Giungla 1
LA
GIUNGLA DENTRO
Capitolo 1
Il soldato MacFarland aprì gli
occhi e per qualche secondo rimase immobile in ascolto: si udiva un
rantolare lieve, irregolare, che a tratti si interrompeva e poi
riprendeva con un denso crepitio di bolle.
In preda a un'improvvisa
inquietudine si mise a sedere e fece girare lo sguardo
sull'infermeria, debolmente illuminata dalle luci che provenivano dal
piazzale. Trasalì nello scorgere una figura seduta proprio davanti
al suo letto, sulla panca che correva lungo il muro. Strinse gli
occhi perplesso. “Sam?” chiese infine.
“Proprio io,” fu la risposta.
MacFarland aggrottò le
sopracciglia. “Ma tu non eri morto a Quota 1338?”
La figura annuì, il rantolo si
accentuò. Osservando meglio, il soldato si accorse che aveva un buco
nel petto e metà faccia in meno. “Sam, tu sei morto,” ripeté,
questa volta con tono che non ammetteva repliche.
“Già.”
“E allora...” MacFarland
deglutì. “Allora non dovresti essere qui.” Assalito da
un'improvvisa sensazione di gelo, si fece indietro fino a toccare la
parete con la schiena.
Con un sinistro scrocchiare di
ossa, l'altro si alzò in piedi. Emise una risata gorgogliante e
replicò: “Perché? Non sei contento di rivedermi?” Mosse un
barcollante passo nella sua direzione.
Il soldato fece per balzare dal
letto, ma si trovò le gambe avviluppate dalla coperta, perse
l'equilibrio e cadde sul pavimento.
Quello che rimaneva di Sam
frattanto continuava ad avvicinarsi, lasciando a ogni passo impronte
sanguinolente sul lucido pavimento di linoleum.
“Sta' indietro!” ansimò
MacFarland angosciato, col cuore che gli batteva all'impazzata e il
fiato mozzo per l'orrore, “Non ti avvicinare!”
“Perché, amico? Non vuoi
rievocare i bei tempi di Dak To?”
Il soldato arretrò ancora. Ormai
Sam era a un passo da lui, ma per quanto provasse, non riusciva a
liberarsi della coperta che gli immobilizzava le gambe. “Vattene!”
gridò angosciato, “Va' via!”
Di nuovo la risata gorgogliante,
punteggiata di rantoli liquidi.
“Va' via, no! No!”
A un tratto, Sam non c'era più,
il pavimento era immacolato e a parte il suo ansimare convulso, nella
sala di degenza c'era silenzio.
Il soldato si terse il sudore che
gli imperlava la fronte e con fatica si alzò in piedi, poi gettò un
secondo sguardo tutt'intorno. “Un incubo,” mormorò alla fine.
Con gesti malfermi aprì il cassetto del comodino e ne trasse un
pacchetto di Lucky Strike, se ne infilò una tra le labbra e l'accese
con uno Zippo. Aspirò una lunga boccata di fumo, socchiudendo gli
occhi la trattenne nei polmoni per qualche secondo, quindi la esalò
adagio. “Un fottuto incubo del cazzo,” ripeté.
Di nuovo si guardò intorno, ma a
parte lui nella stanza non c'era nessuno. Diede un altro tiro alla
sigaretta, si avvicinò alla finestra e lasciò vagare lo sguardo
all’esterno.
Il cielo era ancora buio. L’aria
era calda, umida, carica di odori. Intorno a ogni luce si agitava un
brulichio di insetti. Un geco salì lungo la parete con un lieve
fruscio, fece saettare la lingua per catturare una zanzara e poi
scomparve in una fessura.
MacFarland diede un altro lungo
tiro alla sigaretta ed esalò lentamente il fumo.
Di notte la giungla non si
vedeva, ma ovunque se ne percepiva la presenza incombente, forse
addirittura con più intensità rispetto a quello che accadeva di
giorno: era come il lento, lungo respiro di una creatura
antichissima, di forza immane.
La sigaretta finì. Il soldato la
spense sfregandola contro la zanzariera metallica che chiudeva la
finestra, quindi la lasciò cadere sul pavimento.
Una sentinella attraversò
lentamente il piazzale. Per un po’ MacFarland la seguì con lo
sguardo, poi tese l’indice e il medio della destra a rappresentare
la canna di un’arma e anche con quelli seguì il suo lento
percorso. “Bang,” disse sottovoce. “Bang, bang, bang.”
