Questa
storia partecipa al contest "Pesca
nel mazzo" indetto da Ghostwriter sul forum di EFP
Mi
racconti la storia?
«Sorellona,
mi racconti la storia?»
La
bambina spalancò i suoi grandi occhi neri e si
aprì in un sorriso luminoso. «Sì, la
storia!» annuì per dare forza alla sua richiesta.
La
ragazza sorrise, si schiarì la voce e si sdraiò
nuovamente accanto al corpicino minuto di sua sorella, inspirando
profondamente il profumo del mare che le solleticava le narici. Non
avrebbe potuto sentirsi più felice di così, con
sua sorella accoccolata sulla spalla e il mare che danzava sotto di
loro.
«La
Guerra incalzava ormai da qualche anno. Il numero di morti e feriti non
faceva altro che aumentare, soprattutto per il povero mondo marino. Gli
umani erano fieri del loro operato, seminando chaos e
distruzione con le loro tremende macchine da guerra. Il popolo
acquatico non riusciva a trovare le forze per reagire, tanto che il Re
aveva deciso di arrendersi e consegnare il proprio titolo al
Governatore umano. Sarebbe stata la fine del regno acquatico, ma il
popolo sarebbe stato al sicuro, così diceva con voce
lugubre.»
La
bambina annaspò, deglutendo.
Era
probabilmente la centesima volta che sentiva quella storia, ma non
riusciva mai a frenare l’entusiasmo o nascondere la sorpresa.
Forse era il modo in cui sua sorella parlava, o forse semplicemente
amava così tanto quel racconto che ogni volta era come fosse
stata la prima.
«Il
fatidico giorno arrivò, e mentre il Re avanzava in mezzo ai
soldati nemici con fiera rassegnazione… ecco che si
udì in lontananza un forte battito d’ali
e-»
La
bambina sobbalzò, soffocando in gola un urletto.
Sua
sorella scoppiò a ridere vedendo lo spavento. «Mi
sa che è finito il nostro tempo, bambola.» le
stampò un leggero bacio sulla fronte. «Ci vediamo
domani?»
Lahira si
portò una mano al petto e calmò il battito, dando
un’occhiataccia a Kalidwa.
Si sporse dalla palafitta, vedendo una testa bluastra sbucare dal mare.
«Mamma, ancora un attimo! Voglio sentire il resto della
storia!»
«No
piccola, lo sai che hai un tempo limitato
all’aperto.» Ana alzò un angolo della
bocca in un mezzo sorriso. «Ciao Kali,
come ti senti oggi?»
«Meglio,
grazie mamma.» Kalidwa si
affacciò di fianco a sua sorella.
«Ne
sono lieta. Ci manchi tanto. Lahira,
forza, torni domani.» tirò fuori
dall’acqua le mani palmate e le batté tra loro,
producendo un suono sordo.
Lahira sbuffò,
abbracciò forte Kalidwa e
le diede un bacio umidiccio sulla guancia. «Domani la finiamo
eh!» la minacciò, puntandole l’indice
contro il petto.
«E
che c’entra! Io la voglio sentire ancora, ancora e ancora!
Finché me la racconti tu!» sorrise, mostrando i
suoi dentini appuntiti, e si buttò in acqua con eleganza e
grazia. «Ciao sorellona, buonanotte!» la
salutò con la mano e si immerse.
«Riguardati,
va bene Kali?»
Ana si sporse e prese la mano a Kalidwa,
baciandola sul dorso.
«Sì,
mamma, tranquilla. Ci vediamo presto.»
Ana
annuì e seguì Lahira sul
fondale del mare, scomparendo nella notte.
Kali rimase
immobile ancora per qualche istante a guardare l’incresparsi
delle onde su loro stesse, poi sospirò pesantemente e
tornò all’interno della sua casetta. Era piccola,
principalmente in disordine, ma era casa sua e la amava profondamente,
nonostante la odiasse.
Essere
una meticcia aveva delle regole, non poteva vivere insieme alla sua
famiglia se non per un paio di giorni al mese, non poteva essere parte
integrante della società acquatica benchè non
avesse caratteristiche fisiche tanto diverse da quelle
canoniche.
Poteva
vivere in acqua tranquillamente, aveva il laccio per le gambe, i piedi
e le mani palmate, ma il colore della sua pelle non era sul blu scuro e
non aveva i lineamenti appuntiti. L’ovale era morbido, la
dentatura aveva solo i canini pronunciati e leggermente arcuati, e la
pelle era chiara, sul grigio perlato.
Eredità
di suo padre, non c’erano dubbi.
Ana
le aveva sempre dimostrato amore e calore, nonostante la loro
separazione, e quando era nata Lahira l’aveva
fatta sentire parte della famiglia.
Solo
il suo patrigno non le era legato in modo particolare, ma non era
importante.
Lahira era
l’unica ragione di vita per Kalidwa.
Andò
a sdraiarsi sul letto, inspirando. Era libera, nonostante tutto. Era
sola, ma non lo pativa. Stava bene.
Se
escludeva il costante senso di nausea che la sua condizione le
portava.
In
più, una volta ogni mese, puntuale come un orologio, il suo
corpo sembrava dovesse accartocciarsi su se stesso,
procurandole dolori a tutti i muscoli e ad ogni fibra. In
più, doveva per forza stare all’aria aperta
perché aveva bisogno d’ossigeno e quello
dell’acqua non le bastava.
Era
successo, qualche anno prima, che quella condizione la prendesse
durante i suoi giorni di permesso all’interno
dell’acqua. Aveva pensato sarebbe morta, che sarebbe
annegata, ed era assurdo da pensare per una sirena. Si era sentita
così in colpa per la sua famiglia, per aver fatto assistere
loro ad una scena del genere, e quello era uno dei motivi per cui non
andava d’accordo col patrigno. Diceva di aver preoccupato Lahira,
di averla terrorizzata e sconvolta, e non voleva più che
succedesse.
Almeno
su quella cosa erano d’accordo. Non avrebbe mai
più voluto farle vedere la sua debolezza.
Odiava
l’acqua. Non c’era cosa al mondo che detestasse di
più: lo infastidiva l’odore, il suono che faceva,
la percezione di essere bagnato anche a metri di distanza dalla riva,
per non parlare del sale che si appiccicava addosso, ai vestiti e alla
pelle indistintamente, rendendolo irritabile oltre misura.
E
il fatto che lui si stesse dirigendo a gran velocità verso
l’oceano lo faceva sentire male. L’urgenza della
sua missione batteva senza problemi il suo odio per il mare.
Kole correva,
correva a perdifiato finché il dolore alle cosce, ai
polpacci, agli organi interni non lo costringeva a fermarsi per qualche
ora.
Aveva
il netto presentimento che i polmoni gli sarebbero esplosi ancora prima
di provare quella fastidiosa sensazione di averci dentro
l’acqua.
Eppure
continuava ad aumentare la propria velocità, rischiando di
inciampare in ogni rametto o sassolino.
Già
normalmente non era troppo aggraziato, né era troppo forte o
resistente! Affannarsi così non era proprio una cosa da lui.
Però
doveva, e quindi muoveva i piedi uno davanti all’altro ad
un’andatura che non gli apparteneva, facendo bruciare anche
dei muscoli che non sapeva di avere.
Erano
giorni che non si dava pace e vedere l’oceano lo fece
respirare, finalmente.
Cadde
in ginocchio sulla sabbia scura, l’odore salmastro gli
perforò le narici fino a fargli male.
Stava
svenendo. Stava certamente svenendo.
Non
si aspettava che ci fosse qualcuno di sveglio a quell’ora, il
primo dei due soli stava iniziando a sorgere solo in quel momento.
Doveva essere stato la prima cosa che quella persona vedeva, non la
invidiava.
Avrebbe
voluto rispondere, ma non riusciva ad aprire la bocca, a malapena
respirava.
«Ehi,
stai bene?» sentiva lo scricchiolare della sabbia intorno a
sé, quindi la persona doveva essere ormai molto vicina.
Aveva le forze ai minimi storici, non si sentiva più molte
parti del corpo.
Non
avrebbe potuto risponderle neanche volendo, perciò si
permise di socchiudere gli occhi.
Chi
lo avrebbe mai pensato che sarebbe stato salvato proprio nel posto che
odiava di più.
