Indiana Jones - Quell’estate del ‘57

di IndianaJones25
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PROLOGO
«LE LORO IMPRONTE SONO SVANITE»

 
 
   Rovine di Akator, Foresta Amazzonica brasiliana, 1957

   Ci fu un ultimo lampo nel cielo, prima che le pietre che erano state sollevate nell’aria come se fossero state prive di peso ripiombassero al suolo. Al rombo del crollo si sovrappose quello delle acque del fiume che, con forza inaudita, ruppero gli argini e presero possesso della valle nascosta, sommergendo in questo modo per sempre ciò che restava di Akator, la mitica Eldorado che a lungo era stata sognata dai conquistadores e da schiere di esploratori e disperati e che, adesso, non sarebbe mai più stata ritrovata da nessuno. L’ultimo singulto di quella città leggendaria disparve per l’eternità sotto la corrente impetuosa, e impietosa, del Rio do Sono.
   Sbalordito da quello di cui era appena stato testimone, Indiana Jones rimase per un altro istante a contemplare quello sfacelo, prima che alle sua spalle si levasse la voce di Harold Oxley, una voce pacata e soddisfatta, di certo non rassegnata come si sarebbe potuto pensare. Eppure, Oxley aveva sognato a lungo di poter vedere da vicino e studiare Akator e adesso non ne avrebbe più avuto nessuna possibilità. Ma, forse, egli aveva già trovato tutto quello a cui aveva sempre aspirato e, adesso, non avrebbe avuto bisogno di niente altro.
   «Le loro impronte sono svanite.»
   Jones gli gettò solo un’occhiata, prima di continuare a guardare verso il punto dove, fino a pochi istanti prima, era sorta Akator. Ma non stava guardando esattamente lì, perché i suoi occhi erano adesso rivolti al cielo, dove avevano appena assistito al più incredibile dei fenomeni.
   «Dove saranno andati? Nello spazio?» domandò, non riuscendo più a trattenersi. A questo punto, si volse verso Oxley, quasi speranzoso che l’amico potesse offrirgli quella risposta di cui sentiva tanto il bisogno.
   Ed una risposta, in effetti, non tardò ad arrivare.
   «Non nello spazio» disse Oxley con aria enigmatica, guardando a sua volta verso il cielo. Sembrava un po’ più triste, adesso, ed il suo sguardo fu incredibilmente vecchio e saggio quando si abbassò ad incontrare quello di Indy. «Nello spazio fra gli spazi.»
   Rimasero qualche secondo in silenzio, ad osservare le acque brillare nel sole che calava, ormai prossimo al tramonto. Marion e Mutt si erano rialzati e, a loro volta, parevano ancor più pieni di domande di quando erano giunti lì. In ogni caso, adesso, erano finalmente stati sciolti dalla tensione e dalla paura che aveva avvolto i loro cuori fino a pochi minuti prima. La donna raggiunse Oxley e gli passò un braccio attorno alle spalle, lieta di aver finalmente ritrovato il vecchissimo amico che credeva ormai perduto per sempre, mentre il ragazzo si affiancò al padre, quel padre che non aveva mai saputo di avere e che aveva ritrovato a bordo di un camion sovietico nel bel mezzo della sterminata Amazzonia.
   «Io non capisco» borbottò, rompendo infine il mutismo che sembrava calato tra di loro. Guardò quel poco che ancora era visibile di Akator e ripensò a come l’avevano trovata al loro arrivo, soltanto poche ore prima, templi di pietra sbriciolata, già prossimi a cadere in rovina. «Perché la leggenda della città d’oro?»
   L’archeologo non seppe come, ma la sua risposta arrivò quasi contemporaneamente alla domanda, mentre ancora fissava, con gli occhi socchiusi per proteggerli dal sole sempre più basso, il lago che si era formato al posto di Akator, alimentato dalle acque del fiume che vi si riversavano dentro con delle fragorose cascate ovunque si volgesse lo sguardo.
   «La parola ugha per oro si traduce con tesoro.» Sorrise, nel prendere atto di quella consapevolezza nuova, anche se forse lo aveva sempre saputo. «Ma il loro tesoro era la conoscenza. Il sapere era il loro tesoro.»
   Alle loro spalle, Oxley annuì soddisfatto, mentre Mutt si voltò a guardare suo padre con occhi nuovi.
   A quel punto, i due archeologi, del tutto appagati di quanto appreso, e non più rattristati per la perdita fisica di quella mitica città, si misero a sedere sopra i resti del tempio e Jones si batté sopra una gamba guardando Marion con un sorriso. Lei rispose al sorriso e gli si accoccolò a fianco, chiudendo per un istante gli occhi e stringendolo in un abbraccio.
