Cielo e Tenebra

di _armida
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Capitolo VIII: Rotta verso l’Ignoto

Elettra tentò di prendere un altro lungo respiro, ad occhi chiusi, tenendo le mani premute contro la gabbia toracica nella vana convinzione che così il dolore diminuisse. Ogni inevitabile espansione e contrazione dei polmoni le provocava delle fitte acute, simili a stilettate.
Lasciò l'impresa e strinse i braccioli della sedia sulla quale era seduta, nello studio di Riario. L'aveva portata lì lui stesso in braccio, una volta che l'aveva malamente fatta alzare dal ponte. Era stato davvero necessario trattarla come uno scaricatore di porto tratterebbe un sacco ricolmo di inutili cianfrusaglie? No, ripensandoci, forse quest’ultimo ci avrebbe messo un po' più cura di Riario.
"Alzati"
La voce autoritaria del Conte le giunse più vicina di quanto si aspettasse. Aprì un occhio, giusto per osservarne la figura avvolta nei soliti abiti scuri ad appena un passo da lei. Non indossava la giacca, abbandonata compostamente su di un angolo della scrivania. Istintivamente strinse ancora di più i braccioli della seduta.
"Elettra, alzati. Ho bisogno di controllare che tu non ti sia fatta nulla di grave"
La giovane sbuffò, irritata o forse troppo orgogliosa di affermare di non essere certa di potersi reggere da sola sulle proprie gambe. Aprì anche l'altro occhio, osservando l'espressione seria sul volto di Riario. Probabilmente o ubbidiva con le buone o si sarebbe replicata la scena di poco prima. Con un moto di irritazione dovette constatare che quando l'unica via possibile era la forza fisica, contro di lui non poteva nulla. Ma non gli avrebbe comunque chiesto aiuto per alzarsi da lì.
Forse questo il Conte lo aveva intuito dal momento che le tese le proprie mani per aiutarla. Si costrinse ad accettarle, guardandosi però bene dal pronunciare un qualche ringraziamento.
Girolamo guidò le sue mani sulle proprie spalle, senza mai staccare per un istante gli occhi da quelli di lei. "Reggiti", mormorò insinuando poi le mani sotto alla sua camicia alla ricerca di eventuali lesioni.
Elettra sussultò per via di quelle mani fredde, portandolo a sorridere. Sorriso che però si spense quasi subito, non appena lei lo fulminò con un'occhiataccia. Una scintilla di ironia restò comunque nei suoi occhi nocciola.
"Trovate tutto questo così divertente, Conte Riario?", gli domandò con pungente sarcasmo. Dovette mordersi la lingua quando lui le tastò una delle costole ancora in via di guarigione. "Avreste dovuto avviarvi alla carriera di medico, vista la vostra delicatezza", rincarò la dose.
In risposta, Girolamo aumentò la pressione sull'osso, osservandola negli occhi con un sorriso sornione.
Elettra tentò a sua volta un sorriso simile a quello dell'uomo, ma esso apparve troppo tirato. Che stavano facendo, stavano... giocando? Una sfida tra teste calde che pareva replicare quelle dei tempi passati a Firenze. Di certo la giovane non lo avrebbe lasciato vincere.
Le sue mani si spostarono lentamente accarezzandogli le spalle e insinuandosi infine nello scollo della camicia. Lo osservò con un'espressione angelica e gli occhi da cerbiatto... mentre affondava le unghie nella tenera carne del suo collo.
Si aspettava una reazione, questo sì, ma forse non quella che gli suscitò.
"Vi credevo più forte, madonna".
Doveva essere destino che quella frase passasse dalla bocca di uno alle labbra dell'altra ogni qual volta uno si trovasse nella condizione di dover medicare l'altro. Per ora erano due a uno per il Conte.
"Davvero l'unico modo per resistere al dolore è martoriare il mio povero collo?", continuò lui.