Kali schiaffeggiò
quel ragazzo con forza per svegliarlo, farlo riprendere. Corse a
prendere dell’acqua con le mani a conca, e gliela
versò sul viso, ma niente, non dava segni di vita.
Allora
decise di insufflargli l’aria direttamente in bocca:
tappò le narici e prese un profondo respiro che
riversò immediatamente sulle labbra schiuse del ragazzo.
Avrebbe
preferito fargli delle domande, chiedergli chi fosse per essere
arrivato al confine della terra, dove il popolo terrestre non si
spingeva per una sorta di timore reverenziale, ma per farle avrebbe
dovuto prima salvargli la vita.
Perciò
ripeté il procedimento per altre tre, quattro volte,
finché l’estraneo non diede un forte colpo di
tosse, tirando su il busto con uno strattone.
Kalidwa cadde
all’indietro sulla sabbia, portandosi una mano al petto.
«Mi
hai fatto prendere un colpo.» mormorò, sospirando
pesantemente. Però sorrise.
Kali corse
nella sua palafitta, prese una brocca e tornò sulla
spiaggia. Il ragazzo se la rovesciò praticamente tutta sul
mento e sul mento tanta era la foga con cui provò a bere.
Il
ragazzo sdraiò, aprendo gli occhi e fissandoli sul cielo
terso. Alzò il braccio destro e mosse le dita.
«Mi
serve l’aiuto di una sirena.»
Kalidwa sbiancò,
sbattendo forte le palpebre. Indietreggiò di qualche metro
velocemente.
«Sei
una sirena? Devi aiutarmi, devi aiutarmi!»
«Dimmi
chi sei.» Kali lo
guardava fisso negli occhi, senza cercare di distogliere lo sguardo. Il
popolo terrestre e il popolo acquatico non erano mai andati
particolarmente d’accordo, e non poteva significare niente di
buono se un terrestre arrivava alle porte dell’oceano con una
richiesta.
Il
ragazzo prese dei profondi respiri. «Sono Kole.
E il mio popolo ha bisogno di te.»
Sperava
che, dicendo una cosa del genere, avrebbe convinto quella strana
ragazza a seguirlo nella sua missione.
Era
convinto che fosse una sirena, lo poteva dire dalla sua carnagione, dai
lineamenti molto delicati, e dal fatto che era totalmente diversa da
lui, che era un umano.
Non
un umano nella sua totalità, ma era comunque appartenente
alla specie terrestre.
La
sua condizione non era ottima, la sua famiglia era povera, erano pieni
di debiti, ed erano emarginati da qualsiasi evento sociale, cosa che
nella capitale cadevano ogni mese. Lui non poteva presentarsi.
Colpa
del suo aspetto, e di suo padre.
Solo
a pensarci gli veniva il nervoso e senza accorgersene si era messo le
dita in bocca e aveva iniziato a mangiucchiarsi le pellicine attorno
alle unghie. Sentì immediatamente il sapore ferroso del
sangue, pungente e fastidioso, ma non poteva proprio farne a meno, non
riusciva neanche a fermarsi.
«Non
posso esserti d’aiuto, mi dispiace.» disse con voce
ferma la giovane, prendendo un respiro subito dopo.
Si
alzò in piedi, si scosse la sabbia dai pantaloni scuri e
fece per tornarsene alla sua palafitta.
Kole non
poteva permetterglielo, non aveva tempo da perdere. «No, ti
prego, mi serve! Solo una sirena può salvarci, e tu sei una
sirena!»
La
ragazza tornò davanti a lui. Si abbassò alla sua
altezza e lo guardò con una durezza a cui non era abituato.
«Il tuo popolo
ha ucciso e seviziato il mio popolo
e tu ora
cerchi il mio aiuto? Con che diritto! Con che faccia tosta!»
ringhiò. Si mise in piedi e ripartì alla volta
della sua abitazione, impettita e spedita.
Kole sgranò
gli occhi. Nonostante il dolore lancinante scavò nella
sabbia per rimettersi in posizione eretta e la rincorse; le prese la
mano e la tirò leggermente. «Tu non
capisci!»
«Io
capisco benissimo invece! Sei tu che non capisci! Non voglio avere
niente a che fare con i terrestri, dopo…» scosse
forte il braccio e si divincolò, pronta a non voltarsi
più indietro una volta mossa.
«Mio
padre ci ha abbandonati quando ero piccolo, ho pochi ricordi con lui,
ma mi ha sempre detto che il popolo acquatico era un popolo pieno di
gente di buon cuore! Un popolo che non avrebbe mai voltato le spalle ad
una persona in difficoltà! La grande guerra racconta
che-» iniziò a sciorinare, cercando di non
incespicare nella sua lingua. Doveva fare in modo che quella ragazza lo
seguisse di sua spontanea volontà, che lo riaccompagnasse
alla sua città. In un certo senso lo stava anche facendo per
lei, per il suo popolo, perché diavolo non lo stava ad
ascoltare? Dirle la verità non era un’opzione
pensabile.
«So
cosa racconta la grande guerra. La mia gente l’ha
combattuta.» la ragazza indurì lo sguardo,
indispettita.
«Bene,
io voglio evitare una seconda guerra.»
«Per
quale motivo dovrei crederti? Non mi hai neanche detto chi
sei!»
Kole prese
un respiro. «Kole.
Mi chiamo Kole.
Il Re della nazione di fianco alla mia vuole iniziare una guerra a meno
che non si presenti una sirena a corte. Il nostro Re ha organizzato un
ballo, una maschera per una specie di riunione, tra una settimana. Ci
saranno esponenti di tutte le razze conosciute: il mio Re vuole evitare
la guerra, è anche nel tuo interesse.»
«Mi
stai mentendo. Sono certa che
tu mi stia mentendo.»
Kole fece
un passo in avanti, trovandosi così a pochi centimetri dal
suo volto. Poteva scorgerne ogni dettaglio, ma si incantò a
guardarla negli occhi. Nonostante fosse leggermente più alta
di lui, riusciva a vederla bene: iridi blu, ma blu come
l’oceano, non un blu finto e statico. Sembravano quasi
turbati dalle onde della marea. «Io non mento.»
Kalidwa si
era lasciata convincere. Non facilmente, certo, aveva dato del filo da
torcere a quel Kole,
aveva elencato ogni possibile motivazione secondo la quale avrebbe
dovuto negare il suo coinvolgimento, eppure… eppure era
lì, che stava aspettando la sua sorellina seduta sul bordo
della sua palafitta, pronta a dirle qualcosa che mai avrebbe pensato di
dirle.
Il
volto ancora paffuto e bluastro di Lahira sbucò
dall’acqua, entusiasta come al solito.
«Che
succede? È uno di quei giorni?» domandò
apprensiva: mise le mani palmate sul legno e si tirò su, in
modo da potersi sedere di fianco a lei.
«No
tesoro, no… è un giorno normale.»
Kalidwa mise
il braccio attorno alle spalle della sorellina. Le poggiò le
labbra sulla tempia ancora umida. «Io devo andare in un
posto. Lontano.»
«Perchè è
giusto che io lo faccia. Perché devo sventare una
guerra.»
La
ragazzina tremò violentemente, così Kali la
strinse più forte. «Sarà
pericoloso?»
«Non
lo so, non dovrebbe. Sto andando in un posto in cui
c’è ancora la pace, non mi succederà
niente. Sarò di ritorno in due settimane, forse anche
meno.»
«Vengo
con te! Fammi venire con te, come faccio per due settimane? Da
sola?»
Kalidwa sentì
le lacrime che le pungevano gli occhi, ma le ricacciò
indietro strizzando forte le palpebre. «Lahi,
andrà tutto bene, te lo prometto. Davvero. Devi solo avere
fiducia nella tua sorellona.»
«Mi
fido ciecamente di te. Lo sai. Non mi fido di quello
là.» Lahira si
staccò e indicò con la testa la spiaggia, dove Kole stava
camminando avanti e indietro. «Non lo conosco, e non lo
conosci neanche tu.»
«Perché
vai? Simo in pericolo?»
«Vado
perché è quello che farebbe la mamma. E
perché è quello che faresti tu, se ti fosse stato
chiesto.» le diede un buffetto sulla spalla. «Vado
a salvare il mondo.»
Lahira rimase
in silenzio per qualche minuto, e Kalidwa rispettò
quel tempo, sospirando di tanto in tanto.