Il soldato continuò a camminare
e scomparve ignaro, lui abbassò la mano e per un po’ rimase
immobile in preda a sentimenti contrastanti: da una parte disprezzava
quello stupido marmittone, così svagato e noncurante, ma dall’altra
lo invidiava. Doveva essere bello
poter attraversare uno spazio vuoto semplicemente percorrendone la
diagonale, senza strisciare di ombra in ombra lungo i bordi, senza
fermarsi ogni dieci passi per tendere l’orecchio.
Cercò di ricordarsi di quando
anche lui si comportava così, ma non ci riuscì. Abbandonò la
finestra, andò alla ricerca di un’altra sigaretta.
Si sedette sul letto e riprese a
fumare. Meccanicamente portava la sigaretta alla bocca, aspirava il
fumo, lo tratteneva per qualche secondo nei polmoni e poi lo lasciava
uscire.
Appeso alla parete c’era un
manifesto di propaganda che mostrava uno scenario di distruzione e
miseria: l’America dominata dal comunismo. Rimase a guardarlo per
un po’, ma in breve l’immagine trasfigurò in quella della
Collina 875: il linoleum diventò un terreno brullo e devastato dalle
esplosioni, i pochi mobili divennero sacchi di sabbia, trinceramenti,
ridotti. Si fece bruscamente da una parte quando vide un colpo di
mortaio esplodere a poca distanza da lui. Si buttò per terra, in un
attimo si infilò sotto il letto. Colpi di mortaio e raffiche di
mitragliatrice continuavano a rintronarlo, sentiva in bocca il sapore
della terra riarsa, misto a quello della polvere da sparo e del
sangue.
Una luce accecante lo fece
sussultare.
“MacFarland, la vuoi finire?”
disse una voce.
Il soldato sussultò di nuovo, di
colpo non c’erano più i sacchi di sabbia e le esplosioni. Era
tornato il linoleum lucido sul quale si riflettevano i neon accesi.
Due piedi calzati di Jungle Boots
neri entrarono nel suo campo visivo. “Mi senti, MacFarland?”
insisté la voce.
Il soldato fece un respiro
profondo e si passò una mano sulla fronte, di nuovo madida di
sudore. Uscì da sotto il letto e prima ancora di capire chi fosse il
suo interlocutore allungò la mano verso il cassetto del comodino,
dal quale estrasse lo Zippo e le Lucky Strike.
Si accese una sigaretta, quindi
buttò tutto sul letto. A quel punto si girò verso il nuovo
arrivato. “Rosales,” disse.
“Non fare tutto questo casino,”
gli raccomandò l’infermiere.
“Scusa.”
Senza rispondere, l’altro andò
a raccogliere una sedia che era finita contro la parete e la rimise
al suo posto.
“Sigaretta?” propose
MacFarland. Stava ancora cercando di liberarsi delle visioni, se
chiudeva gli occhi le scene di battaglia ricomparivano vivide come
film in technicolor, e magari farsi una fumata con qualcuno l’avrebbe
aiutato.
“Ok, grazie,” rispose
Rosales. Raccolse il pacchetto e si infilò una Lucky Strike in
bocca, quindi prese l’accendino e lesse ad alta voce la scritta che
vi era incisa sopra: “L’unica cosa che sento quando ammazzo è il
rinculo del fucile.” Fece scattare la fiamma oleosa, che oltre al
fumo nero spandeva intorno odore di benzina, la avvicinò alla punta
della sigaretta, aspirò fino a che essa non fu incandescente ed
esalando il fumo gli chiese: “È davvero così?”
“Magari,” rispose cupo
MacFarland.
L’infermiere si sedette sul
letto. “Hai fatto di nuovo quei sogni?”
L’altro annuì. Rivolse uno
sguardo torvo alla finestra.
“Che c’è?” chiese Rosales.
“Spegni la luce.”
“Non c’è niente là fuori.
Questo è solo un deposito di materiale, la zona è tranquilla.”
MacFarland aggrottò le
sopracciglia e ringhiò: “Spegni, ho detto!”
“Smettila, Jace. Lo vuoi capire
che non c’è niente?”
L’altro emise un sospiro e a
sua volta si lasciò cadere seduto sul materasso. Si puntò i gomiti
sulle ginocchia e si prese la testa fra le mani.
