AVVISO
Inclito
lettore,
mi
sento un po’ stupido a fare questa premessa, ma visti i tempi che
corrono, temo che non me ne potrò esimere.
La
storia che stai per leggere è narrata dal punto di vista di
combattenti tedeschi della seconda guerra mondiale.
Per
quanto senza dubbio non sia mancato chi più o meno segretamente non
apprezzava il Nazionalsocialismo, puoi immaginare che questa non
fosse la norma.
La
gente perlopiù era convinta di quelle idee e cercava quotidianamente
di metterle in pratica, esattamente come oggi si mettono in pratica
quelle che attualmente sono considerate le idee giuste.
I
protagonisti di questa storia reputano il Nazionalsocialismo
un’ideologia egosintonica e mio obiettivo in quanto autore è
quello di rappresentare i personaggi così com’erano e non spurgati
o edulcorati da una correttezza politica che obbliga a proclami
ideologici ogni tre righe.
Con
ciò ritengo di averti avvisato: se vuoi dare un’occhiata ne sarò
molto contento, ma se il mio modo di parlare di certi argomenti ti
disturba, fa’ una bella cosa: non leggere e saremo più felici in
due.
O
VIANDANTE, ANNUNCIA AGLI SPARTANI…
La
guerra volge alla fine, le potenze nemiche hanno trascinato l’umanità
nella follia.
L’aria
è fredda. È già buio, anche se è solo tardo pomeriggio.
Piove,
tanto per cambiare. Uno scrosciare monotono da opificio, acqua che
scorre sulle cose e le rende lucide al chiarore dei fari, poi sgronda
e si raccoglie in pozzanghere sul suolo già fradicio.
Un Opel
Blitz arriva traballando sulla strada sterrata, si ferma al margine
della pista mantenendo il motore acceso.
Il
caporale Klein osserva attento i militari che ne scendono, scorre
volti e uniformi. Alla fine individua un paio di mostrine gialle con
due gabbiani e sul viso gli compare un’espressione soddisfatta.
Raggiunge
il nuovo arrivato, si mette sull’attenti, saluta. “Signor
tenente, caporale Klein a rapporto!” annuncia con voce marziale.
Il
tenente è praticamente un ragazzo. Alto per essere un pilota,
pallido, dall’espressione seria. Occhi blu come porcellana. Saluta
a sua volta e si presenta: “Tenente Friedrich Lützow.”
“Piacere
di conoscerla, signore,” risponde il caporale, “ha fatto buon
viaggio?”
“Tutto
sommato, sì.”
‘Tutto
sommato’
significa ‘nonostante
i partigiani, le strade impraticabili, i posti di blocco e gli
attacchi aerei nemici.’
Detto
questo, il tenente gli rivolge uno sguardo vagamente interrogativo.
“Il
comandante la vuole vedere, signore,” spiega il caporale, “mi
segua, prego.” E si incammina verso un edificio dalle finestre
oscurate.
Strada
facendo, Klein si mette a parlare. “Le baracche che vede sono per
le munizioni e gli approvvigionamenti, signore. I piloti alloggiano
nella palazzina. Qui abbiamo una situazione relativamente tranquilla,
capita solo ogni due o tre notti che si debba scendere nei rifugi.
Sono là in fondo, a proposito.” Indica con la mano una vaga sagoma
chiara nel buio.
Il
tenente rimane in silenzio, forse è un tipo taciturno, o forse è
solo troppo stanco per rispondere.
“Ho
dato ordine di portare dentro i suoi effetti personali,” prosegue
Klein continuando a camminare di buon passo. “Ora la accompagno dal
signor maggiore, vuole sempre conoscere personalmente tutti i nuovi
arrivati.”
Il
maggiore Hirschmann è seduto alla scrivania nella stanza che gli
funge da ufficio. Non arriva a trent’anni, ma la sua espressione
sicura è quella di un uomo abituato alle responsabilità.
Si
cresce in fretta in guerra.
Osserva
attento il giovane subalterno, ascolta la sua presentazione.
“Esperienze di combattimento?” chiede dopo una breve pausa
meditativa.
“Otto
mesi con il Terzo Stormo, signore”
“Ha
esperienza con il Messerschmitt 109?”
“Pilotavo
un Me 109 F.”
“Molto
bene.” Hirschmann annuisce pensoso, il suo sguardo d’acciaio non
abbandona il tenente. Dal suo giudizio dipendono tante cose: con chi
volerà Lützow, che aereo piloterà, a quali missioni sarà
assegnato.
Se
sbaglia, rischia di far morire inutilmente il tenente Lützow o il
pilota che volerà con lui.
Gli fa
ancora alcune domande, le cui risposte sembrano soddisfarlo.
“Ho
quel che fa per lei,” dice infine.
Il
tenente si limita ad annuire, quindi rimane a fissarlo attento.
Alzandosi
dalla scrivania, il maggiore spiega: “Il gregario del tenente von
Kleist è caduto in combattimento due giorni fa. Ora lui è solo,
quindi lei diventerà il suo gregario.”
Detto
questo precede il nuovo arrivato in un salone e si dirige verso un
gruppetto di piloti. “Von Kleist!” chiama.