«Oh
insomma, non sei contenta?»
«Sono
preoccupata. Ma mi fido. Quindi puoi andare.»
«Ah…
“puoi andare”? Davvero?» rise, e Lahira rise
con lei. Kalidwa si
permise di osservarla un momento, persa nei suoi pensieri: era una
bambina bellissima, e non lo diceva solo perché era sua
sorella! Con quegli enormi occhi neri e la pelle blu, liscia e lucida,
sarebbe diventata un’adulta meravigliosa e tutti i tritoni
dei mari avrebbero voluto averla tutta per loro. Ma lei non sarebbe
stata di proprietà di nessuno, sarebbe stata libera.
Sempre
che avesse evitato la guerra.
Cosa
di cui era terrorizzata.
Conosceva
benissimo la storia della Grande Guerra, e benché tutta
quella parte dei draghi era assurda, una leggenda e niente di
più, le razze di tutto il mondo si erano date battaglia.
Mentre la razza degli umani continuava a vincere, i popoli minori,
uniti in un’alleanza di fortuna, subivano perdite ingenti e
continue, un’emorragia quasi infinita di guerrieri.
Il
Re delle sirene aveva vinto la sua battaglia siglando patti e
sacrificando se stesso.
Probabilmente avrebbe dovuto sacrificarsi anche lei, per proteggere Ana
e Lahira.
Ma
doveva impedire una guerra, un’altra guerra, e la sua vita
non valeva niente a confronto della loro.
Kalidwa la
strinse tra le braccia e la riempì di baci, facendola
scoppiare a ridere. «Ti prometto che
tornerò.» non amava mentire a sua sorella, non
amava mentire in generale, ma non poteva permettere che la sua
integrità d’animo mandasse in malora tutto quanto.
Kole era
disperato. Non ne poteva più.
Stare
con quella ragazza, quella giovane donna, lo faceva diventare matto.
Era buona, buona a un livello quasi nauseante.
Soprattutto
continuare a mentire, e mentire, e mentire ancora.
Non
voleva farlo, non gli piaceva, era costretto a farlo, per la sua
missione.
Stava
portando Kalidwa al
macello. La stava vendendo al Re, a quell’uomo spregevole e
senza cuore, che non faceva altro che torturare la povera gente con
tasse e violenze gratuite.
Come
quell’assurdo festival che aveva deciso di dare.
L’aveva indetto come se niente fosse stato, ma in
realtà era chiarissimo che non fosse altro che una
sanguinosa lotta alla sopravvivenza.
Il
possessore dell’esemplare migliore avrebbe ricevuto una
grossa somma di denaro per aver intrattenuto il proprio sovrano.
Vivere
nella Capitale non era il sogno che tutti avevano sempre creduto, anzi.
Vivere, per chi non era abbiente, era arduo oltre ogni misura.
Per
lui e sua madre, ad esempio, era atroce. Il più delle volte
non sapevano come sarebbero arrivati alla fine della giornata,
nonostante sua madre lavorasse da quando il primo sole sorgeva a quando
l’ultimo sole tramontava.
E
suo padre era scappato, abbandonandoli spudoratamente. Odiava suo
padre. E detestava quando sua madre lo difendeva, elogiandone la sua
delicatezza, la sua dolcezza e purezza di cuore.
Ecco
che aveva di nuovo le mani in bocca, mordicchiandosi i lembi di pelle
intorno alle unghie scure.
«Sembra
un bella scocciatura.»
«Cosa.»
sbuffò, aprendo per bene le mani e stendendo le dita,
costringendosi quindi a smettere.
«Ti
stai mangiando le… dita? Sei una sorta di
cannibale?»
«Che
schifo, no! È nervosismo. È solo
nervosismo.»
Kole si
fermò nel bel mezzo del sentiero. Erano in viaggio da ore,
iniziava a fare buio, freddo, e il bosco non dava alcun segno di
abitabilità. Aveva corso per due giorni, dormendo solo per
due o tre ore, non si era preparato neanche un giaciglio comodo, si era
semplicemente buttato contro un tronco e aveva chiuso gli
occhi.
Però
non aveva la stessa fretta, ora, potevano permettersi del tempo per
riposare.
«Noi
umani? Adesso vuoi dirmi che voi sirene non avete problemi con le
figure genitoriali.»
Le
lanciò un’occhiata eloquente, alla quale lei
roteò gli occhi. «Tutti i figli hanno problemi con
i genitori.» disse, schioccando la lingua al palato.
«E con i genitori adottivi.» soffiò,
probabilmente pensando di non essere sentita.
Kole sogghignò.
«Patrigno o matrigna?» domandò.
Gli
sembrò di aver visto un leggero rossore sulle guance
perlacee di Kalidwa.
Quindi le sirene avevano il sangue rosso, interessante.
«I
patrigni sono i peggiori.»
Si
guardarono e si fecero un sorriso, il primo sorriso sincero da quando
si erano conosciuti. Kole pensò
che forse non era così pessima, quella ragazza. Dopotutto,
anche se era schifosamente gentile, forse poteva essere una buona
amica, una compagna di disavventure. Cosa che, per altro, era
già, inconsapevolmente. Iniziò a sentire
qualcosa, a livello di stomaco.
E
la mano era in bocca. Odiava quel tic. Non riusciva a controllarlo.
«Dovremmo
metterci a dormire, comunque. È tardi, abbiamo ancora tutto
domani per camminare e… forse ancora il giorno
dopo.»
«La
Capitale è così distante?»
«No,
se hai fretta no… noi non ne abbiamo tanta, possiamo
riposarci.» sospirò. «Prendi delle
foglie secche, facciamo un giaciglio. Dovrebbero esserci delle foglie
larghe per coprirle… vedo se c’è
qualcosa in giro, ci ritroviamo qui più tardi. Non fare
niente senza di me.»
«Sei
un girovago? Ce l’hai una casa?»
Kole inarcò
un sopracciglio. «Che domanda è?»
Kalidwa alzò
le mani e fece una smorfia. «Niente, niente. Ci vediamo
dopo.»
Il
ragazzo la guardò allontanarsi difficoltosamente tra
l’erba alta e gli scappò una risata: sembrava
così a disagio a camminare sulla terra ferma! Gli faceva
tenerezza.
Stava
portando quella povera creatura al macello.
Si
tolse il dito medio dalla bocca e e sbuffò.
Non era il momento per i sensi di colpa, servivano delle foglie larghe
e grosse. Alzò gli occhi al cielo, cambiarono repentinamente
colore e la pupilla si verticalizzò. Scovò una
palma dal brillante colore rossastro, corse e spiccò un
salto verso l’alto.
Dopotutto,
l’eredità di suo padre non era completamente da
buttare.
La
terra era ostile, Kali l’aveva
sempre saputo, eppure non aveva mai avuto una conferma così
sonante come in quel momento, mentre schivava i rametti e gli arbusti
la graffiavano.
In
acqua non c’era niente che le facesse un male simile,
riusciva a muoversi molto meglio e le sue gambe non sembravano dei
tronchi nodosi e difficili da manovrare.
Avrebbe
dovuto iniziare a passare più tempo in quello che era il suo
mondo, perché suo padre non era un acquatico.
Avrebbe
dovuto accettarlo, prima o poi. Era stata abbandonata che era poco
più che una bambina, aveva imparato a vivere da sola quando
aveva più bisogno dei suoi genitori.
Comunque,
ce l’aveva fatta. Ci era riuscita bene, si sentiva una sirena
decente, fondamentalmente sola, ma c’era Lahira che
era la sua unica ragione di vita. Le mancava da morire anche se non la
vedeva da poche ore.
La
aiutava così tanto con le relazioni interpersonali, lei era
allegra e vivace, piena di amici. E le raccontava sempre di tutto
quello che faceva, di come si divertiva, e Kali ricambiava
raccontando storie del passato, tutte quelle che suo padre aveva
lasciato alla palafitta. Sapeva leggere i libri umani, e qualche altra
cosa delle altre lingue conosciute: a suo padre piaceva da morire
leggere e insegnare a leggere, e Kali aveva
così bisogno di attenzioni che non poteva fare altro che
assecondarlo.
