Hello, Goodbye di Happy_Pumpkin (/viewuser.php?uid=56910)
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Questa
storia è per te, Ile. Non posso regalarti Klaus,
né disegnartelo
nei mille modi in cui vorrei, ma posso scriverci sopra e immaginarlo
vivere in queste righe, sperando che possa piacerti e fartelo
rievocare. Grazie per tutto quello che sei e che fai per me.
Hello, Goodbye
La macchina
percorreva gli ampi terreni asciutti del Kansas lungo la statale 400,
evitando punti di snodo troppo frequentati come Kansas City per una
breve sosta nella più tranquilla Wichita, fino alla meta
finale: Greensburg, una cittadina minuscola e ancora più
desolata; non che potesse essere qualcosa di diverso da un centro
svuotato, dato che anni prima un tornado l’aveva quasi
distrutta del tutto.
Ripensandoci,
a Diego Hargreeves veniva quasi da ridere. Una parte di sé
reputava ancora assurdo essere finito in un posto simile, tra tutti
quelli in un cui Klaus gli poteva proporre di dirigersi per saldare i
loro ‘legami fraterni e bladibladibla’ –
quelle più o meno erano state le sue parole con cui, prima
di sedersi in macchina, Numero Quattro aveva giustificato un viaggio
folle on the road tra motel pessimi e cittadine del centro
America, con le loro routine talmente consolidate da non
essere state sconvolte nemmeno da una Quasi-Apocalisse. Ma allo stesso
tempo, il giustiziere della notte si riteneva un idiota per
sorprendersi ancora delle scelte bizzare dell’altro, quando
invece doveva essere scontato
che andassero a finire in un posto tremendo, inospitale e senza una
ragione logica dietro per meritare un viaggio di chilometri e
chilometri.
Infatti, in
realtà Diego aveva un bel po’ di dubbi sulla
possibilità che realmente suo fratello fosse interessato a
tutta la faccenda del rinsaldare i legami, soprattutto quando, diverse
settimane prima, gli si era avvicinato con un paio di occhiali da sole,
l’aria circospetta e troppo seria, per chiedergli di trovare
una persona usando i suoi contatti
speciali. A dire il vero, in principio Numero Due aveva
opposto
un netto rifiuto, anche se poi alla fin fine aveva comunque
ceduto: preso da una sorta di senso di curiosità misto a uno
di prudenza, non sapendo che genere di gente Klaus potesse cercare,
aveva chiesto un po’ in giro fino a ricevere in busta chiusa
la risposta.
Quando aveva
provato a sbirciare dopo averla consegnata al fratello con aria molto
compassata, di quelle da eroe in borghese che Diego amava assumere in
quei casi, Klaus aveva mosso l’indice, ribadendo che doveva
prima leggere lui e farsi un’idea. E se Greensburg, paese
devastato nel mezzo del nulla, era la sua idea, Diego sperava
sinceramente che da lì in avanti Numero Quattro non dovesse
averne altre.
Quest’ultimo
era seduto coi piedi nudi sul cofano, con grande disappunto
dell’altro, addosso un paio di pantaloni larghi in stile
etnico e una canotta azzurra che non c’entrava nulla. Mentre
andava la compilation di Donna Summer, teneva il gomito sulla portiera
dal finestrino aperto e seguiva la corrente con la mano facendo le
onde, lo sguardo perso verso l’orizzonte desertico del
Kansas. Con l’altra mano ogni tanto tamburellava a tempo
sulla coscia, mimando qualche parola con le labbra.
Dopo avergli
lanciato un’occhiata, Diego gli fece presente, con quel fare
vagamente di fraterna superiorità:
“Guarda
che se facciamo un incidente e sei messo in quel modo le ginocchia ti
finiscono direttamente in gola.”
Aveva fatto un
mezzo sorriso perché, comunque, l’intera faccenda
faceva anche piuttosto ridere. E Donna Summer non aiutava.
Klaus
sollevò le spalle per poi guardarlo, con il braccio fuori
dal finestrino sospeso a mezz’aria. Poi sorrise e
annuì, ammettendo: “Guarda che una
volta...”
“No
– continuando a guardare avanti, Diego si limitò a
sollevare un indice – non voglio sapere. L’unica
cosa che mi interessa è capire se finalmente mi dirai cosa
stiamo andando a fare dopo una settimana di viaggio. E non mi rifilare
una delle tue stronzate da fratelli perché so che
c’entra qualcosa quella busta con le informazioni su questa
tizia” gli disse, anticipando l’altro che stava
già mettendosi una mano sul petto per una delle sue
enunciazioni cinematografiche piene di dramma.
“Mi
sono leccato le ginocchia messo così” riprese a
dire Klaus tranquillo, annuendo come se fosse davvero importante.
“Cos...
che c’entra?”
“La
pelle ha un gusto diverso, sarà che è
più ruvida, sai, vissuta. Oh, dai, questa è
fantastica, la mia preferita.”
Fece per
alzare il volume sulle prime note di Hot Stuff ma Diego
lo schiaffeggiò e lui la ritrasse, facendo una smorfia per
poi agitarla appena come se bruciasse: “Ehi! Devi fare
qualcosa per il controllo della rabbia che ti porti dietro e ti
consuma, Diego; un giorno sono io a subirne le conseguenze, quello
dopo... chissà!”