Lützow
osserva i colleghi con aspettativa, chiedendosi chi risponderà al
richiamo.
Quello
che si alza in piedi è un giovane falco spavaldo. Altezza media,
fisico asciutto da spadaccino, spalle dritte e portamento marziale.
Ha i capelli biondissimi e il viso da ragazzino. Gli occhi, di un
azzurro straordinariamente intenso, sembrano al tempo stesso ardenti
e gelidi. Fissa il maggiore Hirschmann in una muta richiesta di
spiegazioni.
“Questo
è il tenente Lützow,” dice il maggiore, “volerà con lei come
gregario.”
Von
Kleist si avvicina. Ha un’espressione attenta, concentrata. Sembra
che da quella prima occhiata dipenda l’idea che si farà di lui.
Un
attimo dopo gli rivolge un sorriso radioso. “Tenente Siegfried von
Kleist,” si presenta. Tende con risolutezza la mano.
Lützow
lo fissa a sua volta, sentendosi stranamente turbato. Lo smarrimento
non dura che un attimo, poi anche lui declina le proprie generalità.
Stringe la mano al giovane falco.
Il
maggiore se ne va. “Così avrete modo di fare conoscenza,” dice,
e scompare nel suo ufficio.
I due
rimangono a guardarsi in silenzio.
“Chiamami
Siegfried,” propone allora il tenente von Kleist.
Lützow
ha un moto di sorpresa. “Siegfried?”
“È
il mio nome.”
“Sì,
ma...” comincia il nuovo arrivato. Vorrebbe dire che si sono appena
conosciuti, che il regolamento dà indicazioni diverse per quanto
riguarda i rapporti tra ufficiali, che tanta familiarità gli sembra
fuori luogo, poi incontra lo sguardo carico d’aspettativa del
collega e quasi si perde in occhi di cielo che non conoscono il
dubbio. “Io sono Friedrich,” capitola. Tende di nuovo la mano,
perché quella in effetti è una seconda presentazione, più intima
ed esclusiva.
“Friedrich,
molto bene,” risponde von Kleist stringendogliela con entusiasmo.
“Hai già fatto voli di guerra, vero?”
“Sì.”
Siegfried
sorride quasi con complicità, come se i voli di guerra garantissero
l’accesso a una specie di confraternita. “Cosa pilotavi?” gli
chiede subito dopo.
“Messerschmitt
109 F.”
Gli
occhi di von Kleist si illuminano. “Un aereo meraviglioso!”
esclama, “Veloce, potente, risponde magnificamente ai comandi. Se
le valchirie decidessero di modernizzarsi, quelli sarebbero i loro
mezzi.”
Friedrich
sorride. “Dici?”
“Assolutamente.
E se il buon vecchio Wagner fosse ancora fra noi mi darebbe ragione,”
risponde l’altro con sicurezza. Poi, cambiando bruscamente
discorso, chiede: “Ti hanno già fatto vedere il tuo alloggio?”
“Veramente
no,” risponde incerto Lützow. Si aspettava una discussione sugli
aerei e quel subitaneo guizzo l’ha colto un po’ alla sprovvista.
Come tutto quello che concerne il tenente von Kleist, del resto.
“Allora
vieni con me. Se aspetti che ti accompagni Klein…”
Con un
movimento agile Siegfried lo precede verso una scala che si perde
nell’oscurità di un piano superiore. “Di sopra non c’è la
luce,” spiega prendendo una candela da una mensola.
Un
attimo dopo i due sono soli in un silenzio buio e raccolto. Gli unici
rumori sono i passi e il frusciare delle uniformi, di tanto in tanto
un respiro lieve.
Il
crepitio del fiammifero che accende la candela è come lo sfrigolare
di acciaio incandescente. La tenue luce dorata rende Siegfried una
statua crisoelefantina, con occhi di zaffiro purissimo.
“I
piloti dormono tutti qui?” chiede Friedrich. Una domanda qualsiasi,
nel tentativo di ignorare il brivido che a quella vista gli ha
percorso la spina dorsale.
“Sì,
certo. Ci sono molte stanze.”
Von
Kleist si incammina risoluto per il corridoio, Lützow lo segue un
po' a distanza, come se volesse tenersi al di fuori di un’aura che
percepisce potentissima e per tanti aspetti pericolosa.
Arrivano
a una camera, il primo fa qualche passo all'interno e solleva la
candela per illuminare meglio l'ambiente. Ci sono due letti.
“Io
dormo qui. A te hanno assegnato l'altro.”
Friedrich
si avvicina titubante. Qualcuno ha già portato su i suoi bagagli.
Per un istante si sente in trappola, prova la vertigine dell'attimo
senza peso prima che l'aereo si rovesci precipitando in vite.
Stabilisce
di essere stanco per il viaggio, e che quello è il motivo dello
strano turbamento che si sta impadronendo di lui.
Prende
la valigia, la apre. La prima cosa che ne esce è un quaderno dalla
copertina nera, seguito da un libro. Heinrich von Ofterdingen, di
Novalis.
Siegfried
si fa avanti incuriosito. “Ti piace leggere, vedo,” gli dice a
bassa voce guardando da sopra la sua spalla. Forse è quella penombra
intima che invita ad un tono di voce così sommesso. Il suo respiro
caldo gli sfiora la nuca.