Tutto
quello che conosceva della gentilezza, di come si parlava con le
persone, delle relazioni, l’aveva imparato lì. Era
gentile, si sentiva gentile, eppure non riusciva ad avere un filtro tra
quello che pensava e quello che diceva.
Forse
era stata scortese?
Foglie
secche, doveva trovare delle foglie secche. Non era più
semplice dormire a terra e basta? Perché servivano le foglie
secche?
Quante
ne avrebbe dovute prendere? Aveva interpretato bene la sua lingua? Era
vero che parlava in un dialetto strano, con un accento particolare,
però era abbastanza certa di aver capito cosa
intendesse.
Comunque,
appena fosse tornata avrebbe chiesto. Forse avrebbe anche dovuto
spiegare. Si sentiva leggermente ostile, ad essere onesta, eppure non
poteva non sentirsi affine, data la simile situazione
familiare.
Si
coprì la bocca con la mano, nascondendo un risolino. Sarebbe
stato sensazionale se fossero stati fratelli da parte di padre!
Assurdo, allucinante!
Ma
no, non era possibile.
Scacciò
quella remota, quasi impossibile, possibilità e
tornò alla sua ricerca di foglie secche. Si tolse la parte
superiore del suo abito, rimanendo con una fascia stretta di cuoio
scuro, e iniziò a raccogliere le sue foglie.
Eppure
quel tarlo non le lasciava la testa. Non passava oltre. Pensava a
qualcosa e subito dopo tornava alla domanda: “se fossimo
fratelli”?
Comunque,
più ci stava sopra e peggio era, perché
continuava a trovare delle similitudini fisiche. Forse gli zigomi,
forse il taglio degli occhi? No? I capelli! Erano i capelli!
No,
non erano i capelli… era lo sguardo. Era quello che li
accomunava. Lo sguardo. Gli occhi. Erano simili, dannatamente simili.
Per
il resto non si somigliavano granchè,
fisicamente: Kole era
piccolo, magro e “sproporzionato”, per i suoi
standard. La pelle era chiara, bianca praticamente, riluceva, e gli
occhi erano di un profondissimo verde, un verde che ricordava un prato
solcato dal vento. O almeno, se lo immaginava così da come
veniva descritto nei libri di suo padre.
Raccattò
tutto quello che riusciva nel suo abito e poi tornò di corsa
allo spiazzo.
Indurì
le mascelle e strinse le labbra. Poi fece per aprire la bocca e
parlare, ma la voce le morì in gola.
Kole aveva
un sopracciglio rosso inarcato. Si mosse in avanti, ma Kalidwa sgranò
gli occhi. «Sì! Sì sto bene! Ho trovato
queste foglie, bastano? Vanno bene?» rovesciò il
contenuto del suo indumento a terra e lo mostrò.
«Perfette!
Possiamo prepararci allora.» Kole sorrise
e iniziò a preparare i giacigli, impegnato e concentrato,
così Kalidwa decise
di lasciare perdere per il momento.
Il
viaggio sarebbe stato ancora lungo, aveva… tempo,
sì, aveva tempo.
Avevano
passato il resto del percorso quasi in silenzio, Kole aveva
iniziato da poco ad abituarsi al suo chiacchiericcio costante e
continuo, alle domande su come funzionava quell’albero o
quell’insetto, allo stupore per letteralmente qualsiasi cosa,
che ora non sentirla più gli faceva strano.
Aveva
la sensazione che volesse chiedergli, fargli una domanda nello
specifico, ma sembrava fermarsi appena prima di parlare.
Comunque,
andava bene così. Non voleva neanche affezionarsi troppo,
visto dove la stava portando.
Arrivarono
alle porte della Capitale e Kole venne
percorso da brividi di terrore e ansia.
Non
poteva negare di essersi fatto scrupoli: aveva pensato più
volte di tornare indietro, o di raccontarle la verità,
metterla in guardia su quello che sarebbe successo. Anche lei aveva una
famiglia, anche lei aveva delle persone da proteggere, delle persone a
cui teneva e a cui sarebbe mancata se non fosse più
tornata…
Ma
sua madre. Sua madre dipendeva da lui.
Era
l’unica salvezza di sua madre, non poteva deluderla, non
poteva permetterle di continuare a lavorare senza che il suo nome
venisse riconosciuto, senza che potesse avere una vita normale! Proprio
ora che poteva risolvere questo problema… non era il momento
di farsi attanagliare dai sensi di colpa.
Non
aveva la certezza matematica che Kali avrebbe
capito, quindi non era necessario che sapesse la verità. Gli
dispiaceva, certamente, e se solo avesse potuto sacrificare se stesso
l’avrebbe fatto senza pensarci, ma non poteva.
Il
Re era un mostro schifosamente colto e riusciva a riconoscere la
purezza, cosa che lui chiaramente non possedeva.
Si
tolse la mano dalla bocca solo dopo aver sentito il sapore del suo
sangue chiaro.
Sorrise
nel sentire di nuovo la voce di Kalidwa.
«Sì. La riunione sarà domani, possiamo
prepararci a dovere. Ti porto a casa mia, potrai lavarti e laveremo i
vestiti… mangeremo e per domani saremo
pronti.»
Non
aggiunse altro, nonostante percepisse la confusione di Kalidwa.
Avrebbe dovuto portarla in giro e farle vedere la sua Capitale, ma la
odiava, perciò non sarebbe stato affatto oggettivo. Le
coprì, però, il viso e la testa con uno straccio,
in modo che il colore della pelle e la forma del viso e ogni tratto
somatico distintivo non si notasse. Non doveva lasciare che venisse
presa da un cittadino: se solo l’avessero vista e
riconosciuta come di un’altra razza e senza permesso,
l’avrebbero potuta prendere da lui. Kole non
aveva niente, non poteva possedere niente per legge, quindi non poteva
esercitare nessun potere. Doveva evitare che gli fosse portata via
proprio prima del festivl.
«Ci
sono delle regole. Gli stranieri devono passare all’Ufficio
per registrasi.»
«Stiamo
andando all’Ufficio?»
«No,
solo i cittadini possono entrare.»
«E
tu non sei un cittadino?»
Kole strinse
le mascelle. «Sono figlio di una Senza Nome, non ho alcun
diritto. Mia madre vive per lavorare e a malapena sopravviviamo, non
possiamo permetterci di avviare le pratiche per il
riconoscimento.»
Kole sospirò,
si fermò a lato della grossa strada e le prese la mano.
«Lo so. Non è necessario che tu capisca. Questa
zona è la periferia, potremo passare inosservati, ma devi
fare comunque attenzione che non ti notino. Non è un bel
posto.» spiegò a voce bassa. «Stai
vicino a me, arriveremo a casa sani e salvi.»
«Non
pensavo fosse così pericoloso…»
«Non
lo è per tutti. Ma per te, e me, è un posto
terribile. Mi dispiace di averti portata qui, non avevo
scelta.» era la verità, per una volta.
No,
no, non doveva pensarci, non doveva più pensare a quello che
stava facendo. Doveva pensare a sua madre. Solo a lei, a nessun
altro.
Svicolarono,
si fecero spazio tra la gente che accalcava le strade di ogni
dimensione, e arrivarono in poco tempo davanti ad una cancellata in
ferro, scura. «Oh.»
«Cosa?» Kole tirò
fuori una chiave e la infilò nella toppa, aprendo su un
enorme cortile.
«Non
pensavo che vivessi in un posto così.»
«Non
farti ingannare.» disse amaramente Kole.
La fece entrare e chiuse a doppia mandata, per poi ricominciare a
camminare a passo spedito.
«Siete
protetti, però. Nessuno può entrare.»
Il
ragazzo sentì un senso di nausea che quasi lo
paralizzò. Si costrinse a continuare a camminare come se non
fosse successo niente. «No Kali…
nessuno può uscire.» esplicò, con voce
atona.
Aveva
zittito la ragazza con quella frase.
Il
Re era talmente affezionato al
suo popolo che aveva fatto costruire dei conglomerati di case in cui
aveva stipato famiglie secondo un suo criterio specifico. Il suo
conglomerato era l’ultimo nella lista, l’ultimo per
diritto e il primo per doveri: i Senza Nome.
Chiunque
vivesse in quel posto aveva perso il diritto inviolabile alla vita,
all’identità, al nome come punizione per un
peccato di grossa portata.