Sentì l’altro battergli una
mano sulla spalla e istintivamente si irrigidì. “Te li trovi
addosso quando meno te lo aspetti,” esordì poi. “Prima non c’è
un cazzo, e poi tutt’a un tratto la giungla ne è piena, ti
sparano, ti assalgono con le armi bianche, ce li hai tutti addosso e
non capisci più un cazzo, in mezzo al casino vedi solo delle sagome
e non capisci nemmeno se sono i tuoi o se sono quelle fottute scimmie
gialle...” Diede un altro tiro reggendo la sigaretta con mano
tremante, quindi ne estrasse un’altra dal pacchetto e l’accese
con la brace della precedente. Di nuovo aspirò una lunga boccata di
fumo. “E poi un attimo dopo non ci sono più,” concluse cupo.
“Niente, neanche un fottuto cadavere, come se non ci fosse mai
stato nessuno. E tu sei lì come un idiota, in mezzo a tutti i tuoi
compagni morti, e devi ancora capire che cazzo è successo.”
Diede un altro lungo tiro.
“Con quella merda ti asfalterai
i polmoni,” lo ammonì Rosales.
“Meglio i polmoni del
cervello.”
“Quello mi sa che te lo sei già
asfaltato.”
“Vaffanculo, cosa ne vuoi
sapere? Tu non hai mai visto altro che gli ospedali delle retrovie.
Dove c’è la merda vera tu non ci sei mai stato.”
L’infermiere si strinse nelle
spalle e piccato replicò: “La mia parte di merda l’ho vista
anch’io.”
“Quando vai al cesso, al
massimo.”
Detto questo, MacFarland si alzò
e si avvicinò alla finestra. Di nuovo lasciò vagare lo sguardo: un
piazzale pulito come quello di Camp Pendleton, hangar di lamiera
ondulata color olive
drab. Lampioni a
intervalli regolari, cartelli freschi di pittura che indicavano la
mensa, lo spaccio e il comando.
Aspirò ancora una volta dalla
sigaretta, e nell'emettere il fumo esalò anche un lungo sospiro.
Dopo la tensione precedente, i muscoli stavano ricominciando a
rilassarsi. Infastidito dal sudore che gli appiccicava al corpo la
maglietta, brontolò: “Ora ci vorrebbe un goccio.”
Alle sue spalle, Rosales replicò:
“Ci manca solo che ti attacchi alla bottiglia e poi siamo a posto.”
§
MacFarland si guardò intorno a
disagio, soppesandosi fra le mani il vassoio con il pasto. Strinse
gli occhi quando da uno dei tavoli provenne uno scoppio di risa
particolarmente intenso e tentennò resistendo alla voglia di girarsi
e uscire.
Si sistemò in un punto un po'
appartato e cominciò a mangiare. Anche senza guardare nessuno,
sentiva su di sé innumerevoli occhi: da una parte lo invidiavano
perché dormiva in infermeria invece che in camerata, dall'altra lo
temevano. Sapeva che erano state messe in giro voci su di lui: che
aveva ammazzato dei Viet a mani nude, che era stato torturato ed era
rimasto mezzo matto, che aveva ucciso un suo commilitone scambiandolo
per un Charlie.
Tutto era allo stesso tempo vero
e non vero: quello che non era successo direttamente a lui era
successo a gente della sua compagnia, ad amici, e in ultima analisi
faceva poca differenza.
Serrò gli occhi per scacciare
l'immagine di quando avevano ritrovato Bobby Carver dopo che per
tutta la notte l'avevano sentito urlare da ben due miglia di
distanza.
Ripensò a quello che Charlie
aveva lasciato loro perché capissero cosa gli aveva fatto.
In quel momento percepì un colpo
sulla spalla.
Fu il vociare concitato che lo
fece tornare in sé: aveva tutti intorno, mani robuste lo stavano
tenendo per le braccia. Istintivamente si divincolò e la presa sui
suoi arti si fece più salda. “Sta' calmo!” gridò qualcuno,
decisamente meno calmo di lui.
Sbatté gli occhi, fece girare lo
sguardo: c'era un tavolo rovesciato, cibo sul pavimento, sedie sparse
qua e là. Era cavalcioni su Rosales, che sdraiato sulla schiena lo
stava fissando con l'espressione atterrita.
“È tutto ok,” bofonchiò,
“potete lasciarmi, sono a posto.”
La stretta rimase invariata.
