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Central
Park
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Central
Park a primavera appare come un gigantesco polmone
che torna a respirare dopo mesi e mesi: tutto l’ambiente
circostante si tinge
di infinite tonalità di verde, le gemme e le foglie sui rami
riflettono i
tiepidi raggi del sole creando bagliori che sanno di vita. La
vegetazione torna
lussureggiante e nel vento aleggia il fresco profumo
dell’erba appena nata –
assieme con l’aroma dei fiori che sbocciano e liberano
nell’aria una miriade di
pollini fastidiosi.
Nico
non capisce come mai questi siano l’incubo di così
tanta gente, tra cui Will; il suo problema risulta essere altro: il
caldo. Stanno
andando verso la stagione e questo è il preludio di un clima
da paura, afoso e
irritante, di quelli che fanno sudare ad ogni minimo movimento e
rendono la
pelle tutta bagnata e appiccicosa.
Il
figlio di Ade cerca di non pensarci troppo, mentre si
concentra ad assaporare il suo gelato al pistacchio, il gusto
particolare che
gli riempie la bocca e scivola giù rinfrescandogli la gola.
Vicino a lui, il
dottore biondo ha già quasi terminato il suo cono cocco e
mango. Come abbia
fatto così in fretta il moro non lo sa, soprattutto
considerando che deve
soffiarsi il naso ogni due per tre: le sue allergie non gli stanno
dando pace,
il Re degli Spettri si sta pentendo di aver proposto questo
appuntamento. Un po’
gli dispiace vedere Will ridotto in quelle condizioni, assomiglia ad un
relitto
alla deriva in mezzo a quel mare di pollini, spera soltanto che le
gambe
malferme non decidano di cedergli tutto a un tratto.
Stanno
passeggiando lungo quel sentiero da ormai una ventina
di minuti circa, quando le iridi ossidiana del ragazzo più
piccolo individuano
finalmente una benedetta panchina libera. Nico non dice niente, ma
accelera il
passo e punta dritto verso quell’ancora di salvezza, pregando
in silenzio suo
padre di mandare al Tartaro qualsiasi infame avesse provato a fregargli
il
posto da sotto il naso: gli è già successo poco
prima e si è dovuto mordere la
lingua per non bestemmiare in greco contro i tre ragazzetti che si
erano
buttati sulla seduta quando lui era a solo due metri dal punto di
arrivo. Li ha
inceneriti con lo sguardo, però, e può giurare
che quelli se la siano fatta
addosso notando la sua aura nera; Will non ha commentato, ma ha alzato
gli
occhi al cielo con fare rassegnato, prima di soffiarsi il naso e
inciampare nei
suoi piedi di nuovo.
Il
semidio italiano si lascia cadere di peso sulla panchina,
bruciando sul tempo una coppietta. Il figlio di Apollo si ferma a pochi
passi
dall’altro ragazzo, dedicandogli un’occhiata in
tralice: non appare molto
contento della trovata di Nico e di fatti rimane in piedi, la mano che
tribola
nella tasca dei jeans per tirare fuori il fazzoletto ormai ridotto ad
una
pallina stropicciata. Il moro distende le gambe e lecca alcune gocce
del gelato
sciolto che scivolano lungo la cialda del cono. Numi, quanto detesta
questo
caldo.
–
Siediti, Will – mugugna il più piccolo dopo che si
è
pulito le labbra con il tovagliolo della gelateria. – Mi
metti ansia a stare lì
fermo impalato a quel modo.
–
Ma non ne ho voglia… – ribatte l’altro
ragazzo, mentre
porta alla bocca l’ultimo pezzo del suo dolce – Era
così bello passeggiare, a
me piaceva.
Stavolta
è il turno di Nico di alzare gli occhi al cielo per
la cavolata sparata dalla sua dolce metà. – Non
fare il testone. Non serve mica
un genio per capire che questa tua allergia ti sta facendo diventare
matto, stai
talmente messo da schifo che per tirare fuori i fazzoletti quasi
inciampi e ti
spiaccichi il gelato in faccia!
–
Cos’è, adesso gli “ordini del
dottore” ti metti a darli
tu? – ghigna il maggiore.
Di
fronte alla sua occhiataccia lugubre il biondo non fa una
piega, tanto ci ha fatto l’abitudine e sa che Nico in quel
momento non fa così
paura come vuole far credere. Pupille d’ossidiana e cerulee
si affrontano per
qualche secondo, ma il Re degli Spettri si dimostra intenzionato a non
cedere: “Porta il tuo culo qui sulla
panchina” stanno dicendo i
suoi occhi.