“Piantala
di dire idiozie, manca un’ora, puoi farcela in
un’ora a dirmi chi è Annie Glickman?”
Gli
lanciò un’occhiata quando glielo chiese e Klaus
richiuse le labbra, scombinandosi un istante di capelli per poi
riprendere a guardare fuori dal finestrino e rispondere, stringendo
l’altro braccio sotto il gomito, quasi accoccolandosi sul
sedile: “Una persona alla quale devo restituire una cosa.
Sai, dopo che il compleanno di Kenny è andato a scatafascio
e l’Apocalisse ha quasi distrutto la Terra, era giunto il
momento che facessi una cosa rimandata da un po’ troppo
tempo.”
Diego fu in
procinto di chiedergli altro, ma quelle volte in cui Klaus tendeva
morbidamente a perdere la sua verve pungente, l’altro capiva
che era inutile sbatterci ancora la testa sopra e lasciarlo invece
smaltire la malinconia momentanea. Lo vide lanciare
un’occhiata dietro di sé, per poi riprendere a
fissare l’orizzonte con la testa appoggiata vicina al
finestrino; Diego aggiustò lo specchietto retrovisore e
immaginò di poter vedere Ben, la sua compagnia silenziosa in
quel viaggio un po’ assurdo con una meta ancora
più misteriosa.
Si chiese chi
fosse quella donna a lui sconosciuta e cosa, nella sua vita borderline,
Klaus avesse da restituirle.
Mentre Donna
Summer continuava a cantare, Diego pensò che forse non era
esattamente impaziente di conoscere la risposta.
***
Klaus
tirò fuori una mappa presa in una delle prime stazioni di
servizio in cui erano andati una volta intrapreso il viaggio, quindi
ormai stropicciata, macchiata da caffé, bevande zuccherate,
una caramella spiaccicata e qualcosa che forse erano i resti di un
marshmellow, beni di prima necessità per tenersi su quando
arrivavano troppo tardi in motel e non c’erano consegne a
domicilio nel mezzo del deserto sperduto.
“Qui,
gira qui, su, su” lo incoraggiò sbattendo un paio
di volte le mani, per poi sporgere la testa oltre il finestrino,
assottigliare gli occhi per il vento ed espirare in
profondità, consapevole che ormai c’erano.
Diego
roteò gli occhi, lasciandogli credere che davvero Klaus
potesse avere capacità decisionali o di guida in tutta la
faccenda, poi svoltò e si trovò in un viale
piuttosto ampio con al fondo una casa dalle pareti bianche, il tetto
blu scuro e un porticato su cui c’erano delle sedie dello
stesso colore e un tavolino.
Vide che il
fratello muoveva la gamba sinistra e forse inconsciamente si
mordicchiava l’unghia del pollice.
“Ehi,
sicuro sia questo il posto?” gli domandò,
abbassando appena la testa come per vedere meglio il luogo attraverso
il parabrezza un po’ impolverato.
Klaus strinse
i denti, si grattò il pizzetto e finì per far
scivolare lentamente le dita fino alla guancia, stropicciandosi
così parte del volto: “Uh-uh, sicuro.
Così sicuro da farmi quasi paura. Sai quando sei consapevole
di aver ragione, ma allo steso tempo temi quel – strinse
l’altra mano a pugno, con verve – sì,
quel momento fatale in cui ti pentirai di averla avuta?”
Diego lo
fissò un istante, poi fece un mezzo sorriso di presa in
giro, sollevando entrambe le sopracciglia con aria di ulteriore
scherno: “Non mi dire che hai... paura?”
Klaus
sgranò gli occhi, per poi portarsi la mano al petto con
indignazione: “Io paura? – scosse la testa,
scacciando l’immagine con un gesto della mano e una scrollata
di spalle – Paura, ah.”
Annuì
un paio di volte, mostrando a sua volta un mezzo sorriso scettico, per
poi umettarsi le labbra e riprendere ad annuire, guardando fuori dal
finestrino: “Sai, a ben pensarci a Greensburg non
c’è nulla di davvero interessante, un paio di
case, un diner – gesticolò fingendo sorpresa
– uh, wow, un benzinaio e... Diego?”
Sussultò,
riportando i piedi sul tappetino dell’auto quando, dopo aver
sbattuto la portiera, vide Numero Due intento a incamminarsi verso la
casa al fondo del viale, avvisandolo: “Se non ti muovi le
vado a suonare io.”
Dopo aver
aperto e chiuso la bocca una volta, Klaus si girò rapido
verso i posti dietro guardando Ben che, a braccia incrociate, lo
fissava di rimando; poi si lamentò e fece una smorfia con
cui storse la bocca: “Oh, cazzarola, dai, non dirmi che lo
sta facendo davvero.”
Ben si sporse
in avanti, attese un istante, poi annuì:
“Sì, lo sta facendo davvero. Ti conviene
andare.”
Klaus
sbatté una mano sulla portiera, per poi agitare le braccia
come per contenere un’esplosione “Santo santissimo
Gesù e famiglia felice, perché?”