“Sì...
è il mio passatempo.” Di nuovo quel brivido, e il cuore che salta
un battito.
Il
libro gli scivola di mano. Siegfried si china a raccoglierlo, glielo
porge con un sorriso. I due si fissano negli occhi per un istante.
Turbato, Friedrich si ritrae appena.
L'altro
abbassa lo sguardo. “Scusa, io...” comincia, per poi
interrompersi subito dopo. Appoggia il libro sul letto e fa un passo
indietro.
“Forse
è meglio che torniamo giù,” mormora Friedrich. E poi, per
giustificare in qualche modo ciò che ha appena detto, aggiunge.
“Fa... fa piuttosto freddo qui.”
“Già,
scusa,” risponde l'altro, il tono è quasi di sollievo. “Ora
torniamo giù.”
Il
turbamento che ha invaso Friedrich, però, non scompare con la luce e
il calore. Rimane come una sorda sensazione di disagio, che lo rende
inquieto come accade di solito nell'imminenza di un combattimento
aereo.
Vorrebbe
proporre di unirsi agli altri, che stanno ancora conversando
tranquillamente in gruppetti di tre o quattro, ma al tempo stesso ha
l'impressione che tra lui e quel Siegfried si sia instaurato uno
strano legame esclusivo, che non ha nulla a che vedere col rapporto
che lo ha sempre legato ai colleghi.
È una
sensazione sconosciuta, che gli fa paura e lo affascina al tempo
stesso.
Si
siedono su un paio di poltroncine, Siegfried raccoglie una rivista,
cincischia un po’ con le pagine, la lascia ricadere. Si guarda
intorno ed emette un sospiro che ha il tono del disagio. “Andiamo
al bistrot?” propone.
Lützow
sgrana gli occhi. “Al bistrot? Ma abbiamo il permesso di farlo?”
Siegfried
lascia passare qualche secondo, poi risponde: “No. Non abbiamo il
permesso.” Gli rivolge un sorriso spavaldo.
Essendo
appena arrivato alla base, Lützow è imbarazzato. Sarà opportuno
seguire quel falchetto temerario?
Ovviamente
no, gli direbbero la ragione e il buon senso. Ma von Kleist lo sta
fissando come se fosse assolutamente certo del suo appoggio e gli sta
sorridendo con la complicità che riserverebbe a un vecchio amico. Si
conoscono da meno di un'ora, ma Friedrich ha la sensazione di
conoscerlo da sempre.
“Nel
parcheggio c’è una macchina a disposizione degli ufficiali,” gli
dice Siegfried cogliendo al volo l’attimo di esitazione, “se
facciamo le cose per bene non se ne accorgerà nessuno.”
Un
attimo dopo la vettura sta fendendo l’oscurità diretta verso il
paese.
“So
come evitare le strade pericolose,” dice Siegfried con sicurezza, e
Friedrich si accorge che persino i partigiani non sono per il
compagno altro che una sfida esaltante. “Non hai paura?” gli
chiede.
Senza
distogliere gli occhi dalla strada, von Kleist risponde: “Chi ha
paura muore un po’ tutti i giorni. Io intendo morire una volta
sola, possibilmente in grande stile.” Dà gas e la macchina balza
in avanti nelle tenebre.
Lützow
rimane in silenzio. In un certo senso quel ragazzo lo spaventa. È
puro, intatto, affilato come una lama. “Vorrei vederti volare,”
mormora. Pensa di averlo detto fra sé e sé, ma l’altro
prontamente gli risponde: “Domani voleremo insieme.”
E
poiché Friedrich non replica, sorridendo aggiunge: “Sono sicuro
che saremo perfetti. Io sento che siamo nati per stare insieme.”
Friedrich
si trova a deglutire turbato. “In che senso?” chiede a disagio.
Poi offre: “Intendi come capopattuglia e gregario?”
Siegfried
si limita a ridere, noncurante adamantina creatura. “Ma certo,
proprio quello che volevo dire!” esclama divertito.
Il
bistrot è un posto squallido, in cui pochi torvi avventori rivolgono
ai due boche occhiate velenose.
Ma
Siegfried è come luce pura di diamante e il livore che promana dalla
sordida mescita non scalfisce minimamente il suo entusiasmo.
Ordina
due birre in un francese lievemente appesantito dall’accento e si
dirige a un tavolo invitando il collega a seguirlo.
“Parlami
di te,” dice non appena sono seduti faccia a faccia. Lo fissa
socchiudendo gli occhi, con i gomiti appoggiati sul tavolo e il viso
fra le mani.
Friedrich
esita. Sono risposte, quelle che vorrebbe. Perché sono in quel
bistrot per esempio, a guardarsi negli occhi attraverso un tavolino
traballante, a chiamarsi per nome come vecchi amici pur non sapendo
nulla l’uno dell’altro.
“Io
sto vicino a Potsdam,” comincia Siegfried, interrompendo il filo
dei suoi pensieri, “e tu?”
“Berlino,”
borbotta Lützow, ancora non del tutto libero dal disagio.
“Berlino
è grande,” obietta l’altro.
“Vuoi
sapere in che via abito?”
