orribile orologio da parete in ferro
battuto,
parlando animatamente con una donna di cinquant'anni che sembrava molto
perplessa riguardo al valore dell'oggetto in questione.
Avevo pensato molto
a un espediente per intavolare uno straccio di conversazione con lui, e
avevo
deciso che avrei finto interesse per uno dei suoi centrotavola in
ceramica,
affermando di dover comprare un regalo per mia madre. Forse ce l'avrei
fatto,
forse un poco avrebbe parlato con me.
Lasciai che finisse
la sua vendita, godendomi il momento in cui convinse la tizia a
sganciare ben
ottanta euro per un orologio che forse ne valeva dieci. Era un bravo
affarista,
sapeva come comportarsi con le persone e per questo lo ammiravo.
Infine presi
coraggio e mi piazzai proprio di fronte al banco, fingendo di esaminare
con lo
sguardo la merce. «Salve» lo salutai timidamente,
tenendo le mani affondate
nelle tasche del cappotto.
«Ciao. Come
posso
aiutarti?» replicò, dedicandomi la sua completa
attenzione.
Non ebbi il
coraggio di guardarlo, stavo letteralmente andando a fuoco e avevo
paura che
lui potesse scorgere il rossore sul mio viso. «Dovrei fare un
regalo a mia
madre» buttai lì. «Può
aiutarmi?» aggiunsi.
«Certo! Ti
piace
qualcosa in particolare? Altrimenti ho degli altri articoli sul
furgone.» La
sua voce mi confortava, nascondeva una nota di dolcezza che mi scaldava
il
cuore.
Erano poche le cose
capaci di scaldarmi il cuore, la mia vita era permeata da ben poco
amore. Mio
padre era un mostro e mia madre si interessava poco a me, capitava solo
ogni
tanto che mi facesse qualche regalo o che fosse d'accordo con me a
riguardo di
suo marito. La mia famiglia non esisteva più da tempo,
probabilmente non era
mai esistita, e io ero cresciuto in un ambiente insopportabile,
costretto a
lavorare come uno schiavo e incapace di ribellarmi. Del resto, dove
sarei
potuto andare? Cosa avrei potuto fare?
«Fa lo
stesso, mi
proponga qualcosa lei» gli comunicai, sbirciando nella sua
direzione con la
coda dell'occhio.
La sua mano
afferrò
una ciotola ovale, color sabbia, che recava un decoro color oro sui
bordi. Non
era male, ma certamente non l'avrei acquistata per me, se avessi potuto
scegliere.
«Che te ne
pare di
questa? Ti faccio trenta.»
«Vorrei
spendere
meno, è solo un piccolo pensiero» gli dissi,
alzando il capo e guardandolo in
faccia.
Volevo cercare di
capire
se stesse provando a imbrogliarmi come aveva fatto con la signora di
poco
prima, ma tutte le mie buone intenzioni andarono a farsi benedire
quando
incrociai i suoi occhi color nocciola, caldi e profondi, fissi su di
me.
Certamente mi stavo illudendo, ma era come se mi stesse esaminando,
forse per
farsi un'idea di che tipo di cliente fossi.
«Com'è
che ti
chiami?» domandò d'improvviso. «Ti vedo
spesso ai mercati.»
Il cuore mi
sprofondò nel petto e mi sentii avvampare ancora di
più. Mi sottrassi al suo sguardo
penetrante e tornai a fissare le ciotole sul banco senza realmente
vederle.
«Cosimo» mormorai.
«Io sono
Enea» si
presentò in tono allegro. «Allora, Cosimo, cosa
vuoi regalare a tua madre? Se
vuoi spendere meno, ti posso proporre questa. Venti euro e te la cavi,
fai pure
una bella figura per via di questa placchetta in argento»
blaterò, mostrandomi
un altro centrotavola. Stavolta era di vetro colorato, dalla forma
irregolare e
portava una piccola placca in argento a forma di fiore applicata sul
bordo.
