Quinlan aspettava quel momento da tutta la vita: quella sarebbe
stata la sua ultima, eterna, notte. Avrebbe finalmente sconfitto il
proprio padre, liberando il mondo dal giogo di quell’essere spietato.
Negli anni lo aveva affrontato sempre da solo, ma quella volta
sarebbe stato diverso. Aveva degli alleati lì con sé – esseri umani che
avrebbe quasi potuto considerare degli amici – e sapeva che, con il
piano che avevano messo in atto, il Padrone non avrebbe avuto scampo,
se tutti avessero fatto la loro parte.
Il suo più grande difetto era il non fidarsi di nessuno, nemmeno di
se stesso dopo i tanti errori che aveva commesso in quei duemila anni,
per tutte le volte che il padrone era fuggito prima che lui riuscisse a
dargli il colpo di grazia con la propria spada d’argento.
Voleva che il piano fosse perfetto, ed era inquieto al pensiero che
si stesse affidando a carne della propria carne per riuscirci, ma,
dopotutto, l’idea di aver passato secoli ad avere avuto l’aiuto degli
antichi – sangue del suo sangue – senza arrivare comunque al
successo, gli faceva presagire bene, per quella volta.
Si avvicinò al tavolo dove Gus stava controllando le armi e il
giovane messicano sorrise nel vederlo. Lui e Fet erano stati senz’altro
quelli che più di tutti lo avevano visto in azione (ed erano vivi per
raccontarlo), e il ragazzo si sentiva al sicuro con l’imponente figura
del Nato intorno.
«Dimmi, a che cosa dobbiamo il tuo rinnovato impegno per la causa?»,
gli domandò il Nato, non sapendo i particolari del suo ritrovo con
Setrakian e gli altri.
«A quello che mi ha detto il vecchio: mi ha fatto capire che, per
quanto lo vorresti, se sei coinvolto in qualcosa non scappi», rispose
l’altro, sincero.
«Deve avergli fatto piacere il tuo ritorno».
«Sì, ma non troppo. L’hanno trovato per colpa mia».
«Erano tanti anni che gli davano la caccia. Non pensarci troppo. C’è
chi ha molte più colpe di te». Le parole di Quinlan gli fecero venire
un brivido lungo la schiena. Era come se quegli occhi rossi potessero
essere in grado di sondargli l’anima.
«Tu non immagini cosa ho fatto», disse, con la mente a quei soldi
sporchi che aveva preso da Eichhorst. Se non lo avesse fatto lui, lo
avrebbe fatto qualcun altro, ma il patema che gli gravava sul cuore,
per essere stato però proprio lui ad aprire le danze, non lo avrebbe
mai abbandonato.
«Non voglio saperlo. La lista sarà lunga e tediosa», disse il Nato,
letale. «Ma una cosa la so: auto-flagellarti non ti rafforza. Ti
distrae e basta».
Gus aprì la bocca e chiamò il Nato con il nome che si portava
appresso da due millenni, seppur in parte modificato: «Quinlan?», ma
subito ci ripensò. Sapeva bene che il mezzovampiro si era lasciato
sfuggire il Padrone molte volte, ma era certo che sfogarsi proprio con
lui su ciò aveva fatto non sarebbe stata una buona idea, se voleva
sopravvivere ancora un po’. «Che farai dopo?», gli domandò, per
cambiare argomento.
Quinlan rimase a parlare ancora un po’ con l’umano, dopotutto gli
piaceva la sua compagnia. «Non ci sarà un dopo per me», rispose il
Nato. Il suo tono era incolore e monocorde, come se fosse un argomento
per lui estraneo.
«Cosa vuoi dire, amigo?»
chiese l’altro, smettendo di controllare le armi per dare piena
attenzione a ciò che gli voleva dire Quinlan.
«Quando morirà il Padrone, morirò anche io». Sempre quel tono, lento
e cadenzato. La morte non sembrava un argomento capace di smuoverlo.
«Come puoi dire una cosa del genere senza… senza…», Gus faticò a
trovare le parole adatte. Era molto difficile che il mezzovampiro
facesse trapelare le proprie emozioni, ma almeno per una cosa
irreparabile come quella si sarebbe aspettato un comportamento diverso.
Avrebbe voluto dire “senza battere ciglio”, ma ricordò che i vampiri
non lo facevano per natura. «... senza essere triste».
Quinlan avrebbe sospirato, se solo avesse potuto usare ancora i
polmoni. «Dopo duemila anni, anelo solo la morte, Augustin Elizalde».
«Perché dici questo?».
