quiet lights above manhattan, nyc
You don't know
anything
I think about you
way more than anything else
I'm not that
spiritual, I still go out all the time to department stores
Everything I need,
but none of this is getting me anywhere good
Between you and me:
I still fall apart at the thought of your voice
[ The National –
Quiet Light]
Preme
play. Le luci si accendono. Azione.
Eiji sgranchisce il collo mentre il proiettore collegato
alla videocamera si mette in moto, illuminando la mansarda a giorno. Siede in
punta dell’unica seggiola che ha
trovato, una di quelle sedie di plastica abbandonate negli angoli più remoti ed impensabili di ogni
mansarda, cantina o cortile di ogni casa americana, ferma nell’attesa di potersi rendere utile per
il prossimo 4 Luglio o la prossima amichevole grigliata di quartiere.
Quasi
gli dispiace doverle far fare gli straordinari.
Si
china in avanti e preme le labbra contro le dita unite in contemplazione. L’immagine sul panno che ha appeso alla
parete di fronte è scolorita, sfocata da anni
di polvere e maltrattamenti, ma le figure riprese sono perfettamente
distinguibili – immerse in una luce giallastra
e naturale, quel tipo di luce che il suo occhio di fotografo esperto ed
affermato riconosce e distingue perfettamente da qualsiasi altro genere di luce
abbia mai immortalato su pellicola: la luce che si trova solo negli
appartamenti nei grattacieli di New York, al tramonto.
« Sorridi.
», gracchia
una voce familiare. « Dai,
sorridi! »
Per un
istante sorridere gli viene istintivo. La sua voce di quasi vent’anni prima ha una cadenza infantile
ed innocente che col passare del tempo si è spenta
del tutto, sostituita dal tono educato ma distaccato. Il sorriso muore sulle
sue labbra quando l’inquadratura si gira – troppo maldestra per comprendere esattamente
l’importanza di ciò che sta ritraendo, ciò che sta cristallizzando nel tempo. Ed
è allora che ricorda il motivo per cui
per anni ha finto che quelle cassette e quella videocamera non esistessero – il motivo che ha voluto ignorare
quella mattina, spinta da chissà quale
volontà pseudo suicida.
Ash guarda in camera. Ha i capelli spettinati, un biondo
nido di rondine. È avvolto in un lenzuolo, unica
provocazione le spalle nude; la sua espressione è caricaturale,
esageratamente imbronciata.
Batte
le palpebre ed Eiji sente di star morendo.
« Girala.
Non mi piace. »
« Cosa? », domanda
l’Eiji appena
ventenne. Ash si stringe nelle spalle, volta lo
sguardo.
« Essere
ripreso. », risponde. È un borbottio
privo di rancore. La telecamera si abbassa appena, escludendo dall’inquadratura parte del volto di Ash per un tempo che sembra infinito.
« Mi dispiace.
Perdonami. »,
sussurra. La voce è ovattata dagli anni e dalla
scarsa qualità del microfono, l’immagine rovinata da righe nere che sembrano
voler rammentare all’Eiji adulto quanto ciò che
sta osservando non sia reale. Scuote la testa. Si accorge solo in quel momento
di aver stretto i pugni tanto forte da sentire le unghie conficcarsi nella pelle.
« Non è colpa
tua. »,
una pausa. Se Eiji chiudesse gli occhi in quel
momento riuscirebbe a rivedere con estrema precisione l’espressione di Ash, la pietà nel suo sguardo; il problema è che non vuole farlo. « Vieni
qui, dai. Porta la telecamera. »
L’inquadratura si muove, un passo alla
volta, instabile. Eiji si fa indietro, del tutto impreparato
per ciò che sta per arrivare;
trattiene il fiato e sopporta il supplizio che ha imposto a se
stesso.
Il
volto di Ash riempie l’inquadratura.
Ha gli occhi cerchiati di sonno, ma sorride – ancor
di più quando Eiji
gli si siede accanto e sbuca da un angolo, divertito. « Hajimemashita!
», esclama alla telecamera; scoppia a
ridere nel vedere la confusione sul volto di Ash. « Watashi
wa kore ga amerikahito ni totte wa muzukashī kamo shirenai to omou… »
« Sei insopportabile, smettila
di prendermi in giro! »,
protesta lui; separa il lenzuolo in cui si è
nascosto per inglobarvi dentro Eiji, avvicinandosi
per sfregare il volto contro il suo e dargli noia – un gesto che Eiji poteva permettersi
di fingere di non comprendere solo allora. Osserva il se
stesso del passato sollevare una mano e posarla sul volto di Ash, carezzarlo superficialmente – ignaro, idiota.
Interrompe
la riproduzione prima che Ash possa baciarlo e
fingere che non significhi nulla, prima che possa ridere di lui, prima che
possa domandargli di insegnargli le basi del giapponese per essere preparato
per un futuro che non avrà mai.
Non si è accorto di essersi messo a
piangere, ma è successo: le lacrime
scendono copiose dagli occhi chiusi, stretti, nascosti dietro al palmo di una
mano – gli occhiali stretti nel
pugno dell’altra, pericolosamente vicini
al punto di rottura. Piange per un tempo che gli sembra lungo quanto gli anni
che lo separano dal giorno di quell’unica
ripresa, incapace di smettere, incapace di comprendere cosa lo abbia spinto a rispolverare
quella cassetta.
Col
proiettore spento, avvolto nella penombra della mansarda – la sola luce proviene da uno
spiraglio dal piano di sotto, dove Sing e Akira,
ignari, si danno il buongiorno – Eiji è preda
di un buio che ha conosciuto solo negli anni successivi alla sua prima visita a
New York; un buio che è l’esatto opposto della luce che invade
i ricordi di Manhattan, i ricordi che ha di Ash. Il
buio dove può concedersi di piangere per
lui, dopo tutto quel tempo.
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Grazie a Kam per il prompt!
Se volete anche voi
una storia breve su commissione potete averla collegandovi al mio account Ko-fi (link in cima alla bio!)
Alla prossima!
-Joice