Avrei comprato
qualunque cosa, pur di sentirlo ancora pronunciare il mio nome. Ero
rimasto
incantato dal modo in cui la parola prendeva forma e si srotolava tra
le sue
labbra, prendendo una cadenza particolare per via dell'accento
romagnolo che contraddistingueva
la parlata dell'uomo.
«Mi va
bene»
accettai senza pensarci troppo, del resto non mi importava
più di tanto di ciò
che stavo acquistato. Lo avrei consegnato a mia madre e forse lei
sarebbe stata
felice.
«Bene.»
Enea si
chinò sotto il banco per recuperare una busta di carta, poi
mi fissò e parve
riflettere un attimo. «Non posso farti il pacco regalo, ci
pensi tu?»
Annuii e feci un
cenno noncurante con la mano. «Si figuri»
farfugliai, cominciando a cercare i
soldi all'interno del portafoglio.
L'uomo
infilò il
centrotavola dentro la busta e me la porse, tenendola per i manici. La
afferrai
e nel farlo sfiorai per un attimo la sua mano, sentendola
incredibilmente
liscia e morbida.
Un brivido mi
investì senza che potessi controllarlo, così mi
affrettai a salutare Enea e a
lasciare il suo banco. Ero totalmente preda del mio stesso imbarazzo,
non
riuscivo più a stare fermo lì e a farmi penetrare
dai suoi occhi.
Per quel giorno
avevo dato abbastanza.
Stavo dando da
mangiare ai gatti quando l'orco arrivò al mio cospetto. Era
in compagnia di uno
dei suoi amici e stava portando fuori
oscenità irripetibili.
«Guarda
questa
merda, guarda! Non ha nemmeno mai scopato con una femmina, che schifo!
Non ti
vergogni?» mi si rivolse, battendo il piede per terra con
rabbia.
Il suo
accompagnatore se la rideva, era immensamente stupido e insignificante.
Mi
facevano pena, erano totalmente senza cuore e non avevano neanche un
briciolo
di cervello.
«Che
fallito... che
fallito! E adesso, merda, vai a prendermi da bere e da mangiare. E
anche per il
mio amico. Due caffè e del pane farcito. Vai! Che cazzo
aspetti?» sbraitava,
guardandomi con odio e disprezzo.
Io chinai il capo.
Non ne potevo più di sentirlo gridare, perciò era
meglio andare a fare ciò che
stava dicendo, altrimenti non avrei avuto tregua per il resto della
giornata.
Lasciai una piccola carezza sulla testa della gatta più
grande, poi mi misi in
piedi e, senza fiatare, mi diressi verso casa.
Ancora le grida
animalesche di quei due rimbombavano nelle mie orecchie, procurandomi
un acuto
senso di nausea. Ero circondato da dinosauri, gente con il cervello
fossilizzato fin dalla nascita, come potevo sperare che esistesse un
uomo
diverso? Come potevo illudermi che il venditore di ceramiche fosse
diverso dal
mostro che mi maltrattava e dai suoi amici stupidi?
Forse quando era al
mercato a vendere si comportava bene con i clienti per preservare la
sua
reputazione, per mantenere la clientela; ma probabilmente anche lui era
cattivo
e insensibile con la sua famiglia, di sicuro aveva una moglie e dei
figli che
lo detestavano proprio come io odiavo la bestia che mi dava del fallito
e mi
denigrava di fronte alla feccia della società.
Avrei tanto voluto
sputare nei loro caffè e metterci del veleno per topi, ma mi
limitai a fare il
mio lavoro e sperai che quella tortura finisse il prima possibile.
Avevo un
sacco da fare già per i fatti miei, non avevo alcuna voglia
di stare appresso
anche a quei due.
La mia unica
speranza risiedeva nel pensiero che il giorno seguente avrei rivisto
Enea; il
solo posare gli occhi su di lui e sentirlo blaterare con i clienti mi
bastava
per essere un po' meno depresso e triste.
«A tua madre
è
piaciuto il regalo?»