«Tutte le persone che ho conosciuto in vita mia sono morte, a parte
il Padrone, e dopo averlo eliminato avrò adempiuto il mio destino, ciò
per cui sono nato. Diventerò polvere e ad attendermi ci sarà una
gloriosa morte».
Gus fece roteare gli occhi. Quinlan aveva un grosso difetto, a parte
essere un mezzovampiro: era sempre taciturno, ma quando si metteva a
fare quei discorsi parlava troppo, e a Gus interessava più la pratica
della teoria. «Come puoi esserne così sicuro?», si informò a quel
punto.
«Io e il Padrone siamo legati, la sua morte mi ucciderebbe. È una
cosa che ho accettato nel momento stesso in cui ha ucciso le persone
care che mi stavano accanto».
«Questo non risponde alla mia domanda», gli fece notare l’altro con
un ghigno sul volto.
«Il Lumen», rispose quella volta, diretto e pratico.
L’Occido Lumen, il libro con la storia dei vampiri. Il vecchio del
negozio dei pegni aveva fatto di tutto per averlo e lo avevano protetto
fino a rischiare le loro vite.
«E se il Lumen sbagliasse?»
«Il Lumen non sbaglia». Gus aveva già sentito quella frase, proprio
da quel burbero vecchio che non avrebbe potuto partecipare a
quell’ultima battaglia.
«Ehi, non puoi saperlo», incalzò il ragazzo. «Io credo che tu non
debba andare a morire così». Quelle parole piene di umana pietà fecero
scaldare il cuore del Nato. Sembrava quasi che a quel ragazzo
importasse di lui.
Era bello avere quelle persone intorno: non aveva mai avuto degli
amici umani, ed era abbastanza certo che il padrone gli avrebbe portato
via anche loro. Era inutile e stupido affezionarsi, l’avrebbe dovuto
sapere, e invece… «Io sono l'unico che può affrontare il padrone: ho
perso tutto, non ho alcun legame qui. Quando si ha qualcuno di vivo da
difendere si è piú deboli, perché in cuor tuo vorrai sempre tornare da
lui in qualche modo».
«Anche io, allora, dovrei morire, solo perché non c’è più nessuno
qui ad aspettarmi?!», chiese Gus con la tempra focosa che lo
caratterizzava. Aveva perso tutti: la madre, il fratello (non che lo
rimpiangesse), il cugino Raul, gli amici, l’Ángel de Plata, Setrakian.
Tutti. Non gli era rimasto nessuno.
«E quella ragazza?», chiese Quinlan, ricordando che Augustine si
fosse legato a un’umana.
«Aanya?», chiese l’altro per conferma. «Lei… chissà se è ancora
viva… Forse potrei andare a cercarla, dopo tutto questo».
Quinlan increspò appena le labbra in quello che poteva essere
benissimo un sorriso di scherno. «Lo farai», disse, sicuro. Lo aveva
già visto nei secoli e glielo aveva dimostrato anche da poco Fet, ma,
soprattutto, glielo confermava il padrone con ogni strigoi: alla fine, per quanto
flebile fosse un legame, nemmeno la morte poteva reciderlo.
«Combatterai per lei, perché vuoi rivederla, e questo non ti farà
mettere il gioco fino alla fine».
«Oppure ho troppa paura di sapere se è morta, o peggio se è stata
cambiata dal Padrone», mormorò Gus. Era terribile sentire ogni morte
sulla propria coscienza, pesante come un mattone. Diede le spalle a
Quinlan, tornando a occuparsi delle armi. La verità era che voleva
espiare questo suo peccato prima di andare all’inferno, unico posto che
meritava; ecco perché avrebbe fatto di tutto per non morire prima che
il Padrone tornasse polvere alla polvere. «Il Lumen dice anche dove
andrai, una volta morto?». Quella domanda gli venne in mente come un
fulmine a ciel sereno.
«No, ma non è difficile da intuire».
Fantastico, se lo sarebbe ritrovato all’inferno!
Gus sorrise a quell’eventualità. «E non ti piacerebbe vivere la tua
vita, prima di bruciare in eterno tra le fiamme?».
«Ho sempre vissuto la mia vita», ribatté il mezzovampiro, toccato
nell’orgoglio.
«Una vera vita. Senza aver
paura di affezionarti a qualcuno perché sai che il Padrone farà di
tutto per portartelo via», aggiunse, per spiegarsi meglio.
Quinlan aveva provato più di una volta a fingersi quello che non era
– un umano completo – ed era andata sempre male. Il padrone aveva
provato a spezzarlo in ogni modo, dapprima per convincerlo a riunirsi a
lui, poi per il puro godimento nel farlo soffrire. «I secoli mi
hanno insegnato che non faccio parte del vostro mondo».