Il
figlio di Apollo ridacchia e alla fine si lascia
convincere. Azzera la distanza tra sé e
l’ambasciatore di Plutone, buttandosi
sulla seduta di peso. È praticamente quasi in braccio al
moro, il quale si lascia
sfuggire un verso a metà tra il sorpreso e
l’infastidito, ma viene ignorato dal
più grande: quest’ultimo frega il cono ancora
quasi intero dalla presa del
semidio italiano e le gocce di gelato ormai mezzo sciolto gli sporcano
la pelle
della mano – Nico è un disastro con i gelati, si
perde sempre in altro e ogni
volta finisce che tocca a Will mangiarlo per non far andare niente
sprecato.
Il
ragazzo si finge scocciato da quel gesto, ma poi le sue dita,
sottili e sempre fredde anche con quaranta gradi all’ombra,
si vanno a posare
sulla gamba dell’altro per poi intrecciarsi con quelle
tiepide e ruvide del
biondo. È bello stare così, seduti su una
panchina sotto il sole di maggio
mentre si tengono per mano: è come se fossero davvero due
normali adolescenti innamorati
che si godono un sabato pomeriggio dopo una tremenda settimana di
scuola. Niente
dracene o arpie, solo loro due.
Nico
posa la testa sulla spalla di Will senza nemmeno
accorgersene davvero, è più un riflesso naturale
dettato dall’abitudine. Il tepore
del figlio di Apollo non è fastidioso come quello dei
bollenti raggi solari e
il suo profumo è ancora meglio di quello dei fiori che
sbocciano tutto intorno
a loro: sa del bagnoschiuma del ragazzo e di vita, di ridente ed
intramontabile
vita.
Ci
potrebbero rimanere all’infinito così, baciati
dalla
calda luce di primavera e circondati dalla natura che torna ad essere
rigogliosa.
Il Re degli Spettri vorrebbe che quel momento si prolungasse nel tempo
fino a
non terminare mai, perché con Will i fantasmi del passato e
i problemi del
presente possono essere accantonati in un angolo, non esiste altro
attimo all’infuori
di quello.
Ma
poi l’ombra arriva.
Arriva
proprio nel secondo più bello, quello in cui Nico ha
rivisto tutto e ha capito che vuole stare a fianco del ragazzo biondo
per il
resto dei suoi giorni. Si avvicina di soppiatto, lui sa che
è lì e vorrebbe
prepararsi, sguainare la spada per difendersi in tempo, ma non
può fare niente
per cambiare il corso degli eventi: non se ne accorgono fino a quando
non è
troppo tardi e l’oscurità attacca, stracciando in
migliaia di brandelli l’immagine
idilliaca che il moro conserva nella sua mente.
Il
figlio di Ade si sveglia di colpo mentre la voce gli si
spezza in gola, e si accorge di essere madido di sudore nonostante
faccia un
caldo tremendo e il lenzuolo del letto sia già sparito
chissà dove. L’ambiente
è buio pesto perché è notte fonda, ma
non gli serve la vista per capire dove si
trova: è nella sua capanna al Campo Mezzosangue ed ha appena
avuto un incubo,
sempre quello. È sempre uguale, da un anno a quella parte.
Da quando dei
telchini li hanno attaccati mentre avevano fatalmente abbassato la
guardia – un
errore che Nico non si perdonerà mai finché
avrà vita, che lo perseguiterà in
eterno come il suo più grande fallimento.
È
sempre lo stesso incubo da quando Will è morto per lui a
Central Park.
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Hola
gente
Vi
prego non linciatemi, io non volevo uccidere Will, lo giuro. Date la
colpa all'angst che mi perseguita giorno e notte e sta attaccato a me
manco una cozza allo scoglio, è tutta colpa sua e mi ha
fatto cambiare idea all'ultimo secondo..
Inizialmente
questa shot doveva essere solo fluff puro e semplice, qualcosa buttato
giù un po' per passare il tempo e invece no, si è
appurato che io senza angst non ci so proprio stare. Se non ce ne ficco
un po' in almeno ogni mia storia il mio subconscio non si
può ritenere contento..
Ringrazio
chi recensirà (e poi non vorrà uccidermi) e anche
chi legge e basta
Alla
prossima gente
Adios
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