Quella domanda
giunse inaspettata e mi schiaffeggiò bruscamente,
strappandomi all'anonimato in
cui credevo di essermi immerso. Mi ero fermato a qualche metro dal
banco di
Enea e armeggiavo con il cellulare, scrivendo a delle amiche. Ero certo
che lui
non mi avrebbe notato, eppure fui costretto a ricredermi quando la sua
voce
raggiunse le mie orecchie.
Sollevai cautamente
il capo e incrociai i suoi occhi caldi. «Ah... sì,
sì, molto...» farfugliai,
stringendo un po' di più le dita attorno allo smartphone.
«Non mi
sembri
molto convinto» proseguì Enea, sorridendomi
apertamente.
«No,
davvero. Le è
piaciuto» ripetei, sperando di convincerlo e di non
offenderlo. Non volevo
dargli l'impressione di star mentendo, anche se in verità la
reazione di mia
madre non era stata particolarmente entusiasta quando le avevo
consegnato il
centrotavola.
«Meglio
così.» Enea
continuò a guardarmi. «Ragazzo, che hai?»
Sgranai gli occhi e
non seppi cosa rispondere. Non avevo idea a cosa si stesse riferendo.
«Hai una
faccia da
funerale» spiegò l'uomo, facendomi cenno di
accostarmi al suo banco.
Senza riflettere,
feci qualche passo verso di lui e mi fermai solo quando fui abbastanza
vicino
da poterlo osservare in tutto il suo splendore. Non capivo
perché stesse
parlando con me e come mai gli importasse tanto del mio stato emotivo.
«Hai
litigato con
la morosa?» se ne uscì, inclinando il capo di lato.
Mi venne da ridere
e non riuscii a trattenermi. «Macché...»
«No? E
allora?»
Non sapevo cosa
dirgli, anche se sapevo bene il motivo del mio stato d'animo. In quegli
ultimi
giorni mio padre mi aveva fatto impazzire, sfruttandomi come un servo
della
gleba e gridandomi contro gli insulti più brutti e cattivi
che un essere umano
potrebbe immaginare. Ero stremato, non ce la facevo più.
«Non si
preoccupi,
sono solo stanco» tagliai corto.
Una cliente si
accostò al banco di Enea e lui fu costretto a dedicarle
tutta la sua
attenzione. Fui tentato di andarmene, ma non volevo porre fine a quella
piccola
illusione; in qualche modo quell'uomo sconosciuto si stava curando di
me, e io
non potevo permettermi di perdere quell'occasione d'oro.
La donna rimase a
rompere per almeno un quarto d'ora, chiese il prezzo di ogni singolo
oggetto
esposto e alla fine non comprò nulla. Ero ammirato dalla
pazienza che Enea
possedeva.
L'uomo
tornò a
guardarmi. «Sei sicuro di stare bene?»
domandò.
Annuii, mentre le
mani mi tremavano e il mio viso diventava rosso. Avevo una grossa
difficoltà a
stare fermo e stavo per scappare a gambe levate. Era troppo per me,
tutte
quelle sensazioni ed emozioni erano troppo.
«Vuoi un po'
di
caffè?» propose Enea, prendendo tra le mani un
thermos verde. Mi sorrideva,
probabilmente gli facevo pena ed era per questo che continuava a
parlarmi e
sembrava poco incline a mandarmi via.
«No, mi
agita
troppo. Grazie» rifiutai, infilando le mani in tasca per
nascondere il loro
tremore.
Enea si
lasciò
sfuggire una risata e si versò un po' di liquido scuro nella
tazza di plastica
abbinata al thermos. Mi tornò in mente il momento in cui mio
padre mi aveva
ordinato di preparare il caffè per lui e il suo amico
stupido, così mi resi
conto che per Enea lo avrei fatto volentieri, visto che gli piaceva
tanto.
Chissà se era sua moglie a prepararglielo ogni mattina...
probabilmente lui la
obbligava come faceva il mostro con me.
Enea non poteva
essere davvero gentile e diverso.
«Sei stanco
per via
del lavoro?» chiese poi, dopo aver sorseggiato rapidamente
dalla tazza.