Kole,
ad esempio, viveva nello stesso conglomerato di violenti criminali, lui
che non avrebbe neanche saputo come uccidere un insetto, o sua madre
che era forse la persona più dolce e inoffensiva del
mondo.
Non
c’erano prigioni se non quelle del tribunale, che erano
sempre e solo temporanee. Il Re decideva che punizione dovesse subire
un accusato e la sua decisione era insindacabile, non era possibile
proferire parola. I peccati più gravi venivano sanzionati
con la morte in pizza grande, mentre quelli ad uno scalino leggermente
meno gravi venivano castigati con la perdita
dell’identità.
Da
lì nascevano i Senza Nome, persone che non potevano
più definirsi, né possedere alcunché.
Aggirarono
un paio di casupole fatiscenti e si infilarono in una che sembrava
essere tenuta meglio delle altre, almeno dalla facciata. La casa era
stata costruita da Senza Nome, non aveva nessuna comodità.
L’avevano arredata con mezzi di fortuna, il bagno
l’aveva creato Kole con
tubi di scarto e bacinelle dopo aver rubato alcuni pezzi nelle case
più facoltose.
Era
un criminale, tanto valeva che si comportasse come tale.
«Puoi
andare lì, io ti pulisco i vestiti e… ci vediamo
dopo.» spinse Kalidwa nel
bagno e aspettò fuori dalla porta che lei gli consegnasse i
vestiti. Prese una bacinella e si mise a lavarli di buona lena, senza
fiatare. Il grande giorno stava per arrivare. Avrebbero abbandonato
quella vita di stenti, avrebbero avuto un bagno vero, una cucina vera,
avrebbero mangiato e avrebbero finalmente indossato dei vestiti che non
sarebbero stati stracci arrotolati e annodati.
«Kole…
posso chiederti una cosa?»
Tacque,
sperando che desistesse.
«Cos’è
una Senza Nome? Cosa vuol dire?»
Ecco,
pensò, era proprio una cosa di cui non voleva parlare.
Eppure, spiegò. Spiegò come funzionava la legge
nella Capitale, spiegò come andavano le cose e come
sarebbero sempre andate. Tanto valeva che sapesse, stava andando a
morire.
«Cos’ha
commesso tua madre?»
Kalidwa rimase
in silenzio, così Kole continuò
a lavare e strofinare, poi posò gli abiti puliti su una
trave e li lasciò asciugare. Faceva caldo in quella
stagione, ci avrebbero messo molto poco.
«Sei
tu il suo crimine, non è vero?»
«Possiamo
dire di sì. Mio padre non era registrato, lei ha avuto me e
quindi… la legge è la legge.»
Sentì Kalidwa ridacchiare
dall’interno della stanza.
«Oh
no, no… pensavo a quanto siamo simili.»
«Simili?»
“Tu sei pura”, continuò nella sua mente.
Non aveva ancora la confidenza per poterlo dire a voce alta.
Il
giovane fece per chiederle delucidazioni, ma lei uscì dalla
stanza con uno straccio attorcigliato addosso. «Vorrei
riposare.» disse, e Kole la
accompagnò nella stanza dove dormiva con sua madre.
Dopo
averla lasciata da sola, andò in quello che in
un’abitazione normale sarebbe stato un salotto e si sedette a
terra, portandosi le mani tra i capelli. Non poteva farcela. Non
riusciva, non ce la faceva proprio, sembrava che dovesse morire da un
momento all’altro. Lui non era una persona orribile, non si
era mai definito tale, eppure stava tradendo quella ragazza che si era
dimostrata così gentile e disponibile con lui, pur non
sapendo assolutamente niente. Si sentiva bene con lei, si sentiva
capito, si sentiva al sicuro, come se davvero fossero simili.
La
stava vendendo, però. La stava portando in una tana di belve
feroci.
Non
era previsto affezionarsi, non era previsto che gli dispiacesse! Doveva
essere una cosa semplice, prenderla e portarla, niente di
più, e invece ora si interessava di come stava dormendo, o
se avesse ancora fame dopo aver mangiato nel bosco. Aveva a cuore i
suoi bisogni e questo era controproducente.
Gli
venne da piangere: perché doveva essere tutto
così difficile per lui? Perché non poteva andare
bene qualcosa, una cosa sola! Che andasse secondo i piani, che non lo
facesse sentire come l’essere peggiore della sua specie?
Non
riusciva a passare oltre quei pensieri, si sentiva in colpa e non
poteva nasconderlo almeno a se stesso.
O
a sua madre. Era arrivata nel momento peggiore in assoluto. Non si era
neanche accorto che il secondo sole era tramontato.
«Stai
bene?» la donna gli si sedette di fianco, sorridendo
dolcemente. Gli mise una mano sulla testa e gli accarezzò i
capelli rossi. «Sei stato via dei giorni, e ora torni
così affranto… sei riuscito a fare quello che
dovevi fare?»
«Qual
è il problema, allora?»
«Se
io facessi una cosa brutta. Ma brutta davvero, però la
facessi per salvare qualcuno… cosa sarei?»
«Saresti
una persona, Kole.
Una persona normale, con delle priorità. Devi solo chiederti
se ne vale la pena, se la tua coscienza lo accetta.» fece una
pausa, poi gli circondò le spalle col braccio forte.
«Cos’hai fatto di cui non vai fiero?»
«Ho
mentito. Mentito ad una persona che non meritava una cosa del genere.
l’ho convinta a fare una cosa con l’inganno e lei
verrà sacrificata…»
La
donna prese il viso del figlio tra le mani e lo fissò
intensamente negli occhi, perdendo quella dolcezza che aveva dimostrato
prima. «Kole.
Hai preso un’esponente?»
«Sì.
Ho preso una sirena.»
La
donna spalancò gli occhi e si coprì la bocca con
le mani. «Cosa… ma perché! Per quale
motivo! Lo sai cosa succederà domani! Lo sai benissimo che
non ne uscirà bene, forse non ne uscirà
viva… e per cosa?»
«Mamma
io l’ho fatto per te! Perché riacquistassi il tuo
nome, i tuoi diritti…»
La
madre lo riavvicinò, sospirando pesantemente. «Non
lo rivoglio il mio nome, ragazzo mio, se deve essere pagato con la vita
di un altro essere vivente. Se però ti ho fatto intendere
una cosa simile, ho sbagliato. Riporta a casa questa creatura, non
macchiarti di un peccato che la tua anima non potrebbe sopportare, sei
ancora in tempo…»
«Tu
tornerai ad essere normale. Ho… ho tutto sotto controllo, te
lo prometto.»
«Buonasera,
signora. Sono Kalidwa.»
Madre
e figlio si voltarono repentinamente verso la sirena, che fece un
sorriso cordiale e si avvicinò a loro.
«Ciao Kalidwa.
Sono la madre di Kole.
Spero ti abbia trattata bene durante il viaggio.»
«Si
è preso cura di me e mi ha preparata alla
riunione… voglio evitare la guerra tanto quanto tuo figlio,
sono pronta a tutto.»
«Oh
cara…» la donna la guardò con i suoi
grandi occhi scuri e andò ad abbracciare Kalidwa.
Le arrivava poco sotto la spalla, ma poco importava. «Spero
che potrai perdonarlo, un giorno. È un bravo ragazzo, non
farebbe mai del male a nessuno.»
«Scusate.
Devo dormire, domani devo lavorare.» si alzò sulle
punte dei piedi e diede un leggero bacio sulla guancia fredda di Kalidwa,
poi salutò suo figlio e si ritirò in camera.
«Sembra
una donna molto dolce.» commentò la sirena,
sedendosi a terra di fronte a Kole.
Lui
incassò la testa tra le ginocchia e chiuse gli occhi.
«È la migliore in assoluto. Farei di tutto per
lei.»
«Lo
capisco. Anche io per Lahira.»
«Mia
sorella minore. Vive con mia mamma e suo padre, è sveglia,
intelligente, mi manca da morire. Non vedo l’ora di tornare a
casa per lei, sai? Ma la nostra missione è importante. Vedo
che sei preoccupato, pensieroso, ma andrà tutto bene. Posso
convincere il Re vicino a non iniziare la guerra, sono certa di
potercela fare. E allora tornerò a casa, dalla mia
sorellina.»
«Quanto
ha?» chiese con un filo di voce. Si stava punendo per quello
che avrebbe fatto.