Ma quando lo
disse aprì la portiera, si capicollò fuori
dall’auto facendo cadere la borsa a tracolla di Masha e Orso,
la raccolse, fece per chiudere a sua volta la porta, per poi sbottare:
“Cazzo, cazzo...”
Recuperò
le ciabatte, saltellando mentre avanzava se le mise ai piedi ed
esclamò: “Diego! Ehi, ehi – lo
raggiunse, prendendogli un braccio con l’atteggiamento di chi
doveva sedare un orso – tutta questa storia di Annie,
Greensburg, dai, lo ammetto: era un pretesto idiota per viaggiare
assieme, vedere posti nuovi, che bisogno c’è
adesso di fare tutta la scena dell’uomo macho, yeah, che cammina tutto
così” lo scimmiottò,
gonfiando i pettorali mentre incurvava la schiena e abbassava il mento.
Diego si arrestò, lo afferrò per la canotta e
ribadì, esasperato:
“Ora
dacci un taglio. Questa – continuando a guardarlo
puntò il dito verso l’abitazione –
è casa di Annie Glickman, vero? Bene. Sei un uomo, giusto,
fratello?”
Klaus
gesticolò, portandosi una mano dietro il collo:
“Beh, sì più o meno, anche se
tecnicamente...”
Ma
l’altro non gli permise di concludere, lasciando la presa per
poi dargli una pacca sul petto, quasi come per risistemargli la canotta
stropicciata: “Ora vai là a testa alta e combatti,
l’hai già fatto, no?”
Numero Quattro
si umettò un labbro, poi annuì, lentamente ma con
maggiore convinzione: “Già fatto. Sì.
Un sacco di volte. Ehi, nemmeno ti sto a dire quante.”
Espirò,
poi si prese le medagliette di riconoscimento nascoste sotto la canotta
e le baciò chiudendo gli occhi, quasi come se le stesse
respirando un’ultima volta. Le lasciò andare sulla
propria pelle, rimettendole al loro posto, infine fece dopo un paio di
saltelli sul posto come un pugile prima di un incontro.
Prese una
sigaretta dalla borsa a tracolla, se la mise in bocca e la accese,
inspirandone una grande boccata; la tirò via prendendola tra
medio e anulare, espirando una nuvola di fumo con Diego che, un
po’ impaziente ma silenzioso, con le braccia incrociate
attendeva.
Fatti un altro
paio di tiri, Klaus spense la sigaretta contro uno dei cartelli ormai
vecchi di agenzie immobiliari per case in vendita mai comprate e la
buttò nel cestino di fianco. Si dette qualche schiaffo sulle
guance, aprendo e chiudendo gli occhi mentre faceva dei versi
propiziatori, poi scrollò spalle e braccia e
annunciò:
“Sono
pronto. Facciamolo. Woah.”
Sbuffò
facendo vibrare le labbra e avanzò, seguito da Diego che,
dopo aver roteato gli occhi, borbottò: “Era
ora.”
Ma quando
furono di fronte al porticato, vedendo Klaus irrigidirsi
progressivamente, Diego rimase in allerta. Non sapeva che genere di
gente potesse aver frequentato suo fratello e, dati i trascorsi,
dubitava che fossero persone tranquille. Nel caso si era portato dietro
i suoi coltelli: se quella tale Annie avesse provato a fare qualcosa di
strano l’avrebbe messa k.o. prima di subito.
Con un cenno,
Diego incoraggiò Klaus che l’aveva guardato con
un’occhiata espressiva delle sue; dunque Numero Quattro fece
un respiro profondo, ebbe tempo di pensare di essere troppo sobrio, e
preoccupato, e nostalgico e triste, per poi salire i due scalini del
porticato e suonare il campanello.
Si
guardò i piedi, infine sentì un rumore di passi;
schioccò la lingua, sollevando l’indice:
“Sai, credo di aver dimenticato le penne multicolor in
macchina, arrivo” fece per fare retrofront ma, senza parlare,
con un gesto brusco Diego lo rigirò verso la porta che nel
frattempo si aprì.
Numero Due
avrebbe potuto aspettarsi ogni genere di persona con il nome di Annie e
conosciuta da Klaus, ma fu del tutto impreparato a ciò che
vide, al punto che quando si presentò davanti a loro una
signora ormai in là con gli anni, con addosso un vestito
morbido, i capelli legati e un sorriso un po’ curioso sotto
gli occhiali, il giustiziere dell’Umbrella Accademy rimase
bloccato con la bocca semiaperta e il braccio che ancora stringeva la
canotta di Klaus per farlo girare.
Questi
sollevò una mano in gesto di saluto, fece un mezzo sorriso a
denti stretti e salutò: “Buongiorno, salve, yay!
La signora – fece una breve pausa –
Glickman?”
Quest’ultima
sollevò un sopracciglio ma accennò una risata:
“Prima che mi sposassi sì. Voi chi
siete?”