Von
Kleist sorride. “Voglio sapere tutto di te.”
“Ma…
per quale motivo?” sbotta Lützow, senza riuscire a evitare una
punta di durezza nella voce.
Siegfried
assume l’espressione costernata di chi si aspettava una carezza e
invece ha ricevuto uno schiaffo. Abbassa lo sguardo sulla birra che
l’oste gli ha controvoglia servito e risponde: “Voleremo insieme,
il che vuol dire che rischieremo la vita insieme. Mi piaceva l’idea
di diventare amici.”
Friedrich
deglutisce e si deve impedire di spingere la mano a coprire la sua.
“Hirschmann mi ha raccontato che hai perso il tuo gregario,” gli
dice. Tiene la voce basa, come per una specie di pudore.
“Hans
si è buttato in mezzo ai P-51,” mormora von Kleist senza alzare lo
sguardo. “Se li è tirati addosso per difendermi.”
Lützow
china a sua volta la testa. “Mi dispiace.”
L’altro
rialza la propria con uno scatto risoluto, un lampo metallico gli
indurisce per un attimo lo sguardo. “È morto da eroe,” replica
asciutto.
“Scusami,”
dice Friedrich dopo un po’, di nuovo resistendo alla tentazione di
spingere la mano verso la sua.
“Scusami
tu. Forse sono stato troppo precipitoso.”
Friedrich
non risponde. Sta provando di nuovo la sensazione al tempo stesso
esaltante e spaventosa dell’istante senza peso che precede
l’entrata in vite. “Sto a Moabit,” si decide a dire infine,
“mio padre fa l’operaio. Ho un fratello minore che è ancora
nella Hitlerjugend e uno più grande che è nelle Waffen-SS.”
Siegrfied
stringe appena gli occhi, come se ognuna di quelle notizie gli
procurasse un enorme piacere. “E tu come mai non sei nelle
Waffen-SS?” gli chiede.
Friedrich
sorride. “Per lo stesso motivo per cui anche tu sei nella
Luftwaffe, credo.”
“Davvero?
Quale pensi che sia?”
“Un
pilota non può parlare delle meraviglie del cielo nemmeno all’essere
più amato.”
Siegfried
sorride a sua volta. “Ma a un altro pilota sì,” risponde
fissandolo negli occhi.
Parlano
a lungo, incuranti dei francesi che li guatano rancorosi come
potrebbero esserlo della terra quando sono in volo.
Ma
l’ora si fa tarda, devono rientrare. La macchina divora la strada a
malapena illuminata dai fari oscurati.
Finalmente
compare la base, un insieme di sagome scure che si intuisce contro un
cielo nero e opaco. La sentinella all’entrata si china appena per
scrutare chi è alla guida, poi salutando annuncia: “Signore, il
maggiore Hirschmann vorrebbe vedere lei e il tenente Lützow nel suo
ufficio immediatamente.”
“Certo,
grazie,” risponde von Kleist impassibile. Poi a bassa voce,
proseguendo verso il parcheggio: “Maledizione.”
“Problemi?”
s’informa Friedrich.
“Altroché,”
risponde l’altro, ma nella voce si coglie già di nuovo la consueta
nota di spavalderia. “Hirschmann mi aveva ordinato di smettere con
le gite al bistrot.”
“Allora
siamo nei guai!”
“Temo
proprio di sì.”
Il
maggiore Hirschmann in effetti è furente. “Von Kleist!” tuona
non appena i due sono sull’attenti davanti alla sua scrivania, “Le
avevo espressamente proibito queste sue uscite notturne!”
Ne
silenzio greve che fa seguito alle sue parole, d’impulso Friedrich
dice: “Signore, la colpa è mia. Sono stato io a chiedere al
tenente von Kleist di portarmi in paese.”
“Stia
zitto, Lützow,” replica l’altro duramente, “Quando vorrò la
sua versione dei fatti gliela chiederò.”
Poi,
rivolgendosi di nuovo a von Kleist, prosegue: “Lei è un
irresponsabile, un incosciente! Poteva cadere vittima dei partigiani,
poteva essere preso prigioniero! Senza contare che ha violato i miei
ordini! Cos’ha da dire a sua discolpa?”
“Niente,
signore.” Non c’è niente da dire, obiettivamente. Sapeva che non
avrebbe dovuto farlo, ma l’ha fatto ugualmente. Voleva solo far
divertire un po’ Friedrich. Sul suo volto liscio compare un
impercettibile sorriso.
“Non
c’è niente di cui essere soddisfatti,” lo riprende Hirschmann
notando il cambio d’espressione. Si volta poi verso l’altro e
dice: “Lützow, sono costretto a constatare che lei non ha esitato
ad assecondare la deprecabile insubordinazione di von Kleist.”
“Sono
stato io a chiedere a von Kleist di accompagnarmi in paese, signore.
Lui non voleva,” ripete Lützow impassibile.
“Ma
non è vero!” interviene con slancio Siegfried, a dispetto di ogni
regolamento, “Sono stato io a convincere il tenente Lützow a
venire con me. Gli ho fatto credere che fosse una cosa consentita!”
“Basta!”
ruggisce il maggiore.
I due
si zittiscono di colpo.