«Molte
meno Lune di me, purtroppo. Ma è molto saggia. Ha vissuto
per dodici cicli, e ogni sera viene da me e sta con me per tutto il
tempo che ha.»
«Lo
è. È il mio cuore, devo proteggerla a tutti i
costi. Ecco perché sono qui.»
Kole si
sentì mancare. Fortuna che era già sul pavimento,
se fosse stato in piedi sarebbe certamente caduto.
«Capisco.» aveva ragione, prima, quando aveva detto
che erano molto più simili di quanto pensasse.
Si
stavano muovendo per lo stesso motivo, spinti dallo stesso desiderio. E
allora perché Kole sentiva
che era profondamente sbagliato?
«Penso
sia meglio dormire. Domani sarà una lunga
giornata.» concluse Kalidwa.
«Torna
pure in stanza… io rimango qui, ancora per un
po’.» Kole si
sforzò di sorridere. Tornò quasi subito alla sua
posizione rannicchiata su se stesso.
Sapeva
che non avrebbe chiuso occhio, divorato dai sensi di colpa, tanto
valeva lasciarle la branda e farle dormire un’ultima notte
decente.
Quando Kalidwa aprì
gli occhi, la madre di Kole non
c’era più. Aveva appena albeggiato, lo sentiva
attraverso le finestre, così si stiracchiò le
ossa stanche e si mise in piedi. Sperava che i suoi indumenti fossero
già asciutti, il pezzo di stoffa che aveva usato il giorno
precedente era ancora umido e freddo.
Uscì
dalla stanza e trovò Kole seduto
al tavolo, con una ciotola di fronte e della brodaglia al suo interno.
«Buongiorno.» lo salutò cordialmente.
Kole non
rispose, fece semplicemente scivolare la ciotola in avanti in
prossimità della sedia vuota.
«Vestiti
e fai colazione, il Re ci sta aspettando.»
Kalidwa obbedì.
Si sedette e lo guardò di sottecchi mentre beveva il suo
pasto – non sapeva neanche cosa stesse assimilando, andava
bene tutto purché fosse nutriente. Sembrava ancora
più turbato della sera precedente, non se la sentiva ancora
di fare quella fatidica domanda.
«Noi
non siamo amici. Stiamo solo lavorando insieme.»
«Oh…»
gemette piano Kalidwa,
ingollando l’ultimo sorso. Siamo fratelli, precisò
mentalmente. «Va bene.»
«Non
c’è nessun sentimento tra di noi, niente. Non ci
sono legami.»
Avrebbe
voluto dirgli che la realtà era ben diversa, ma desistette.
Pensava che sarebbe stato meglio farlo dopo la riunione, dopo aver
risolto quella faccenda che lo faceva stare così in
pensiero. «Cosa facciamo ora?»
«Andiamo
alla reggia. Tu ti registrerai come una sirena e io come chi ti ha
presentata, e le nostre strade si separeranno.»
«No,
è una riunione a porte chiuse. Il ballo si terrà
alla fine della riunione e, come ti ho già spiegato, non
sarà altro che una farsa. Il posto è ben
sorvegliato, perciò non farti venire strane idee.»
«Non
vedo che idee dovrei farmi venire, dobbiamo solo parlare.»
rispose pacatamente.
Kole socchiuse
gli occhi e annuì.
«Andrà
tutto bene Kole.
Non devi preoccuparti di niente, so badare a me stessa.»
ripeté per l’ennesima volta. Sembrava che quel
ragazzo non avesse alcuna fiducia nelle sue capacità. Decise
di lasciare perdere, comunque: c’erano molte cose che
dovevano preparare, così abbandonarono il discorso ed
uscirono di casa di fretta.
L’atmosfera
nella Capitale era diversa dal giorno prima, era molto più
frenetica e sembrava che ci fosse dell’elettricità
nell’aria. Kalidwa pativa
l’elettricità, le dava dolori muscolari e mal di
testa: sperava fosse solo una sensazione e niente di
più.
Si
mossero con discrezione, evitando luoghi particolarmente affollati e
tutte le guardie che incontravano, fino a che non arrivarono davanti ad
un enorme cancello finemente lavorato. Contrariamente a come aveva
immaginato, la reggia non si trovava sul limitare della
città, bensì nel suo cuore, nel centro perfetto.
Invece, notò la somiglianza con il castello che aveva visto
più volte, quello a cui era più affezionata. Lo
sfarzo e la passione per le architetture complesse dovevano accomunare
tutte le razze, pensò.
Grandi
torri circondavano la struttura principale, il tutto immerso in un
prato di un verde che non aveva mai visto prima.
Una
guardia li fermò all’entrata.
«Presentazione e motivo.»
«Io
sono Kole e
ho con me un’esponente.»
La
guardia inarco un sopracciglio scuro e lo guardò
dall’alto in basso, scettico. «La punizione per
aver affermato il falso in circostanze ufficiali è la
tortura. Ne sei consapevole?»
Kalidwa rabbrividì
dalla paura. La tortura? Per una bugia? Erano completamente pazzi.
«Molto
bene. Generalità e razza dell’esponente,
generalità e razza del presentatore.»
consegnò due fogli ai ragazzi, e ognuno compilò
il proprio.
Kali sentiva
le gambe fremerle, come se stesse per svenire da un momento
all’altro. Doveva ritrovare la sua determinazione e tornare
in sé, o avrebbe combinato un disastro. Riempì il
modulo e si guardò intorno: altre persone si stavano
avvicinando, tutte coppie proprio come loro. Non riconosceva tutte le
razze, ma doveva essere una riunione importante.
«Sempre
dritto, poi il presentatore girerà e l’esponente -
» abbassò
lo sguardo sul modulo e sgranò gli occhi. «la
sirena entrerà dalla porta principale.»
«Qualche
problema?» domandò Kole,
forse con un tono un po’ troppo aggressivo.
«Non
avevo mai visto una sirena dal vivo.»
Lei
allora sorrise e si scostò la stoffa dal volto, per farsi
osservare meglio. «Buona giornata.»
augurò, dolcemente.
La
guardia sembrò rimanere basita. Li fece passare e loro
continuarono il loro percorso, in silenzio, ognuno immerso nei propri
pensieri. Ogni passo che facevano li portava più vicino al
compimento del loro destino e Kali faceva
davvero fatica a trattenersi di dirgli che cosa aveva scoperto, durante
quella notte. Prima doveva risolvere il problema della guerra, poi
avrebbe risolto anche quell’affare.
Arrivarono
davanti al portone centrale, di un legno chiaro e spesso, e Kole si
voltò a guardarla negli occhi. «Grazie, Kalidwa.
Grazie davvero.»
«Dopo
la riunione… io dovrei parlarti di una cosa. Ti chiedo di
aspettarmi qui, è importante.» annunciò
con voce grave.
«Farò
il possibile per esserci.»
Kalidwa si
aprì in un largo sorriso e lo abbracciò con
slancio, tirandolo leggermente su. «Allora… a
dopo.» disse, poggiandolo di nuovo a terra.
«Vado a salvare il mondo.» prese un profondo
respiro e aprì il portone.
Si
girò per chiedere di cosa fosse dispiaciuto, ma Kole era
scomparso. l’aveva lasciata sola.
Due
donne la presero per le braccia e le misero degli strani bracciali ai
polsi, trascinandola con forza per i corridoi. La spinsero su una rampa
di scale, la portarono in quella che sembrava essere una cella in tutto
e per tutto e la chiusero al suo interno.
Non
aveva avuto neanche il tempo di dire niente o spiegarsi, era stata
imprigionata. Non si era ribellata, non aveva urlato, aveva solo subito
il trattamento come fosse stata impietrita.
«Ci
dev’essere stato un errore! Io sono qui per la riunione! Non
sono una criminale!» urlò non appena si rese conto
di essere lì ingiustamente.
Un
risolino attirò la sua attenzione e si sforzò di
guardare al di là del corridoio, dove stava
un’altra grata, e quindi un’altra cella.
«Che
cosa c’è da ridere.»
«Non
sono una criminale… c’è stato uno
sbaglio… qui nessuno si è sbagliato. Sei
un’esponente. Questo è il posto degli
esponenti.»
Kali non
riusciva a capire chi stesse parlando, non riusciva neanche a vederlo.
«Chi sei tu?»