Guardò
anche Diego che produsse un’espressione da pesce
boccheggiante, mentre Klaus diede un colpo di tosse e
gesticolò un istante prima di dire con tono di chi sembrava
di sapere quello che stava facendo:
“Felice
che me l’abbia chiesto – mosse un dito in avanti
come per pregarla di attendere, poi abbassò lo sguardo verso
la borsa, scartabellandoci dentro con l’altra mano fino a
far spuntare un block notes – sono un ricercatore
universitario. Klaus Hargreeves. Un onore immenso e profondissimo
conoscerla, signora.”
Nonostante
usasse termini esagerati come sempre, sembrò davvero
contento di incontrarla. Le tese la mano e quando la signora, un
po’ perplessa, gliela strinse sporgendo la propria, lui la
tenne anche con l’altra mano, sorridendole persino con
affetto.
“Piacere
mio signor... Hargreeves. Mi sembra di aver già sentito
parlare di lei.”
Per un istante
Klaus fece un sorriso più commosso, poi sollevò
le spalle, come se fosse abituato a essere riconosciuto:
“Probabile. Le mie ricerche di… storia americana
sono piuttosto famose in ambiente accademico.”
Diego lo
guardò sgranando gli occhi, con l’espressione che
stava platealmente esclamando Stai
dicendo un mucchio di cazzate. Ma Klaus gli fece un cenno
a denti stretti, allargando gli occhi come per esortarlo ad andargli
dietro ed evitare di cambiare rotta, per quanto improbabile.
Quindi quando
la signora si rivolse verso numero Due, dopo aver esclamato:
“Oh, un ricercatore, che cosa curiosa! E lei
è?”
Diego non
riuscì a far altro che balbettare qualcosa ma con
l’aria convinta di chi stesse per dire una frase importante,
sbattendo un paio di volte le palpebre, così che Klaus gli
batté qualche pacca sulla spalla con fare magnanimo:
“Lui è il mio assistente. Diego –
scandì il suo nome, quasi come un professore con troppi
allievi da ricordare – mi segue per completare la sua tesi;
sa, mi piace che i miei studenti possano fare esperienza sul campo, la
storia che parla, ci credo un sacco. È così, così importante.”
La signora
annuì lentamente, quasi stesse cercando di capire il filo
del discorso senza perdersi, guardò entrambi poi
confermò, aggiustandosi gli occhiali:
“Sì, certo, è un ottimo principio
Professor Hargreeves. Sembrate parecchio giovane, dovete avere
lavorato sodo e avere grande passione per gli studi che fa.”
Klaus si
portò una mano al petto, socchiudendo un istante gli occhi
mentre replicava accorato: “Tantissima passione, signora, non
ne ha idea. Tantissima. Vivo per questo.”
Annuì
un paio di volte con un sorriso saggio e di grande convinzione, anche
se aveva pantaloni etnici slargati, delle ciabatte da quattro soldi e
una borsa a tracolla in plastica di Masha e Orso. Diego
assottigliò gli occhi, guardandolo come aspettandosi che
scoppiasse una bomba da un momento all’altro, ma rimase zitto.
La signora
invece parve esserne stata colpita, o forse era una grande fan di Masha
e Orso, dunque annuì comprensiva e si scostò,
domandando:
“Deve
fare un’intervista su qualcosa? La avviso che non sono una
grande esperta di storia, farei delle figuracce.”
Ma Klaus si
umettò un istante le labbra prima di scuotere la testa e
tranquillizzarla con quel fare morbido che gli apparteneva, come se
parlasse a un bambino o a un cucciolo di cane: “No, no, anche
io non avessi studiato tutto quel tempo sarei così
profondamente ignorante, immerso nella cieca oscurità del
non sapere, stia tranquilla. In realtà – trasse un
breve sospiro, poi ammise – la mia ricerca è molto
specifica e credo che lei mi possa aiutare: stiamo ricostruendo il
periodo degli anni sessanta sul fronte... geopolitico, sociale, le
famiglie dell’epoca.”
Disse qualche
altra parola a caso ma con quell’atteggiamento esperto di chi
vendeva aria fritta, per poi massaggiarsi appena il labbro, mettendo
l’altra mano sotto il gomito. La signora gonfiò un
istante le guance, come per trovare una risposta all’altezza,
poi si limitò a dire annuendo: “Beh, oh, certo,
capisco, proverò a esserle d’aiuto. Prego,
entrate, vi offro una tazza di caffè e una torta alle
mele.”
Klaus
espirò brevemente per poi annuire, gli occhi che si
illuminarono: “Torta alle mele – con un gesto
italiano si baciò le dita congiunte – la mia
preferita. Grazie, lei è un angelo sceso in terra,
signora.”
Quest’ultima
ridacchiò per poi invitarli ad entrare e incamminarsi. Klaus
lanciò uno sguardo a Diego, sollevando entrambe le
sopracciglia come a dire visto?
Fila tutto liscio, e questi inarcò un labbro in
una smorfia a metà tra il confuso e l’irritato:
“Un
ricercatore universitario?” domandò rapido, quasi
un sibilo.
“Professor
Hargreeves, prego” lo corresse Numero Quattro con espressione
compassata, aggiustandosi il pizzetto con gesti lenti della mano mentre
teneva l’altra sul ventre, quasi ci fosse un panciotto
immaginario da sfoggiare.