“Consegnati
entrambi, sospesa la libera uscita fino a nuovo ordine.”
“È
andata bene, temevo che ci avrebbe proibito di volare,” dice
Siegfried mentre si dirigono al loro alloggio. L’altro rimane in
silenzio.
“Perché
ti volevi prendere la colpa, Friedrich?” chiede allora von Kleist.
Lützow
si volta verso di lui. Già, perché? La domanda per il momento non
ha risposta. Non ama le bravate e la spavalderia fine a se stessa,
mai nella sua vita avrebbe pensato di addossarsi la responsabilità
di un atto di insubordinazione commesso da qualcun altro, soprattutto
se inutile e sciocco come andare al bistrot per il solo gusto di
farlo, eppure quando ha visto il compagno minacciato non ha potuto
evitare di intervenire in sua difesa. “Forse ho preso molto sul
serio il mio ruolo di gregario,” risponde quando il silenzio
diviene troppo pesante. Una battuta per dissipare la tensione, ben
lontana però dal descrivere il reale stato delle cose. Quello del
gregario è solo un ruolo, e come tale è asettico e impersonale.
Nulla a che vedere con l’empito selvaggio che si è letteralmente
impadronito di lui quando ha visto il maggiore aggredire Siegfried.
Una
volta in camera, von Kleist fissa il collega con occhi brillanti.
“Però ne è valsa la pena, vero?” gli dice sorridendo.
Per il
tenente Lützow, serio, riflessivo, decisamente portato a considerare
la guerra come una sacra missione, la risposta dovrebbe essere
inequivocabilmente negativa, tuttavia non ha cuore di raffreddare
l'entusiasmo del collega, che invece sta ancora assaporando
l'ebbrezza di una sfida che nonostante tutto considera vinta.
“Ci
siamo divertiti,” risponde pacatamente. Comincia a spogliarsi per
andare a letto. È molto tardi e il sonno è vitale per un pilota da
caccia.
“Non
vorrai dormire,” protesta Siegfried incredulo, “abbiamo ancora
milioni di cose da dirci.”
Friedrich
gli rivolge un sorriso, ma rimane in un silenzio pensoso. Avverte la
sensazione di essere su una soglia, indeciso se varcarla o no. Cosa
significherà concedere a Siegfried la confidenza che sta chiedendo?
A cosa porterà? Lo fissa di sottecchi: l’unica luce della stanza è
una candela e il giovane pilota è di nuovo una statua
crisoelefantina, dagli occhi accesi di un fuoco che senza fatica
potrebbe bruciare entrambi. Ha sempre sentito dire che le persone
sono come la luna, hanno un lato oscuro che non mostrano mai a
nessuno, eppure Siegfried gli pare la negazione vivente di quella
massima. È come un sole: non c'è nulla di umbratile in lui, nulla
di ambiguo. Chiede ciò che desidera con la serenità di chi non ha
nulla da nascondere. Forse è per quello che in sua presenza avverte
così forte il rischio di perdere il controllo.
“Fammi
dormire, Siegfried,” lo implora in un estremo tentativo di difesa,
“è dall’alba che sono in piedi.”
Von
Kleist aggrotta per un attimo le sopracciglia, poi annuisce e
l’espressione spavalda si spegne in una via di mezzo tra delusione
e imbarazzo. “Certo, scusami,” gli dice, quindi senza aggiungere
altro gli volta le spalle e comincia a spogliarsi.
Rannicchiato
sotto le coperte, le spalle rivolte al compagno, Siegfried fissa la
tenda che oscura la finestra, cercando di immaginare il cielo al di
là della cortina di stoffa. Sa che è coperto, se si concentra
riesce anche a percepire lo scrosciare fioco della pioggia.
Gonfia
il petto in un sospiro, ma poi lascia uscire il fiato più adagio che
può per non farsi sentire.
In
cielo è tutto facile, sa in ogni momento cosa fare. Non ha bisogno
di pensare, non succede mai che una sua azione abbia un risultato
diverso da quello atteso.
A terra
le cose non sono così facili.
Ripensa
a Friedrich. Non è molto abituato a dare un nome ai propri
sentimenti, ma gli è chiaro che quelli che prova per lui sono tutti
positivi.
Avverte
un'istintiva attrazione nei suoi confronti, un'attrazione strana, che
fino a quel momento non aveva mai provato per nessun altro. Nemmeno a
quella sa dare un nome, ma sa che è talmente intensa che quando è
in sua presenza gli risulta quasi impossibile controllarsi.
Si
rannicchia più strettamente, come per impedirsi di compiere
qualsiasi movimento verso di lui, e chiude gli occhi tentando di
abbandonarsi al sonno.
L’alba
è una gloria barocca di nubi, indaco e porpora e oro contro un cielo
di cupo zaffiro. Gli aerei, dodici caccia dal muso aguzzo, sono già
allineati e pronti.
Il
maggiore Hirschmann spiega la missione: “È in arrivo da nord-ovest
uno stormo di Möbelwagen,,
con parecchi Indiani di
scorta. Intercettatene più che potete e tornate al Gartenzaun
per il rifornimento tutte le volte che ne avete bisogno. Il primo che
si fa coinvolgere in un duello coi serbatoi mezzi vuoti o le armi
scariche lo prendo a calci nel sedere personalmente, se sopravvive
agli americani.” Detto questo si volta verso Lützow. “Stia
dietro a von Kleist e non faccia di testa sua,” gli ordina.