“Sono a posto,” ripeté
MacFarland.
Ci vollero un altro po' di
rassicurazioni, poi gli altri si rassegnarono ad abbandonare la
presa. Tutti si portarono comunque a rispettosa distanza, fissandolo
come avrebbero fatto con una bomba inesplosa.
“Sono a posto,” disse ancora
una volta il soldato. Trasse di tasca il pacchetto di sigarette e se
ne accese una. Si spostò all'aperto. Con la luce del giorno, la
giungla in un certo senso usciva dalla mente ed entrava nella realtà:
di notte la si immaginava, con la luce la si vedeva in tutta la sua
imponenza, in tutto il suo spaventoso, passivo potere: la giungla non
aveva bisogno di fare
cose per uccidere, le
bastava esistere, le bastava esserci.
Persino la base logistica in cui
l'avevano spedito – innumerevoli magazzini, il traffico di uno
scalo merci – con la luce del giorno diventava una misera zattera
persa in un oceano verde che da un momento all'altro avrebbe potuto
richiudersi su di essa e inghiottirla.
Aveva sentito dire che c'erano
intere città in rovina all'interno della giungla, templi
giganteschi, statue.
Finì la sigaretta, la buttò a
terra e la schiacciò sotto il tacco dello scarpone. Soprattutto
c'era Charlie, nella giungla.
Si accese un’altra Lucky
Strike, quindi si incamminò a passi lenti.
Assiepati sulla soglia della
mensa, i soldati della compagnia Bravo lo guardarono allontanarsi.
“Che figlio di puttana,”
commentò Minelli, un piccoletto di New York con la faccia da topo.
Accanto a lui Jackson, un nero
dell'Alabama grande e grosso, rispose: “Ah, lascia stare. A quello
gli si è fottuto il cervello a Dak To.”
“È stato a Dak To?”
intervenne un ragazzotto con gli occhiali che sembrava uno scolaro.
Il nero annuì. “Me l'ha detto
O'Malley, quello che sta in fureria. Se l'è fatta dal primo giorno
all'ultimo, poi l'hanno spedito a Khe Sanh, dove è rimasto ferito.
L'hanno evacuato a Saigon e lì si è beccato in pieno tutta la
fottuta offensiva del Têt. Ha dovuto praticamente scappare dal
tavolo operatorio e combattere con le ferite aperte, se ha voluto
salvarsi la pelle. Ci credo che è diventato mezzo matto.”
Si unì al gruppo anche Rosales,
ancora pallido dopo la recente esperienza.
Jackson si voltò a guardarlo.
“Tutto a posto, amico?”
L'infermiere si limitò ad
annuire. Si passò una mano sul collo, dove si vedevano ancora i
segni rossi lasciati dalle mani di MacFarland.
“Quello è fuori di testa,”
commentò Minelli. Poi, dopo una pausa: “Cosa gli fanno in
infermeria, lo tengono legato con la camicia di forza?”
“Secondo me gli danno della
roba per stenderlo,” disse un altro.
Rosales scosse la testa. “Di
solito è tranquillo. Ogni tanto lo trovo sotto il letto invece che
sopra, ma non fa casino.”
Si udì qualche risatina e subito
Jackson protestò: “Zitti, voialtri. Quello non si è mica passato
la guerra a caricare elicotteri come facciamo noi.”
Seduto su una cassa di munizioni,
la terza sigaretta penzoloni all'angolo della bocca, MacFarland
lasciava vagare lo sguardo sul muro verde che circondava la base.
C'erano alberi talmente alti che avrebbero potuto tranquillamente
fare ombra alla chiesa del suo paese, con tanto di campanile.
Cercò di visualizzare la chiesa,
ma si accorse di non riuscirci.
Come non riusciva a visualizzare
la faccia di sua madre, della sua fidanzata, di suo fratello. Vedeva
figure neutre, che esistevano formalmente, ma avevano perso ogni
connotato.
Oppure vedeva i morti.
L'ultima volta che era stato in
licenza, vedeva tutti morti, come li aveva visti a Quota 1338 o a Khe
Sanh, quando avevano dovuto pisciare sui mortai perché a forza di
sparare alle orde di Viet che si susseguivano una dopo l'altra, le
canne erano talmente surriscaldate che i colpi esplodevano prima di
venire sparati fuori.
A casa vedeva esattamente le
stesse cose. Due ragazze che prendevano il sole erano diventate due
corpi chiusi nei sacchi neri.