Diego avrebbe
voluto dirgli tante cose, ma l’unica che ritenne opportuno
fare presente fu uno scettico bisbiglio: “Sei sicuro di
sapere quello che stai facendo?”
Klaus
sembrò fare un paio di conti, per poi ammettere con una
certa tranquillità, guardando un punto indefinito davanti a
sé come se stesse scrutando l’orizzonte:
“All’incirca. Sono più tipo da...
improvvisazione teatrale – poi riprese a fissare
l’altro – andiamo, tesista Diego, veloce, su, la
vita universitaria è come ottenere la polizza sanitaria qui
in America: una strada irta e piena di ostacoli.”
Gli
batté una pacca sulla spalla per poi avanzare nel soggiorno,
con la signora Glickman che fece capolino dalla cucina con delle tazze
e dei piattini imbanditi da fette di torta:
“Prego,
accomodatevi.”
Diego vide
Klaus diventare all’improvviso silenzioso man mano che
avanzava, fino a muoversi quasi lentamente, con gli occhi grandi e la
bocca impercettibilmente aperta mentre era intento a guardarsi attorno.
Sembrava divorare con curiosità piena quelle pareti, i
quadri appesi, i libri, i soprammobili un po’ antichi e le
poltrone non proprio recenti che sapevano di casa in piedi da tempo,
nonostante le sventure e gli uragani. Lo scorse soffermarsi un istante
davanti a un muro con qualche vinile dei Beatles incorniciato,
mettendosi le mani nelle tasche larghe.
Si
voltò quando la signora appoggiò il vassoio e le
sorrise, congiungendo le mani per poi fare un breve inchino:
“Lei è troppo gentile. Effettivamente dopo il
lungo viaggio di oggi il pancino cominciava a brontolare,
yummi.”
Tamburellò poi le dita sulla pancia, come per confermare.
“Prego,
si figuri, è un piacere condividere. Sono sempre da sola,
avrei rischiato di buttar via la torta.”
Togliendosi le
ciabatte, Klaus si sedette a gambe incrociate sul divano, mentre Diego,
un po’ irrigidito, si schiarì la gola e si
posizionò al suo fianco, evitando di guardarlo come se
avesse a che fare con un caso da ricovero. La signora non parve
lamentarsi della posizione piuttosto comoda del Professor Hargreeves e
tese loro le tazze di caffé freddo, data la giornata calda,
infine lo invitò, mettendosi una mano sulla gamba
accavallata:
“Allora,
mi dica pure come posso esserle utile.”
Sorprendentemente,
Klaus guardò un po’ commosso la torta, la tenne in
grembo accanto a sé, e dopo un istante osservò:
“Le piacciono i Beatles – mosse le mani
sventagliandole – UK power.”
La donna
spostò gli occhi verso la parete con i dischi e fece una
risata, per poi ammettere: “Sì, mi piacciono
parecchio. Ma il vero appassionato era mio fratello.”
Klaus
sbatté un paio di volte le ciglia folte e con gentilezza
rispose, anche se sembrava già esserne a conoscenza:
“Ah, davvero? Deve avere un ottimo orecchio suo fratello.
Avere avuto” si corresse dopo un istante, abbassando una sola
volta gli occhi.
Diego lo
guardò, spostò il volto verso la signora e poi,
alle spalle di quest’ultima, notò un angolo molto
modesto ma vivido con delle foto in bianco e nero, una bandiera a
stelle e strisce e una foto più grande di un ragazzo in
divisa dal taglio elegante e il sorriso fiero eppure gentile. Gli si
bloccò un istante il respiro in gola.
“Sì,
mio fratello...”
“Ha
combattuto in Vietnam” la anticipò Klaus,
concludendo per lei come per venirle incontro in una pausa difficile.
La signora
sgranò gli occhi, stupita: “E lei come lo
sa?”
“Sono
uno studioso ricco di passione, ricorda? La storia è la mia
vita.”
La donna lo
guardò un istante, presa un po’ in contropiede. Si
portò una mano sulla bocca, quasi per raccogliere le idee.
Klaus
iniziò a dire, lanciando un’occhiata alle spalle
della donna, per poi tornare a guardarla: “La mia vita, yep.
E... quindi, per quest’intervista...”
Cercò
di trovare le parole, anche se era difficile. Tremendamente difficile.
Ogni tanto sentiva i fischi che gli assordavano le orecchie, i mortai e
le bombe che gli precipitavano addosso, e il mondo perdeva di colore,
diventando di luci improvvise e ombre ancora più scure,
spaventoso e terribile, un confronto peggiore di quello coi suoi morti.
Parlare di lui,
che in quelle luci, esplosioni e oscurità se n’era
andato, era ancora più difficile.
“Vorremmo
che ci raccontasse di David: conosciamo la sua storia e quella del suo
battaglione in Vietnam, alla fine degli anni sessanta, ma stiamo
raccogliendo le testimonianze per conoscere gli uomini dietro i
soldati. Spesso dimentichiamo che ci sono esseri umani nella
guerra.”