“Stia
tranquillo signore,” risponde il tenente lanciando uno sguardo al
collega. Questi sorride socchiudendo gli occhi come un gatto che
riceva una carezza. Ci manca solo che si
metta a fare le fusa,
pensa Hirschmann con una strana sensazione di disagio.
Dopo
essere stati congedati dal maggiore, i due si dirigono ai rispettivi
aerei, due Messerschmitt 109 F che portano gli identificativi di
Rosso Tre e Rosso Quattro. “Andiamo, Friedrich!” lo incita
Siegfried, che non vede l’ora di involarsi. Il suo sguardo
brillante è fisso sul cielo. Sta valutando le condizioni
meteorologiche, vento, visibilità, nubi, temperatura. Aria calda al
carburatore a basso regime? Sì, altrimenti c’è rischio di fare
ghiaccio. E sarà possibile mantenersi a 2000 metri in mezzo a quei
banchi di nubi stratificate?
Friedrich
effettua le stesse valutazioni. Nell'imminenza di un combattimento il
cielo perde la sua magia per trasformarsi in una serie di variabili
fisiche il cui esatto rilevamento è determinante per la
sopravvivenza.
Poco
dopo tutto lo stormo è in volo diretto a nord-ovest. Lützow è già
al suo posto, dietro e più in alto rispetto a von Kleist. Dalla
posizione che ha assunto e dalla disinvoltura con cui la mantiene si
vede che conosce bene il mestiere.
Tutta
la caccia della Luftwaffe si basa del resto sul sodalizio
capopattuglia-gregario. Il primo attacca, il secondo gli copre le
spalle, in un’efficiente e letale suddivisione dei compiti.
Improvvisamente
nella frequenza radio si ode un grido: “Pauke,
Pauke!”
Qualcuno
delle Staffel più avanzate ha avvistato il nemico e ha dato il
segnale d’attacco.
Friedrich
controlla il cielo e anche lui li avvista quasi subito: grossi
Viermot verde oliva,
sicuramente B-17. Tutt’intorno guizzano nervose le ali d’argento
dei caccia di scorta.
La voce
calma del maggiore avverte: “Möbelwagen
a ore 11, Hanni 2000 o
2500!”
Ed ecco
che il falco parte in caccia. Motore, picchia leggermente per
prendere velocità, compie una larga virata e si porta in coda al più
avanzato dei nemici. La manovra è disarmante nella sua semplicità,
due raffiche ed è finita. Il Mustang, uno squalo lucente, si
rovescia e precipita verso il suolo.
Siegfried
si sgancia, si mette sulla traiettoria dei Viermot.
L’unico modo per attaccare le Fortezze Volanti è di fronte, da
ogni altro lato sono armate troppo pesantemente. “Stammi dietro,
Lützow!” grida.
“Eccomi,
von Kleist!”
I
bombardieri si avvicinano a velocità vertiginosa, quasi 500
chilometri all’ora, che naturalmente vanno sommati ai quasi 700 dei
caccia. Il che significa che Siegfried ha pochi istanti per mirare,
sparare una raffica e cabrare evitando l’onda d’urto e i detriti.
Friedrich, dal canto suo, deve avere riflessi fulminei per cogliere
l’attimo della cabrata, o si schianteranno l’uno contro l’altro.
Von
Kleist punta un B-17 e dà tutto motore. Gli scarica addosso le
mitragliatrici. Niente di personale,
è la guerra,
pensa
vedendo l’equipaggio sobbalzare e cadere sotto i suoi colpi, del
resto voi state andando a scaricare tonnellate di bombe sulla mia
Patria.
Una
frazione di secondo: colpisce, si sgancia, cabra. Lützow è alle sue
spalle come se stessero volando livellati e in linea retta.
Siegfried
cerca un’altra preda, sopraggiunge un caccia nemico. Friedrich lo
avvista, guizza rapido a intercettarlo proteggendo il suo
capopattuglia dalle micidiali raffiche. Questi intanto è già sulla
dirittura di un altro bombardiere. Spara, si sgancia, cabra
schizzando nell’azzurro inseguito da nugoli di traccianti. Sembra
semplicissimo, come il salto mortale di un trapezista. Ci sono dietro
lo stesso allenamento e lo stesso rischio.
Il
bombardiere esplode.
Il
Mustang colpito da Lützow plana frattanto malamente verso la pianura
francese emettendo fumo nero.
“Ben
fatto, Friedrich!” esclama Siegfried, leggermente ansimante per la
brusca manovra, “Questo abbattimento è tuo!”
Non
sente neanche la risposta del compagno, è di nuovo all’attacco di
un Viermot.
È
arrivato nel frattempo un altro stormo a dare man forte a quello di
Hirschmann e il cielo sembra letteralmente ribollire di aerei. Gli
unici che si staccano da quella mischia furiosa sono i caduti,
americani e tedeschi, che precipitano verso terra.