Gli elicotteri non riuscivano
ad atterrare per caricarli e i sacchi si accumulavano. Quando erano
finiti i sacchi avevano cominciato ad avvolgere i morti nei teli
mimetici e alla fine si accontentavano di coprire loro la faccia con
qualsiasi cosa capitasse sottomano.
Col vento quella roba volava
sempre via...
La sigaretta finì. Fece per
prenderne un'altra, ma il pacchetto era vuoto. Lo accartocciò e lo
lasciò cadere.
A quel punto gli parve di
cogliere un movimento al limite del campo visivo.
Il cuore accelerò i battiti, i
muscoli divennero tesi come corde. Si trovò a stringere i denti con
tale forza che dopo qualche secondo si sentì le mascelle
intorpidite.
Immobile, fece girare solo le
pupille.
Al margine della vegetazione
c'era una figura. Non era un americano: era esile e basso di statura,
portava una giacca e un paio di pantaloni scuri, sandali di fibra di
bambù e un cappello a cono. Aveva l'aspetto di un contadino.
Spostò lo sguardo sulla torretta
di guardia: il soldato che la occupava era girato proprio in quella
direzione, ma sembrava non stesse vedendo nulla di particolare.
Tornò a fissare il vietnamita,
lo vide scomparire dietro un albero. Rimase in attesa per un po', ma
esso non ricomparve.
Rilassò impercettibilmente la
postura ed emise il fiato che involontariamente aveva trattenuto.
“Un'altra cazzo di allucinazione?” si chiese a mezza voce.
Sollevò lo sguardo sulla
giungla, immobile e ammantata di una vaga foschia nella calura del
primo pomeriggio. Un improvviso stormire di fronde lo fece
sussultare. Meccanicamente allungò una mano come per afferrare un
invisibile M-16, ma quello che si levò dalla vegetazione era solo un
uccello.
“Fanculo,” ringhiò
MacFarland, col cuore che di nuovo gli galoppava nel petto. “Fanculo,
stronzo di un uccello del cazzo.”
§
Il sergente Langley fissò il
soldato sull’attenti di fronte a lui: altezza media, né magro né
particolarmente muscoloso, uniforme né troppo trasandata né
perfetta stile primo della classe. Uno che non si sarebbe guardato
una seconda volta.
Un grugno qualsiasi.
Eppure a quanto pareva tutti ne
avevano una paura fottuta. Si era bevuto il cervello sulle alture di
Dak To e ogni tanto si comportava in modo strano.
“Cosa c’è, soldato?” gli
chiese.
“Vietcong, sergente.”
Impersonale, neutro. A Langley parve che stesse dicendo: ‘Piccioni,
sergente,’ o qualcosa del genere.
“Vietcong?” ripeté il
sottufficiale.
“Sono due o tre giorni che li
vedo, girano qui intorno.”
Langley lo fissò poco convinto.
“Come fai a sapere che sono Vietcong, soldato?”
“Lo so.”
“E… dove li avresti visti,
questi Vietcong?”
MacFarland sembrò non accorgersi
neppure del tono vagamente ironico che il sottufficiale aveva
adottato. “Girano tutt’intorno alla base,” rispose, “alle
volte li ho visti anche dentro. Appaiono e scompaiono in un attimo.”
Il sergente aggrottò le
sopracciglia: quello era lo stesso soldato che ogni notte si
rintanava sotto il letto per sfuggire a immaginari colpi di mortaio.
Adesso vedeva Vietcong intermittenti, che apparivano e scomparivano.
“Anche qui nella base, hai detto?”
Di nuovo, MacFarland non parve
per nulla turbato dal tono scettico della domanda. “Sì, sergente.
Qui nella base.”
“Puoi descrivermeli?”
“Piccoli, magri, vestiti da
contadini, con il nón
lá in testa. Li ho
visti in giro.”
Il sottufficiale corrugò la
fronte. “Nessun altro a parte te li ha visti?”
“Non lo so, sergente.”
“Ne hai parlato con qualcun
altro?”
“Affermativo, ma non mi hanno
dato ascolto.”
Langley annuì grave. La faccenda
era chiara: probabilmente quel tizio ormai vedeva i Vietcong anche al
cesso. Cercando di suonare convincente, gli rispose: “Questa è una
zona tranquilla, ma farò fare comunque dei controlli. Ora puoi
andare, soldato.”