«Sono
esattamente come te. Ma non ti preoccupare, fiorellino, il Re ti
riceverà.»
«Non
capisco… la riunione, devo partecipare alla riunione, Kole mi
ha detto che il Re vicino vuole iniziare una guerra e-
perché stai ridendo?»
Era
una risata stridula, una risata malata, crudele. «Questo Kole ti
ha mentito. Ti ha portata al macello. Il Re di questa nazione
è crudele e sadico, odia ogni razza che non sia quella
umana. Ogni dieci anni aggiunge un pezzo alla sua collezione.»
«Sei
un oggetto. Se gli piacerai, starai qui, se non gli piacerai, ti
manderà alla gogna. È il nostro
destino.»
Kalidwa cadde
a terra, in ginocchio. Era tutta una bugia. Una menzogna.
Non
stava sacrificando la propria vita per un bene comune, non stava
salvando sua sorella, stava per morire per un folle. Per far parte di
una collezione… come se fosse stata un libro o un
gingillo.
Si
odiava per aver creduto a delle
simile menzogne.
Eppure in cuor suo lo sapeva che mentiva: aveva fatto finta di niente
solo per credere che il suo destino fosse importante. Per amore
proprio, insomma.
Eppure
ecco la conferma ufficiale del fatto che non valeva niente, che il suo
patrigno aveva sempre avuto ragione a non volere che si mescolasse con
la sua famiglia.
Si
odiava. Si odiava con tutta se stessa.
Sperava
solo che il Re la uccidesse, per non provare più quella
vergogna.
Kole camminava
lentamente. Aveva detto che ci sarebbe stato, ma aveva mentito.
Gli
stava risultando fin troppo facile, doveva ammetterlo, e non li piaceva
affatto. Era passata qualche ora, però si stava allontanando
dalla reggia quasi controvoglia: sperava che Kali ne
uscisse in fretta, dicendogli qualcosa come: “sono riuscita a
fuggire e ti perdono”, ma sapeva che fosse del tutto
impossibile. Forse era anche già morta.
Sentì
un rumore sordo, la terra gli tremò sotto ai piedi e si
voltò spaventato verso la reggia.
Senza
pensarci due volte iniziò a correre a perdifiato, come aveva
fatto pochi giorni prima. Scavalcò persone che urlavano e
schivò guardie con le lance puntate per non far avvicinare
nessuno. Le falcate erano lunghe e dolorose, i polmoni facevano male,
bruciavano, ma doveva sapere che Kalidwa non
fosse morta.
Non
sapeva neanche che cosa fosse successo, vedeva del fumo che usciva
dalle torri delle prigioni reali e man mano che si avvicinava sentiva
il terrore che lo pervadeva.
Aveva
strappato quella ragazza alla sua vita dicendole un sacco di bugie,
solo per salvare se stesso
e sua madre, e ora lei era molto più in pericolo di quanto
non sarebbe dovuta essere.
Si
intrufolò nel castello, complice il parapiglia dovuto
all’incendio, e corse su per le scale, quasi divorandosi i
gradini.
Le
celle erano vuote. Le controllò tutte, dalla prima
all’ultima.
Scese
di nuovo e la cercò in ogni stanza, gridando il suo nome,
finché non si ritrovò nella grande sala: le
guardie stavano cercando di proteggere il Re, circondato da una serie
di “esponenti” inferociti, armati con qualsiasi
cosa avessero trovato. Scandagliò ognuno di loro, cercando
la famigliare pelle perlata, ed eccola lì che brandiva un
lungo bastone, sporca di sangue che non era il suo.
Si
sentì il fiato mancare.
Kalidwa era
una ragazza che si stupiva del perché un animale scappasse
alla sua vista, o del perché i soli illuminassero fino a
terra, ora stava combattendo per la sua vita, come lui avrebbe dovuto
fare molti anni prima.
La
giovane si voltò a guardarlo per un solo momento, poi
tornò alla sua battaglia. Le guardie attaccarono e Kole non
poteva fare altro che osservare disperato. Non era un guerriero, non
era un combattente, era un ladro e un imbroglione, non poteva fare
niente per aiutarli.
Poi
guardò il lampadario in alto. Se solo fosse riuscito a
saltare fino a lì, se solo fosse stato in grado
di… di farlo cadere a terra, avrebbe salvato tutti, avrebbe
salvato Kalidwa e
avrebbe salvato il regno.
Respirò
profondamente per un paio di volte, recuperò la
concentrazione, e tutto intorno a lui parve silenziarsi. Sentiva il
rumore del suo cuore che batteva e il fiato che passava attraverso i
denti.
Saltò.
Si appese al lampadario di cristalli preziosi senza essere visto e
iniziò a calciare con tutta la forza che aveva sul gancio
che lo teneva appeso. Calciò e calciò, in preda
al panico, sperando che si trovasse soltanto il Re sotto di esso. Non
voleva vittime innocenti, non voleva fare del male a nessuno!
Il
lampadario cadde e si frantumò, il Re sotto di esso con
un’espressione sorpresa.
Qualche
guardia cercò di strisciare fuori, ma gli esponenti le
presero a bastonate senza riguardi.
Successivamente
alzarono gli occhi al cielo, vedendo un ragazzino smilzo appeso alla
catena.
Kole si
lasciò cadere solo quando vide che Kali si
stava rialzando, piena di graffi, ma tutta intera. Non aveva forze per
ammortizzare l’impatto, probabilmente si stava buttando tra
le braccia della morte.
Sarebbe
andato bene così, comunque. Aveva deluso sua madre, aveva
mentito ad un’innocente: almeno, se fosse morto, non avrebbe
più fatto danni di cui si sarebbe pentito.
Un
battito d’ali lo riportò alla realtà e
aprì gli occhi non appena sfiorò il terreno con i
piedi. «Perché?» chiese,
allibito.
«Perché
sei come noi.» disse il giovane uomo che l’aveva
salvato, ripiegando le sue ali sulla schiena.
«Il
Re è morto.» sussurrò
un’esponente. E poi un altro, e un altro ancora, e nella sala
si alzò un vociare rumoroso.
«La
ribellione si è compiuta, amici miei.»
l’uomo con le ali camminò sul lampadario,
posizionandosi proprio al di sopra di esso. «Il Re
è stato abbattuto. Per le leggi di questo popolo, il suo
diretto successore sarà il nuovo sovrano, e benchè non
sia grande abbastanza per regnare da solo, noi gli faremo da
consiglieri. Siamo stati seviziati per anni da quest’uomo:
meritiamo giustizia!»
«Uccidiamolo!»
una donna alzò la voce sopra tutti, e Kole tremò.
«Uccidiamo tutti gli umani che ci hanno ferito! Uccidiamoli
tutti!»
«Noi
non uccideremo nessuno.» disse l’uomo, mettendola
immediatamente a tacere. «Creeremo un mondo in cui gli umani
e le altre razze vivranno in pace e in armonia, educando il figlio del
Re all’accettazione. Perché è questo
che vogliamo, essere accettati e vivere senza la paura di una guerra
imminente ogni volta che apriamo gli occhi. Gli umani hanno distrutto
le nostre vite, noi saremo migliori.» decretò.
Kole fece
per allontanarsi, aveva tante cose da spiegare a Kalidwa,
non aveva tempo da perdere, ma quell’uomo lo
trattenne.
«Giovane
guerriero, come ti chiami?»
«Io…
io sono Kole e
non sono un guerriero, te lo assicuro…»
sbiancò, ingollando la saliva per l’ansia.
«Desideri
essere un nostro alleato, un consigliere del futuro Re?»
«No!
No, non sono degno.» guardava ovunque fuorchè negli
occhi di quello strano individuo dalla carnagione verdastra e le iridi
colore delle pesche mature.
«Che
mia madre riacquisti il suo nome. Non desidero altro. Voglio solo che
non esistano più i Senza Nome.»
L’uomo
annuì elegantemente. «Molto bene. Sarà
fatto. In onore del giovane che ha ucciso il Re, elimineremo
quest’assurda usanza.»
Sbatté
le palpebre e spalancò la bocca. Aveva vinto. Aveva salvato
sua madre!
Si
spostò velocemente, mentre il nuovo leader continuava a
parlare di quello che avrebbero fatto e prese Kalidwa per
una mano, trascinandola fuori dalla sala.