La
battaglia finisce con l’ultimo bombardiere. I caccia nemici rimasti
invertono la rotta per tornare alle loro basi inseguiti dai
Messerschmitt.
L’aria
è resa opaca dal fumo dei relitti che stanno bruciando al suolo.
Ecco delle bombe che non uccideranno civili inermi.
Nessuno
sorride, però. Non è più il tempo. Finita l’epoca dei duelli
onorevoli, ora è macello e basta. E l’atroce consapevolezza di
essere come una roccia nel mare, salda ma impotente ad arrestare la
rovina.
Se von
Kleist pensa questo, di sicuro non lo dà a vedere. Balza fuori dal
suo aereo con la consueta energia, si sfila il casco e scuote la
testa come un puledro nervoso. Per prima cosa cerca con gli occhi
Friedrich, e trovatolo s’illumina in volto. “Sei un magnifico
Rottenflieger!” esclama
entusiasta, “Stupendo, il migliore che abbia mai avuto! Incollato
al mio aereo come un francobollo!”
“Ho
cercato di fare del mio meglio,” risponde Lützow pacatamente, “ma
non è stato facile, tu voli come se in un Me 109 ci fossi nato.”
L’altro
sorride, gli si avvicina. “Oh, ero sicuro che saremmo stati
perfetti insieme. Siamo talmente in sintonia io e te! Ti potevo quasi
sentire, sai, lì dietro mentre mi proteggevi le spalle.”
Si
scambiano una lunga occhiata silenziosa, che si interrompe solo
quando il meccanico fa rispettosamente sapere al tenente von Kleist
che la semiala destra è stata trapassata in più punti dai detriti
di un’esplosione.
“Già,
mi pareva di aver sentito qualcosa di strano mentre mi allontanavo
dall’ultimo bombardiere,” commenta Siegfried noncurante. Va al
suo aereo, osserva gli squarci con espressione vagamente divertita,
poi si informa: “Può volare?”
“Lo
sistemeremo per domani, signor tenente.”
Il
resto della giornata trascorre in voli di guerra. Con un altro aereo,
Siegfried decolla più volte insieme a Friedrich per missioni di
Caccia
Libera
alla ricerca
dei P-51 americani.
Rientrano
dall'ultimo volo in corsa con le effemeridi, così esausti che quasi
barcollano mentre si dirigono verso la palazzina che funge da
alloggio per i piloti.
“Di
solito non rimango su così tanto,” confida von Kleist al collega,
“gli americani dopo una certa ora se ne vanno e diventa difficile
trovare un avversario, ma oggi non sarei mai sceso.”
“Perché?”
gli chiede Lützow.
L'altro
si ferma, lo fissa negli occhi. È come se in un certo senso la
domanda lo stupisse. “Perché tu eri con me,” gli risponde.
Sparito lo sguardo spavaldo e vagamente canzonatorio, sul suo volto
pallido di stanchezza si legge solo una commovente espressione di
affetto. “Non ho mai volato così con nessuno,” gli dice poi,
quindi riprende a camminare, distaccandolo di qualche passo come se
quella confessione l'avesse imbarazzato.
“Dicevi
sul serio prima?”
“Cosa?”
“Che
non hai mai volato così con nessuno.”
“È
la verità. Tu ed io sembriamo nati per volare insieme. Oggi avevo
quasi l'impressione che tu mi leggessi nel pensiero.”
Sono
nella loro stanza, l'unica luce è il fioco bagliore delle stelle,
appena sufficiente a disegnare i contorni delle cose. Sdraiati nei
rispettivi letti, faticano a prendere sonno nonostante la stanchezza.
“Neppure
io ho mai volato così con nessuno,” dice Friedrich dopo un
silenzio.
“Sul
serio?”
“Certo.
Tu sai davvero tenere in mano un Messerschmitt 109. Vorrei pilotare
come te.”
D'impulso
ognuno dei due tende la mano verso l'altro. Le dita s'incontrano nel
buio con sicurezza, s'intrecciano salde.
“Io e
te dobbiamo stare sempre insieme, Friedrich.”
In
risposta, Lützow si limita a stringere più forte la presa.
I
giorni che seguono sono di fuoco e acciaio, di sangue e morte.
Arrivano
i bombardieri da ovest, in stormi che oscurano il cielo. I
combattimenti sono furiosi, i caccia della Luftwaffe mietono vittime,
ma abbattere i nemici serve solo a farne arrivare altri, mentre
diventa sempre più difficile rimpiazzare i tedeschi che cadono. Ogni
battaglia porta con sé l’angosciante consapevolezza che nessuno
sforzo, nessun sacrificio sarà più sufficiente, le difese saranno
infine travolte e la spaventosa marea dilagherà inghiottendo ogni
cosa.
Von
Kleist e Lützow sono in volo dall’alba al tramonto, muovendosi in
perfetta e letale sincronia nei cieli sconvolti dai continui
combattimenti. Evocano l’immagine di cavalieri teutonici che
fronteggiano orde di infedeli.
Le loro
croci nere insegnano il rispetto alle stelle bianche.