MacFarland non si mosse. “Io ho
detto la verità, sergente.”
Il sottufficiale indurì lo
sguardo. “Ti ho detto che puoi andare, soldato.”
“Attaccheranno,” rispose
l’altro con voce incolore, fissando un punto imprecisato alle sue
spalle.
“Saremo pronti a riceverli.”
“Ne dubito.”
MacFarland si allontanò con una
curiosa sensazione di indifferenza. Probabilmente Langley non aveva
creduto a una sola parola, ma del resto non poteva nemmeno dargli
tutti i torti: lui stesso non era ancora del tutto certo di aver
visto quei Charlie veramente.
Forse se li era solo immaginati.
L’ultimo l’aveva colto
praticamente solo con la visione periferica: un’ombra velocissima,
che non aveva prodotto alcun rumore. Solo dopo, riflettendoci su, era
riuscito a ricostruire che si era trattato di una forma umana.
Una cosa lo aveva colpito,
facendolo dubitare che fossero allucinazioni: nessuno dei tizi che
vedeva era ferito, a nessuno mancavano arti. Nessuno si lasciava
dietro scie di sangue.
Pensò che in fin dei conti non
gliene fregava niente. Che ci credessero o no, cazzi loro. Lui aveva
già abbandonato da tempo l’idea di tornarsene a casa.
Casa
era diventato un termine astratto, qualcosa come Paradiso o Inferno.
Un posto dove la gente vestiva colorato e aveva preoccupazioni
stupide.
§
La prima esplosione colse
MacFarland nel bel mezzo di un incubo, ma il soldato non ebbe alcun
dubbio che il rumore non provenisse dal suo mondo onirico. Saltò dal
letto mentre un secondo scoppio faceva tremare vetri e pavimento e si
infilò in tutta fretta l’uniforme e gli anfibi.
Subito dopo le luci si accesero e
Rosales entrò di corsa chiedendo: “Che succede?”
In uno stato di surreale calma,
MacFarland gli rispose: “Ci attaccano.”
“Cosa? Chi ci sta attaccando?
Dove?”
Per tutta risposta, il soldato lo
afferrò per un braccio e lo costrinse a buttarsi a terra, giusto un
attimo prima che una raffica di AK-47 mandasse in frantumi tutti i
vetri spargendo schegge ovunque.
Fuori echeggiarono altre due
violente detonazioni. “Granate a frammentazione,” disse
MacFarland.
Uscirono.
Le luci del piazzale erano quasi
tutte spente, ma l’ambiente era illuminato dai lampi gialli e rossi
delle esplosioni. Raffiche di traccianti di un bianco vivido
tagliavano il buio come colpi di artiglio.
Sagome nere formicolavano
ovunque, l’aria era piena di urla e richiami, vibrava del detonare
sordo delle esplosioni.
MacFarland udiva ovunque
l’abbaiare secco dell’AK-47 e le raffiche nervose dell’M-16,
poi subentrò la voce dell’M-60, più bassa e cupa, con la cadenza
regolare dei nastri da duecento colpi.
Udì un lamento, qualcuno gli
cadde addosso, un’esplosione lo costrinse a strisciare al coperto.
Vide uno degli elicotteri parcheggiati sul piazzale dissolversi in
una vampata color arancio carico, che sfumò nel viola e poi nel
grigio cupo dissolvendosi. Un magazzino di lamiera si aprì in due
come sotto l’effetto di un gigantesco maglio, mentre dal tetto
fuoriuscivano fiamme che avevano il biancore sinistro del fosforo.
Nell’aria passarono altre
raffiche di traccianti, ovunque stava calando un fumo sempre più
denso.
MacFarland strappò un M-16 da un
paio di mani irrigidite, mirò a una sagoma nera che gli stava
correndo incontro, sparò tre colpi, la sagoma sussultò e cadde a
terra. Il soldato passò oltre, sparò ancora una breve raffica, un
altro si accasciò al suolo.
Qualcuno accanto a lui emise un
urlo gorgogliante, gli parve di sentire qualcosa come “Gesù,”
poi non capì se quella che seguiva era un’imprecazione o una
preghiera.
Si mise in copertura contro una
parete, si guardò intorno cercando di identificare qualcosa come un
comando a cui fare riferimento, ma la battaglia era il caos più
completo. Chi aveva avuto la fortuna o la presenza di spirito di
mettere le mani su un’arma vuotava caricatori perlopiù senza
nemmeno capire a cosa stava sparando mentre i Vietcong – perché
quelli erano
Vietcong – ammazzavano i soldati l’uno dopo l’altro come pecore
al macello.