Intervenne
all’improvviso Diego, per poi guardare Klaus che a sua volta
lo fissò, con occhi diversi, occhi di un uomo che aveva
visto più di quello che sembrava e che se lo portava dietro,
nascondendolo nel petto.
La signora
Annie, con la sua gonna lunga, la camicia ordinata e i capelli
sistemati in maniera pratica, sorrise all’improvviso, le
rughe si distesero in pieghe morbide e gli occhi si illuminarono.
“Capisco.
Credo sia un’iniziativa bellissima. David ne sarebbe stato
felice.”
“Mi
fa piacere saperlo” commentò Klaus in un sussurro,
con un sorriso malinconico.
La donna
allora si alzò e andò alle proprie spalle,
prendendo il ritratto in divisa di David Glickman, il soldato che aveva
combattuto nella guerra del Vietnam. E che Klaus, nel ’68, in
un folle viaggio indietro nel tempo aveva conosciuto. E amato. Al punto
da non essere tornato indietro fino alla fine, fino a quando David in
quella guerra aveva perso la vita.
“Questo
è David. Era un bel ragazzo, così gentile. E
altruista.”
Porse la
fotografia. Klaus la sfiorò con le dita, mormorando con voce
un po’ rotta: “Già. Bellissimo. Aveva
l’aria proprio fiera. E nobile.”
Rimase a
guardarlo, senza però prenderla subito, come se avesse avuto
paura di rompere qualcosa. Lo fece allora Diego per lui e ammise:
“Avrei voluto conoscerlo.”
Lo disse poi
guardando il fratello, che gli fece un accenno di sorriso e
appoggiò il gomito sulla coscia, tenendosi il mento sul
palmo della mano, con le dita che in qualche forma gli sigillavano le
labbra compresse contro.
“Vi
avrebbe trovato molto simpatici. Anche se era un uomo di grandi
responsabilità sapeva divertirsi e far star bene le persone.
Oh, ed era un gran ballerino, avrei dovuto imparare di più
da lui” accennò a un sorriso. Fece lo stesso anche
Klaus, strizzando qualche volta gli occhi un po’ lucidi, ma
continuò a guardarla e ad ascoltarla parlare
dell’uomo che aveva amato, con la torta ancora in grembo e la
foto tra le mani di Diego, il quale con insolita delicatezza accorta la
appoggiò sul tavolo.
Così
Klaus sentì la sorella di David parlare del fratello
maggiore, di quando andavano nei campi del vicino per aiutarlo con la
raccolta delle mele e ne prendevano qualcuna in cambio, o quando prima
di arruolarsi l’aveva portata fuori a cena per chiederle
scusa e pregarla di tenere bene i suoi dischi.
“Sebbene
si siano sciolti poco dopo la scomparsa di mio fratello, non ho mancato
un solo album dei Beatles – precisò Annie
– quando Dave era al fronte, gli ho comprato io i successivi.
Li ascoltavo e cercavo di raccontarglieli in parole, nelle lettere che
gli spedivo da casa. Solo che le comunicazioni erano così
ritardate che nel frattempo l’album era già uscito
da un pezzo.
Suppongo di
essere stata una tipa ostinata: anche dopo che Dave ha perso la vita ho
continuato ad ascoltare i Beatles e, beh, ad abitare qui, nella casa in
cui siamo nati. Nemmeno i tornado sono riusciti a spazzarla via o a
farmi allontanare da qui.”
Accennò
a una risata che si spense piano, la morbidezza del crepitio di legna
consumata dal fuoco.
Klaus si
stropicciò gli occhi, annuì con le labbra un
po’ tremanti, poi sospirò, un sospiro di quelli
spezzati perché emotivi.
“Le
prendo dell’acqua, caro” offrì dopo un
istante la signora, comprensiva e con un sorriso materno.
Si
alzò, diretta in cucina.
Klaus si
sigillò gli occhi mettendosi i polsi sopra, sollevando le
braccia piegate. Rimase così un istante, gettando fuori:
“Forza. Sii l’uomo che sei.”
“Ehi,
Klaus” gli disse Diego, attento, mettendogli una mano sul
ginocchio dopo avergli poggiato il piatto sul tavolino.
Klaus
abbassò le proprie mani, scrollandole, per poi far lo stesso
con la schiena. Strizzò gli occhi e fece una smorfia che
ricordò un sorriso, per poi voltarsi verso il fratello e
dire con fare ancora così
innamorato:
“Era
davvero un grande, eh?”
“Lo
era” ammise Numero Due dopo un istante, stringendo di
più la mano sul ginocchio dell’altro, il suo modo
un po’ schivo ma sentito di sostenerlo.
Gli occhi di
entrambi caddero sulla foto in bianco e nero. Klaus trasse un profondo
respiro e la prese. La guardò, poi con l’altra
mano si portò le dita sulle labbra e infine le
appoggiò sul vetro, all’altezza della bocca
dell’uomo in divisa:
“Addio,
babe. Il tuo posto è qui.”
Il labbro gli
tremò e fece un sospiro che sapeva di pianto ma, nonostante
gli occhi lucidi, non pianse affatto.