«Beh,
adesso ti parlo io invece. Mi hai mentito, mi hai detto delle cose solo
per portarmi qui e vendermi al Re! Lo sai cos’avrebbe fatto?
Lo sai che cosa mi sarebbe successo?»
«Io…
sì, ma non avevo scelta, per mia madre dovevo-»
«Io
non sono pura, Kole!
Non sono una sirena! Mi avrebbe uccisa immediatamente!»
Kole cadde
all’indietro, sconvolto. «Non…»
«Non
sono pura. Non sono nata da una sirena e un tritone, sono nata da una
sirena e qualcos’altro. Mi hai mentito, mi hai tradita, mi
hai venduta! E hai ancora il coraggio di guardarmi in
faccia!» urlò.
«Tu
volevi una sirena da vendere per il nome di tua madre. Ha pianto,
questa notte. Non sapevo perché, ma ora ho capito: suo
figlio è un mostro.» sibilò. Lo
sorpassò senza aiutarlo a rialzarsi, si tolse il sangue dal
viso con una mano e lasciò cadere a terra il lungo bastone.
«Torno a casa mia, da mia sorella. E non azzardarti a
seguirmi.»
Il
ragazzo si alzò in piedi e le prese il polso, lei lo
strattonò. «Aspetta Kali,
posso spiegarti tutto.»
«Non
c’è niente da spiegare. Mi hai venduta. Hai
venduto tua sorella. Oh non fare quella faccia: siamo simili, te
l’ho detto. Mio padre è tuo padre, ho visto i
ritratti. Sei mio fratello. E io mi ero fidata di te fin
dall’inizio, pensando che fossi un disgraziato di buon cuore.
Ma non ce l’hai! Non ce l’hai affatto e io ti
odio.»
Kali allargò
le braccia, sorridendo in un modo angoscioso. «Sorpresa. Ora
non seguirmi. Non farti mai più rivedere.»
ordinò, e se ne andò definitivamente. Kole la
sentiva piangere, ma obbedì.
Come
aveva fatto a non rendersene conto. Era stato così
concentrato su di sé che non aveva capito, non aveva capito
niente.
Lahira guardò
sua sorella, un’espressione chiarissima in viso.
«No,
non lo farò mai entrare.»
La
ragazzina roteò gli occhi. «Perché
no?»
«Mi
ha mentito. E mentito. E mentito
ancora. Non ha fatto altro che tradirmi da quando è svenuto
sulla spiaggia e io l’ho
salvato. Io! Santo cielo, io l’ho salvato e lui mi ha
tradita!»
«Gli
hai chiesto perché l’ha fatto?»
Kali aprì
la bocca e rimase così.
«Io
non… non mi interessa!»
«Seguimi,
okay?» Lahira le
prese le mani e le strinse tra le proprie. «Se tu fossi
costretta a fare qualcosa che non vuoi, ma se da questa cosa dipendesse
una cosa importante. Tipo… tipo io. Se da questa cosa
dipendessi io, non saresti disposta a fare qualsiasi cosa?»
Kalidwa sbatté
le palpebre. «Io…»
«Tu
non ci penseresti due volte a fare qualsiasi cosa per me. E
l’hai fatto, sei partita per qualcosa di cui non sapevi
niente perché era giusto e perché sono certa che
dipendesse anche la mia esistenza.»
«Perché
sei così saggia?»
«Ho
imparato dalla migliore.» Lahira sorrise
angelicamente e le strinse l’occhio. «La
mamma.»
Kali rise
e la spinse piano, facendola scoppiare in una fragorosa risata di
conseguenza.
«Sei
la persona più coraggiosa che abbia mai conosciuto, e sei la
più buona in assoluto, e sacrificheresti qualsiasi cosa per
me e per fare la cosa giusta… lui potrebbe aver dovuto fare
delle cose brutte, per te, ma che avrebbero potuto salvare qualcuno di
molto importante per lui. Dovresti vedere le cose dalla sua
prospettiva.»
Kali sospirò
e si voltò a guardare sulla spiaggia. Aveva lasciato Kole per
sei giorni lì, da solo. Aveva anche diluviato. E lui era
rimasto lì, immobile. Non si era avvicinato, né
aveva tentato di parlarle, non si era mosso. Stava evidentemente
aspettando che fosse lei a muoversi, perché lei aveva detto
di non voler essere seguita. Se solo pensava a tutta la storia si
sentiva male, ma parlando con sua sorella per la terza? Forse quarta
volta, stava iniziando a capire come mai si fosse comportato in quel
modo.
Non
tutti reagivano allo stesso modo alle difficoltà, molti
reagivano con la paura, facendo errori e ferendo gli altri. Non voleva
dire che fossero persone malvagie, però.
«Andrò
a parlargli. Non prometto che verrà a vivere sulla
palafitta, ma gli parlerò.» parlò
piano, con la voce bassa e dura. Non voleva che usa sorella si
affezionasse a Kole come
si era affezionata lei, per poi essere tradita.
Scese
le scalinate, camminò sulla sabbia fredda a piedi nudi,
illuminata solo dal bagliore delle lune. Man mano che si avvicinava,
percepiva sempre di più la voglia di tornare indietro e
lasciarlo a marcire ancora un po’, ma andava avanti, passo
dopo passo.
Si
ritrovò presto davanti a lui e gli porse la mano.
«Hai
ragione. Non ho scusanti.»
«Lo
so. E non ti scuso. Mia sorella è una persona
intelligentissima, mi ha fatto vedere le cose in un modo diverso. Sono
ancora arrabbiata… però devo chiederti una cosa.
Perché?»
«Mia
madre… mia madre sarebbe stata salva. Il suo nome sarebbe
stato riaccettato e sarebbe tornata ad essere una cittadina
normale.»
Kali roteò
gli occhi al cielo, si sedette pesantemente di fianco a lui.
«Mia sorella è tutta la mia vita. Se qualcuno la
minacciasse, farei di tutto per salvarla. Lo capisco,
davvero.»
«Non
volevo mentire. Né tradirti.»
«Hai
dovuto. Ma non azzardarti mai più a comportarti
così. La prossima volta mi spieghi, mi parli e troviamo una
soluzione insieme.»
Kole la
guardò con gli occhi sgranati. Kali lo
sapeva, anche se stava fissando il mare. «La prossima
volta?»
«Sei
figlio di mio padre. Chissà quanti ce ne sono, come noi in
giro per il mondo… che si sentono soli e disperati. Abbiamo
avuto la fortuna di incontrarci e conoscerci.»
«Vorrei
stare qui. Con te e Lahira.
Mia mamma non ha più bisogno di me, può vivere
una vita libera dal fardello del bastardo…»
Kalidwa si
voltò verso di lui e sorrise. «Ti
piacerà mia sorella. Ma se ti azzardi a trattarla come hai
fatto con me ti sgozzo senza riguardi.» disse, candidamente.
Si mise in piedi, si scosse le vesti e gli porse la mano.
«Benvenuto nella tua nuova vita, Kole.»
il ragazzo la afferrò e si fece aiutare a rimettersi in
piedi. «Fratello.»
Forse
sarebbe stato difficile, e complesso, gestire due fratelli, ma sapeva
che era la cosa giusta.
«Andiamo,
ti presento Lahi,
è impaziente di conoscerti. È il momento della
storia.»
Kalidwa annuì
mentre tornava alla sua palafitta, che ora avrebbe dovuto imparare a
condividere. «Sì. Le racconto le storie che mi
leggeva papà… ma oggi credo che
cambierò.»
«Sai
già cosa raccontare?»
«La
storia di una ragazza che parte per salvare il mondo dalla guerra, con
un ragazzo svenuto davanti casa sua.»
Kole alzò
un angolo della bocca. «Sembra interessante.»
«Sicuramente
ha un finale… inaspettato.»
«Grazie, Kali…»
sussurrò lui, quasi sicuramente a voce troppo bassa per
essere sentito da orecchio umano.
«Hai
detto qualcosa?» chiese,girandosi un
poco.
Kole distolse
lo sguardo e scosse la testa.
Sarebbe
stata una vita intrigante. Gli avrebbe fatto passare ancora dei giorni
un po’ infernali, lo avrebbe perdonato e sarebbero stati una
famiglia.
Sì,
una famiglia nata in circostanze particolari, ma una famiglia a tutti
gli effetti.
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