Le
sagome scure dei Messerschmitt 109 si stagliano contro un cielo che
ha tutti i toni del rosso. Un vermiglio aranciato laddove il sole è
scomparso dietro l’orizzonte, che più in alto digrada lentamente
verso lo scarlatto e poi il cinabro. La volta celeste è già nera,
punteggiata qua e là di fioche stelle.
Atterrato
da poco, Siegfried è appoggiato all’ala del suo aereo come se non
si risolvesse ad abbandonarlo. Tutt’intorno i meccanici lo fissano
in rispettoso silenzio, pronti a rimorchiare il caccia nell’hangar
non appena il signor tenente si sposterà.
Friedrich
nota la scena e si avvicina.
“A
cosa pensi, Siegfried?”
L’altro
si volta verso di lui, gli sorride. “Guardavo il cielo.”
“Non
l’hai già visto abbastanza per oggi?”
“Mai
abbastanza.”
Il
collega lo prende delicatamente per una spalla. “Vieni, andiamo
dentro. Gli uomini neri devono lavorare.”
Siegfried
si lascia condurre via con insolita docilità. “Grazie, Friedrich”
dice appena sono in camera.
“E di
che?”
“Sei
sempre così premuroso con me.”
“È
normale, sono il tuo gregario.”
“Ora
non siamo in volo,” replica Siegfried facendo un passo verso di
lui.
L’atmosfera
si fa elettrica, Friedrich sente il cuore saltargli un battito. Ecco
di nuovo la soglia, e questa volta sta per varcarla. Sa che lo farà,
e che non ci sarà ritorno.
L’altro
gli si avvicina ancora. Ansima leggermente, come durante le manovre
acrobatiche più impegnative, e la poca luce rende i suoi occhi
simili a pozzi profondi circondati da un anello di ghiaccio.
Ora
sono uno di fronte all’altro. Si fissano in silenzio. Infine von
Kleist mormora: “Sai qual è l’unica occasione in cui Siegfried –
quello della mitologia, intendo – ha paura?”
“No,
quale?”
“Quando
si innamora.”
Lützow
deglutisce a vuoto. Apre la bocca come per parlare, ma non ne esce
alcun suono. La consapevolezza è come un lampo doloroso: lui prova
gli stessi sentimenti, solo che Siegfried è più temerario e ha
parlato per primo.
Solleva
una mano adagio, con cautela, muovendola come se fosse pesantissima.
Va a sfiorare con una delicata carezza la guancia liscia del
compagno, che a quel tocco socchiude gli occhi accennando a un
sorriso.
Un
attimo dopo si ode all’esterno un ululato stridente. “A terra!”
urla Friedrich. Fa appena in tempo ad afferrare von Kleist e a
gettarsi al suolo, poi la finestra esplode in un uragano di fuoco e
schegge di vetro.
“È
un’incursione aerea!” esclama subito dopo, “Dobbiamo andare ai
rifugi!”
“Dannazione,
proprio adesso!” protesta Siegfried, ma in un attimo è di nuovo in
piedi, e assicurandosi che Friedrich lo segua si butta nel corridoio
già pieno di gente.
All’esterno
lo spettacolo è spaventoso.
Le
bombe scoppiano tutt’intorno, sollevando fontane di terra e
detriti, i bengala rischiarano il cielo con la loro luce livida,
conferendo a ogni cosa oscillanti ombre violacee. Hirschmann è in
piedi in mezzo al piazzale, Klein corre sostenendo un ferito, un
aereo scompare in un’esplosione accecante, qualcuno sta gridando da
qualche parte. Poi l’antiaerea del campo entra in azione e al boato
cupo delle bombe si sovrappone il latrato secco dei cannoncini
Flakvierling 38.
Chiusi
nel rifugio assieme agli altri, rabbiosamente impotenti, i due
possono solo aspettare. Si scambiano qualche occhiata ogni tanto,
soprattutto in occasione degli scoppi più forti. “Purché non
facciano saltare in aria i nostri aerei…” mormora Siegfried,
rivolgendo uno sguardo come d’intesa a Friedrich.
Il
gergo della Luftwaffe
Möbelwagen:
letteralmente, il veicolo adibito al trasporto dei mobili durante i
traslochi. Indica un bombardiere pesante.
Indiani
(Indianer): i caccia di scorta ai bombardieri.
Gartenzaun:
il recinto. Indica la base che ospita lo stormo.
Pauke!
Pauke!: letteralmente “Picchia, picchia!” (nel senso di una mazza
che picchia su un tamburo, dal verbo pauken). Era il richiamo di chi
avvistava per primo i nemici in lontananza.
Viermot:
diminutivo di Viermotorig, ovvero quadrimotore. Sono i bombardieri
pesanti.
Hanni:
sta per altitudine.
Rottenflieger:
termine ufficiale per definire il gregario. La caccia tedesca si
basava sul binomio di Rottenjäger (capopattuglia) e Rottenflieger
(gregario). Il primo attaccava i nemici e il secondo gli copriva le
spalle.
Caccia
Libera (Freie Jagd): missioni in cui i caccia decollavano alla
ricerca di caccia nemici per impegnarli in duello e possibilmente
abbatterli.
Uomo
nero (Schwarzer Mann): nomignolo con cui si definivano i meccanici,
che portavano una tuta nera per far sì che le macchie di grasso e
olio motore si vedessero meno.
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