«In un certo
senso»
bofonchiai.
«Eh, ragazzo
mio...
sei giovane, sei forte, e già sei stanco?» mi
punzecchiò, ma nel suo tono di
voce non c'era cattiveria né malizia. Sembrava
più preoccupazione.
Mi bloccai con la
bocca semiaperta, riflettendo su quella consapevolezza. Certamente mi
stavo
sbagliando, ero totalmente fuori strada.
«Eh...
purtroppo...
ora devo andare, scusi» mi congedai, affrettandomi a lasciare
il suo banco. Ero
troppo imbarazzato, e certamente non potevo raccontargli i problemi che
avevo
con l'orco. Non era il caso, neanche lo conoscevo!
Feci in modo di non
passare più di fronte alla sua bancarella per quel giorno,
mi concentrai su
altri acquisti e decisi di non pensarci per un po'.
Come se fosse stato
facile...
Era mattina e io
stavo cominciando a preparare il pranzo, quando il telefono
squillò. Avevo le
mani sporche e non potevo andare a rispondere, così lasciai
perdere e continuai
ad affettare il sedano per il sugo.
Poco dopo lo
squillo cessò, e poco dopo riprese. Era stranamente
insistente e fastidioso.
Sospirai e mi lavai le mani con uno sbuffo, mandando mentalmente al
diavolo
chiunque mi stesse interrompendo.
Sollevai la
cornetta e me la portai all'orecchio. Stavo per rispondere, quando una
voce fin
troppo familiare mi fece gelare il sangue nelle vene.
«Pezzo di
merda,
che cosa stavi aspettando? Eh? Allora... portaci un tè, un
caffè...» strillò
mio padre, utilizzando un tono lamentoso che pareva quasi una cantilena.
Mi venne da ridere
e piangere insieme. Avrei dovuto aspettarmelo: non aveva neanche la
decenza di
venire a casa per chiedermi qualcosa, ormai si affidava al servizio a
domicilio
completamente ideato da lui. E io, ovviamente, ero il fattorino
nonché cuoco
della sua deplorevole azienda.
«Ma...»
tentai di
protestare.
«Un cazzo!
Muoviti,
che io e i miei amici abbiamo bisogno di energie per lavorare! Visto
che tu non
fai niente dalla mattina alla sera, questo è il
minimo!» gridò, per poi buttare
giù il telefono e lasciarmi a bocca aperta.
Questo era
veramente il colmo! Volevo strapparmi i capelli e morire, non riuscivo
più a
sopportarlo. Mi trattava come uno schiavo in tutti i sensi, e inoltre
mi
umiliava di fronte a tutti, diffamandomi e spargendo in giro notizie
fasulle
sul mio conto. Se solo lui avesse lavorato la metà di quanto
facevo io, forse
si sarebbe reso conto di ciò che realmente facevo per lui,
nonostante non lo
meritasse affatto.
Sospirai e mi diedi
da fare per preparare le ordinazioni per lui e i suoi amici dinosauri.
Mi venne in mente
che la scena aveva un che di comico, così mi ripromisi di
raccontarla alle mie
amiche quando ci fossimo sentiti per telefono. Forse avrebbero riso e
avrebbero
alleggerito un poco il peso della mia frustrazione.
Certamente se Enea
avesse saputo che ero un debole, un perdente, una nullità,
avrebbe smesso di
badare a me e avrebbe cominciato ad approfittarsi di me come facevano
tutti. Mi
sentivo veramente male, avrei preferito morire piuttosto che recarmi
nel
capannone in cui l'orco e i suoi amici starnazzavano e non facevano
assolutamente niente di concreto e utile.
Appoggiai il cibo e
le bevande su un bancone in legno vicino all'ingresso e mi dileguai
prima che
potessero vedermi e parlarmi.
Se fossi stato
più
coraggioso, avrei pensato di togliermi la vita. Ma ero un vigliacco
anche da
quel punto di vista, dovevo farmene una ragione.
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