Gus sbatté sul tavolo di alluminio il corpo di una pistola,
sentendosi in collera per le parole del Nato. «Cosa c’entra?! Tu meriti
un po’ di pace, Quinlan! Tutti la meritano!». Il messicano si era
lasciato trascinare troppo nel discorso: molte delle persone che aveva
conosciuto non desideravano altro che la felicità o la pace, e non
credeva possibile che il mezzovampiro aspirasse solo a quella falsa
pace che gli avrebbe dato la vendetta – lui non era come Setrakian.
Ripensò a sua madre, ai tanti sacrifici che aveva fatto per portare
avanti la famiglia, a tutto il bene che voleva a lui e a Crispin.
Guadalupe avrebbe meritato più di tutti la pace, ed era morta prima di
riuscire ad averla – era per questo che Gus l’aveva tenuta con sé,
seppur trasformata: non poteva accettare che fosse finita per lei, non
senza che avesse potuto essere felice.
Cercò di calmarsi, Gus, e si rivolse ancora a Quinlan, senza
girarsi: «Se sei davvero rimasto solo al mondo, Quinlan, esattamente
come me, allora non morire in questa battaglia. Ci sarò io ad
aspettarti». Erano parole strane all’orecchio del Nato, sapevano di
quell’amicizia che mai aveva trovato, e anche di disperazione.
Il mezzovampiro non rispose, andando a vedere come procedevano i
preparativi degli altri.
L’Occido Lumen non poteva sbagliare, e nemmeno lui poteva
permetterselo.
Eppure, le parole del ragazzo messicano gli rimbombavano in testa
come un mantra.
È veramente orribile affezionarsi a
qualcuno, ci si affeziona anche a se stessi.
***
Quando Quinlan riprese i sensi, era sdraiato a terra, circondato dagli
umani con i quali aveva condiviso la battaglia che aveva avuto luogo
nei tunnel sotterranei. Mosse gli occhi rossi, notando che c’erano
degli assenti tra loro. Ma non importava. «Il Padrone?», chiese subito,
prima di rispondersi da solo. Se lui era lì, suo padre era ancora vivo.
«Lo sapevo che non avrebbe chiesto del doc. Fet, mi devi un
dollaro», ghignò Gus, divertito, mentre l’acchiappatopi gli mostrava il
dito medio in tutta risposta.
Oltre a loro due, c’era solo Dutch, fu lei a rispondergli: «Lo
abbiamo sconfitto», disse con occhi malinconici, nonostante il sorriso
disegnato sul volto. «È finita».
«È impossibile! Se io sono qu—». Quinlan parlò con voce grossa e
alta, alzandosi a sedere, ma venne interrotto da Fet.
«Il dottor Goodweather ha fatto esplodere la bomba nucleare: non ne
è rimasto più nulla», disse deciso.
Gus ridacchiò allo sguardo confuso del Nato. «Guarda là, amigo», gli disse, indicando
l’entrata poco lontano, dove alcuni strigoi
si muovevano lenti e senza senso: non c’era più nessun burattinaio a
comandarli.
Il Nato rimase a fissare i cambiati, notandone i movimenti pigri,
guidati dall’istinto; non erano più una mandria, ma un insieme di
scoordinati individui, senza nessuno a guidarne le azioni. Non c’erano
dubbi sulla morte del padre.
Senza staccare gli occhi da ciò che stava guardando, Quinlan si
toccò il corpo, come per assicurarsi che fosse vivo, e Fet gli mise una
grande mano sulla spalla. «È finita», ripeté, usando le stesse parole
della compagna.
«Non sappiamo cosa sia successo lì sotto, ma sei tornato su tramite
l’ascensore e crediamo che Eph ti abbia spinto lì per salvarti, ma né
lui né il figlio sono risaliti con te», spiegò Dutch, porgendogli una
mano per aiutarlo ad alzarsi. «È stato lui a sacrificarsi, per tutti
noi».
Una volta che fu in piedi, Gus gli cinse un braccio attorno alle
spalle come se abbracciasse un fratello, e quella fu l’ultima prova per
Quinlan che fosse veramente vivo. «In fondo, se non vivi per gustarti
la vendetta, a cosa serve?!», rise il messicano, facendo riferimento al
loro discorso avvenuto prima di mettere in moto il piano.
Quinlan replicò il gesto, senza rispondere all’amico.
Già, l’Occido Lumen si sbagliava. Il Nato era sopravvissuto, poteva
avere degli amici e cominciare a vivere davvero quei giorni che aveva
sempre sognato, senza più il Padrone.
Quella non sarebbe stata la sua ultima notte.