Diego non lo
lasciò. Gli prese poi con gentilezza il ritratto e, quando
la signora rientrò con una caraffa d’acqua e dei
bicchieri, lo appese dov’era collocato, mostrando tutto il
rispetto di cui era capace nonostante il carattere brusco.
“Vi
aspetto fuori, se vuoi raccogliere le ultime cose”
annunciò. La signora lo salutò poi, sedendosi
sulla poltrona, guardò con fare gentile Klaus che
annuì e, dopo aver sentito la porta d’ingresso
chiudersi, strofinò i propri palmi sui pantaloni, rimettendo
i piedi a terra.
“Bene.
È stato un piacere immenso, grazie per averci parlato di
lui.”
Fece per
alzarsi quando la donna, con fare gentile, gli prese il polso e lo
fermò, chiedendogli:
“Lei
non è dell’università, vero?”
Klaus si
arrestò. Avrebbe potuto tirare fuori una delle sue
improvvisazioni un po’ arrancate e teatrali, ma vide il modo
in cui lo guardava Annie, come se avesse già saputo, e
allora senza pensarci ancora si mise l’altra mano sul cuore
per poi ammettere: “Colpevole. Mi ha scoperto.”
Annie non si
scompose, né perse il sorriso. Annuì, infine gli
girò il palmo sinistro con fare pacato, leggendo: “Goodbye. Avevo
notato i suoi tatuaggi, sono... particolari. Ma non credo sia
perché è fan dei Beatles.”
Numero Quattro
era consapevole di cosa significava quell’osservazione;
ciononostante si guardò l’altro palmo, togliendolo
dal proprio petto, poi fissò la signora e le disse,
d’istinto:
“Le
racconto una storia, per ringraziarla del suo tempo – una
breve pausa, nella quale si fissarono e il tempo non scorreva
– sono capace di evocare i morti. Ma ho paura di vedere le
persone che amo e che ho perso.”
Fece un
sorriso più ampio, come per rendere tutto uno scherzo o
ridurlo a uno dei suoi racconti stupidi di vita vissuta, anche se in
realtà aveva voglia di piangere. La signora gli strinse
con affetto la mano sinistra e non sembrò scomporsi. Aveva
anche lei gli occhi lucidi:
“Sentivo
che era una persona speciale. Ha una sensibilità diversa da
quella degli altri e credo... credo che abbia un dono difficile. Non
parlavo di David da anni, poi arriva lei e... – rise appena,
portandosi un dito sotto l’occhio quasi per togliersi una
ciglia – è stato come averlo salutato
ieri.”
“Oh,
non è un dono il mio, adorabile signora Glickman”
la corresse Numero Quattro dopo aver deglutito un istante, con quel
tono vibrante di tragica leggerezza che usava per allontanare ogni
merito da se stesso, nella propria inerte autodistruzione.
Annie
sospirò. Poi gli prese l’altra mano e
guardò entrambi i palmi, dicendogli all’improvviso:
“Hello, goodbye
è una delle mie canzoni preferite dei Beatles. Veda
così il suo dono – alzò gli occhi per
guardarlo e vide quelli attenti, carichi di emozioni
dell’altro inchiodati su di lei – tutti noi diciamo
addio a una persona quando la perdiamo. Ma tu, Klaus Hargreeves, puoi
ancora farla sentire benvenuta e... accompagnarla, fino alla casa che
ha perso e a cui non è più potuta tornare. Una
responsabilità e un privilegio, tramutare un addio in un
ciao.”
Klaus chiuse
gli occhi. Espirò. Poi Annie gli lasciò
lentamente le mani e sospirò a sua volta, aggiustandosi gli
occhiali.
A quel punto
Klaus abbassò lo sguardo sul proprio petto e tirò
fuori le medagliette di riconoscimento, tirandole via dal collo. Le
strinse un istante, poi fu il suo turno di prendere le mani anziane
della donna – mani che un tempo erano morbide e luminose,
come lo erano quelle di Dave – e metterle le medagliette in
un palmo, richiudendoglielo:
“Queste
appartengono a lui.”
La donna
abbassò gli occhi, aprì le dita con lentezza e si
portò le altre alla bocca, soffocando un mezzo singhiozzo.
“Come...”
Klaus
dilatò le narici, le sorrise e sollevò le spalle:
“Sa, col mio lavoro
giro parecchio tra veterani e centri dedicati alla memoria.”
Finse che
fosse una questione ordinaria e con un movimento un po’
impacciato si alzò in piedi, mettendosi alla buona la borsa
a tracolla per poi grattarsi la spalla col tatuaggio fatto al fronte.
“Klaus
– lo richiamò, alzandosi a sua volta –
aspetti.”
Questi si
voltò e la donna staccò una delle medagliette,
per poi tendergli la collana con l’altra ancora appesa:
“Questa
la tenga lei. Ovunque andrà, porterà con
sé un ricordo di David. Grazie per averlo riportato qui,
facendolo rivivere in questa casa.”
Klaus la
guardò, poi guardò la medaglietta.
Sbatté una volta le palpebre, infine annuì
stordito e prese l’oggetto, socchiudendo gli occhi.
D’istinto, la baciò, se la portò un
istante al petto e infine la rimise al collo.