Corse all’armeria: i Charlie
erano arrivati prima di lui e stavano portando via casse di
materiale. Qualcuno si accorse della sua presenza, spedì una raffica
nella sua direzione. MacFarland si buttò in una zona d’ombra,
strisciò di nuovo fino al piazzale e individuò una postazione
allestita in tutta fretta con sacchi di sabbia recuperati un po’
ovunque.
“Da dove cazzo sono usciti?”
sentì urlare. “Sono dappertutto!”
Un’altra esplosione fece
tremare il terreno. Vampe di fuoco aranciato mostrarono per un attimo
esili sagome nere e curve che correvano ovunque.
“Cazzo, sono dappertutto!”
ripeté la voce di prima.
MacFarland raccolse un
lanciagranate M-79, corse di nuovo all’armeria. File di Charlie
stavano portando fuori le casse degli M-72 anticarro.
Infilò la granata nella camera
di lancio, portò la canna in posizione e spedì il colpo
precisamente all’entrata del deposito.
Si buttò a terra prono,
appoggiato solo tramite gomiti, ginocchia e punta dei piedi, con la
bocca spalancata e le dita a proteggere gli occhi e le orecchie.
L’esplosione che seguì fece
uscire dal tetto della santabarbara una colonna di fuoco bianco e
giallo che salì nel buio del cielo tropicale per almeno trenta
piedi. Tutta la zona fu illuminata a giorno. I Charlie che erano lì
intorno furono vaporizzati all’istante, gli alberi secolari che
circondavano la costruzione furono spazzati via come fuscelli.
Rintronato, accecato, con le
orecchie che fischiavano e il sapore ferroso del sangue in bocca,
indolenzito ovunque, MacFarland si alzò adagio e colse d’istinto,
più che vedere chiaramente, un muso giallo che gli stava correndo
incontro con il Kalashnikov poggiato sull’anca.
Il Charlie lasciò partire due
brevi raffiche, sempre d’istinto il soldato si buttò al coperto,
brandì l’M-79 ormai scarico come una specie di clava e glielo
abbatté tra testa e collo. Non riusciva ancora a sentire i rumori,
ma percepì comunque la vibrazione di qualcosa che si fratturava. Il
suo avversario crollò al suolo come un sacco vuoto.
Il soldato abbandonò anche
quell’arma e tornò al piazzale. La postazione che aveva visto
allestire coi sacchi di sabbia era stata spazzata via; alla luce
degli incendi che ormai divampavano ovunque, si vedevano solo corpi
contorti e crateri di esplosioni. L’infermeria non esisteva più,
al suo posto c’era qualcosa che sembrava un mucchio di legname
mezzo bruciato.
Granate, raffiche di mitra e urla
creavano una cacofonia assordante, nella quale MacFarland non
riusciva a sentire nemmeno il suono dei colpi che lui stesso stava
sparando. Le luci elettriche erano da tempo spente, forse era stato
addirittura distrutto il generatore principale, e l’unica
illuminazione proveniva dai lampi ignei delle esplosioni, che davano
vita a uno scenario infernale.
Qualcosa scoppiò a breve
distanza, lo spostamento d’aria lo sbatté per terra. Egli si
rialzò barcollante, solo per vedere un altro magazzino scomparire in
uno spaventoso oceano di fiamme. Bidoni di carburante saltarono in
aria uno dopo l’altro, lasciandosi dietro lunghe scie di fuoco. Uno
di essi atterrò in mezzo a un gruppo di Charlie spargendo intorno
benzina incendiata: gli uomini vennero inghiottiti dalle fiamme e si
consumarono rapidi come sagome di carta.
MacFarland corse via senza sapere
bene che fare: non c’era un fronte, nessuno stava organizzando una
linea di difesa da qualche parte.
Qualcosa lo colpì alla schiena,
facendolo crollare in avanti. Cercò di rialzarsi, ma si accorse di
non esserne in grado: di attimo in attimo si sentiva più stanco e
una curiosa sensazione di indifferenza lo stava pervadendo. Pensò
che in fondo non gli importava gran che di morire. Anzi, quasi gli
parve una liberazione.
Chiuse gli occhi.
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