   Fu un abbraccio veloce, ma in quella stretta entrambi sentirono qualcosa, un calore che non avevano più avvertito da tantissimo - troppo - tempo. Sentimenti, emozioni, rabbia, litigi, passione, gelosie, sconforto e amore, un amore sconfinato che aveva resistito a molte più prove di quanto credessero, tutto ciò che avevano vissuto insieme si palesò in quel semplice abbraccio. Non sarebbe stato facile, avrebbero dovuto affrontare ancora parecchie prove, ma adesso che si erano infine ritrovati era come se già sapessero che non si sarebbero lasciati mai più, perché il fuoco che ardeva dentro i loro cuori non era mai riuscito a spegnersi, nonostante tutto, ed era anzi bastato un nuovo incontro per riattizzare quelle braci che ardevano in profondità e tramutarle in un falò alto e scoppiettante, che spandeva nuove scintille in tutte le direzioni.
   Mutt guardò i due uomini seduti e, soprattutto, guardò sua madre abbracciata al vecchio matusa. Va bene, lei gli aveva detto che quello era suo padre e lui era anche disposto ad accettarlo, perché, in fin dei conti, non era poi male, nelle risse ed in altre cose simili; ma che quei due mantenessero le distanze di sicurezza! Lei, in fondo, era sempre sua madre e non poteva certo abbracciare il primo venuto!
   «Ma che, restiamo seduti qui?» sbottò.
   Il vecchio lo guardò con quel suo ghigno che non si riusciva mai a capire davvero se fosse un sorriso sincero od uno sguardo canzonatorio, sempre con il braccio avvolto sulle spalle di Marion, che gli stava rannicchiata a fianco con un sorriso che Mutt non ricordava di averle mai visto, almeno non negli ultimi anni.
   «La notte scende in fretta nella giungla» gli spiegò. «Ti vuoi arrampicare sulla montagna al buio?»
   «Sì» rispose prontamente il ragazzo. Si voltò a guardare verso la scalinata che portava alla base del tempio. «Io ce la faccio. Chi viene con me?» Fece per avviarsi a passo deciso. «Andiamo.»
   Mosse due passi, sotto lo sguardo di tutti e tre, poi la voce del matusa lo costrinse a fermarsi.
   «Perché non rimani con noi, Junior?»
   Junior? Quel modo di rivolgersi a lui lo fece ridere. Si voltò all’indietro e chiese, con un sorrisetto: «Non lo so. Perché tu non sei rimasto, papà?»
   Jones e Marion sorrisero e sembrarono sul punto di scoppiare a ridere, probabilmente per non mettersi a piangere. Sapevano entrambi che, in quella domanda apparentemente semplice, era racchiusa una verità indiscutibile, ossia che, dopo tanto tempo trascorso a rinfacciare a suo padre di non aver mai pensato a lui e di essersi interessato solo a popoli morti da centinaia di anni, Indiana Jones si era comportato nello stesso identico modo, andandosene senza una scusa quando avrebbe potuto avere una famiglia con cui essere finalmente felice e sereno. Non che Marion Ravenwood fosse stata poi troppo diversa, in fondo, o non avesse commesso anche lei qualche errore, perché a guidarla nella sua ostinazione a non voler mai rivelare ad Indy di avere un figlio, almeno fino a quello stesso giorno, era stato il medesimo orgoglio che, per tutta la vita, aveva guidato le azioni di suo padre Abner, un orgoglio spesso dannoso e fuori luogo che lei aveva ereditato in pieno.
   Oxley, invece, non sapendo proprio nulla di tutta quella faccenda, dato che per lui il padre del ragazzo era sempre e solo stato Colin, si girò versò Mutt e disse, tra lo scettico ed il curioso: «Papà…» quindi, colto da un’improvvisa folgorazione, si voltò di scatto verso Jones e ripeté: «Papà?!»
   Il sorriso di Marion si fece dolcissimo ed Indy non seppe più trattenere una risata, mentre la stringeva a sé affettuosamente. Non ricordava di essere mai stato tanto contento e sollevato come adesso, pur seduti com’erano in cima ad un tempio in rovina, a miglia e miglia dal più vicino centro abitato. Sollevò gli occhi al cielo per un momento e commentò: «Da qualche parte, lassù, tuo nonno se la sta ridendo.»
   Ma non avrebbe saputo dire neppure lui con precisione quale nonno se la stesse effettivamente ghignando, in quello stesso istante. Sperò che lo stessero facendo tutti quanti e che, in fin dei conti, fossero felici per loro, esattamente come si sentivano loro stessi.
   Presto si sarebbero rimessi in cammino, ma per una volta Indiana Jones non se ne sarebbe tornato a casa a mani vuote, come gli succedeva di sovente quando si salvava per miracolo da una delle sue disastrose ricerche, bensì con un vecchio amico infine ritrovato e, soprattutto, con due preziosissimi tesori che non si sarebbe mai più lasciato sfuggire, qualsiasi cosa fossa accaduta.




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