“È
stato come averci parlato ancora.”
Senza
vederlo morto, con un buco nel petto. Ma... vivo, così vivo,
mentre raccoglieva le mele in una giornata di sole.
Le strinse la
mano con entrambe le proprie, chinandosi fino a mettervi sopra la
fronte, infine si rialzò:
“Grazie
a lei di tutto, Annie. Dave non sarà mai
dimenticato.”
“Lo
so. L’ho visto nei tuoi occhi” gli disse, dandogli
di nuovo del tu con affetto.
Quando lo
accompagnò alla porta, dopo averlo abbracciato lo vide andar
via; allora si asciugò i propri, di occhi.
Una volta
rientrata, accese il giradischi e mise su l’album dei Beatles
Magical Mistery Tour, sedendosi sulla poltrona mentre canticchiava con
le palpebre socchiuse le canzoni conosciute a memoria.
Fuori, poco
distante dal porticato, con le braccia incrociate Diego
osservò Klaus scendere le scale. Lo vide stiracchiarsi la
schiena e mettersi poi le mani sui fianchi, tirando un profondo respiro.
“Le
hai dato quello che dovevi?” domandò Numero Due,
portandosi al suo fianco.
“Diciamo
che abbiamo fatto un bello scambio” replicò
l’altro, per poi salire in macchina, guardare Ben che gli
sorrideva, e sistemarsi sul sedile con una gamba accavallata.
Diego lo
scrutò, accendendo il motore:
“Sicuro
di star bene?”
Klaus si mise
entrambe le mani sul petto, trasse un profondo respiro e
spalancò lentamente le braccia, espirando: “Mai
stato meglio. Dovremmo fare viaggi fraterni più spesso,
sento che il nostro legame è già cementato,
solido come roccia.”
Non molto
convinto Diego inarcò un sopracciglio, poi però
lo vide sorridere di quella contentezza interiore che Klaus manifestava
inconsciamente, e si tranquillizzò, replicando in una
scrollata di spalle:
“Mah,
se lo dici tu. Dove dobbiamo andare adesso, Professore?”
“Che
domande: a casa dolce casa. Anche se ci sono un mucchio di macerie e i
sotterranei fanno, uuuuuh – gesticolò con le mani
muovendo le dita – un po’ impressione,
però è meglio di niente, no?”
“Casa.
Se proprio vuoi chiamarla così”
borbottò Diego, ma fece inversione e cominciò ad
avviarsi.
Dopo un
istante Klaus accese lo stereo e propose:
“Ho
un’idea per il prossimo pezzo da ascoltare. Scommetto che
riesco a farti frizzare il cervello, come tanti piccoli, teneri
fiorellini che sbocciano” allargò le falangi di
entrambe le mani con aria di mistero e amore cosmico, nonché
l’espressione di chi ci era passato e con grande
magnanimità voleva condividere l’esperienza.
“Non
Donna Summer di nuovo – fece presente Diego, serissimo
– dopo una settimana con tutte le hit a ciclo continuo, il
pensiero di ascoltarla ancora mi è diventato come Luther
quando crede di sapere quello che sta facendo: ridicolo e
indigesto.”
“Diego,
la tua amarezza e senso di rancore possono diventare di grande
ispirazione, dico davvero” replicò Klaus
fingendosi commosso, portandosi una mano al petto.
Poi
agitò le dita, come per prepararsi a suonare uno strumento
invisibile, e mise un cd con una scritta a pennarello varie, viaggio on the road mix recuperato
da una custodia nella borsa a tracolla. Caro, vecchio, cd: consapevole
dell’antichità della macchina di Diego, Numero
Quattro non si sarebbe mai sognato di portare con sé una
chiavetta usb.
“Hai
fatto davvero una compilation per i viaggi in macchina?”
domandò l’altro, con un certo sorpreso
divertimento.
“Oh,
questo è niente, ho musica per qualsiasi occasione: quando
faccio il bagno, quando mi depilo, quando vado in giro sui pullman,
quando, sai – fece un sorriso d’intesa, con gli
occhi più grandi – agito la mia... bottiglia di champagne
e poi, yay, la stappo. Pop”
disse, aprendo una mano come per dare più enfasi al concetto.
Diego fece una
smorfia di disgustata compassione poi continuò a guidare,
consapevole che sarebbe stata una lunga settimana.
Nel frattempo,
cominciando già a muovere il torace con un senso del ritmo
immaginario, Klaus cercò la canzone e fece play; socchiuse
gli occhi e mosse anche le braccia. La macchina aveva ripreso a
immettersi nella 400 mentre nell’abitacolo aperto verso il
deserto risuonavano le note di Hello, Goodbye.
I
don’t know why you say goodbye, I say hello.
Sproloqui
di una zucca
What if e missing
moment nel quale l'Umbrella Academy ha evitato l'Apocalisse scatenato
da Vanya.
Greensburg
è davvero stata decimata da un tornado nel 2007.
Link alla canzone che mi ha ispirato tutto questo, canzone tra l'altro
uscita nel '67, anno prima di quello in cui Klaus ha incontrato David
al fronte: https://www.youtube.com/watch?v=rblYSKz_VnI
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