"Qualche rimostranza al riguardo?", ribatté lei, graffiando leggermente la pelle per rafforzare il concetto.
Osservò con soddisfazione gli occhi di lui dilatarsi mentre, si rese conto, le sue mani avevano abbandonato i modi bruschi di poco prima, lasciando carezze tutt'altro che spiacevoli lungo i suoi fianchi.
"E voi avete qualche rimostranza da farmi?", domandò a sua volta, una scintilla di malizia a percorrergli lo sguardo.
Elettra sorrise, anche lei con malizia. "Invero una ci sarebbe", sussurrò. Risalì con lentezza il suo collo fino a prendergli il viso tra le mani. "Dovreste dimagrire, Conte"
Tornò a sorreggersi alle sue spalle con un'espressione più che soddisfatta, mentre nelle iridi di lui passava una scintilla di disappunto.
"Rimostranza respinta, mia diletta", sussurrò a sua volta. "Il mio... dolce peso non ha causato alcuna lesione al vostro corpo"
Aveva finito di visitarla, quindi tutta quella vicinanza non era più necessaria, almeno, Elettra la pensò così. Era dispiacere quello che avvertiva? Forse era quello il nome più adatto alla sensazione che sentì quando si rese conto che era ora di allontanarsi da lui.
Provò a fare un passo indietro, ma lui la tirò prontamente verso di sè per i fianchi, facendo aderire i loro corpi.
Lei cercò il suo sguardo con la confusione negli occhi, ma esso era focalizzato solo sulle sue labbra.
Girolamo calò su di esse con lentezza ed era quasi sul punto di sfiorarle quando la porta si aprì: Zita entrò nella stanza con la solita discrezione che la contraddistingueva ed abbassò lo sguardo sulla pavimentazione, mortificata non appena mise a fuoco la scena che aveva interrotto.
"Zita", disse il Conte, umettandosi le labbra a disagio.
Elettra ne approfittò per sgusciare via dalla sua presa e poggiarsi con la schiena alla scrivania, poco lontana. Osservò la schiava alzare per un istante la testa nella sua direzione e scoccarle un'occhiata di disapprovazione prima di tornare a concentrarsi sul suo signore.
"Mi avete fatta chiamare?"
Girolamo si umettò di nuovo le labbra. "Ehm... sì", rispose, mentre cercava ancora di rimettere insieme le idee.
La bionda dovette ammettere che la vista del temibile Conte Riario in difficoltà, che si comportava come un ragazzino alla sua prima cotta, non le dispiaceva affatto, anzi. Un punto debole lo doveva avere anche lui...
Lo osservò tornare a sedersi sulla propria poltrona, dal lato opposto della scrivania, e assumere nuovamente l'espressione seria e autoritaria di sempre.
"Niente cibo né acqua al giovane Nico fino a nuovo ordine", disse.
"Che cosa?!". Elettra si voltò di scatto verso di lui, stringendo i bordi dello scrittoio con forza tra le mani.
Riario fece un cenno di congedo a Zita, che uscì velocemente, prima di concentrare la propria attenzione su di lei. "Decifra la Pelle dell'Abissino e Nico non morirà di stenti"
Di tutta la leggerezza di un attimo prima, di quella complicità che tanto ricordava il periodo fiorentino, ora non rimaneva più niente. Una cortina di ghiaccio era tornata a scendere tra di loro.
"Il tempo scorre", le fece notare con un sorriso affilato.
 

***

 

Il giorno dopo...

 

Elettra si strofinò gli occhi, arrossati dalla stanchezza, e tornò ad osservare la Pelle dell'Abissino proprio davanti a lei e poi il foglio bianco e la matita affianco. Sospirò.
Il sole era sorto e calato nuovamente e ormai un giorno intero da quando si trovava in quello studio era passato. Inizialmente aveva pensato di sfruttare un momento di sonno del Conte per provare nuovamente a fuggire, ma quell'uomo pareva non avere bisogno di dormire: non aveva chiuso occhio da quando si trovavano lì, a differenza sua che, esausta, alla fine era crollata. Doveva aver dormicchiato un paio d'ore, non di più, ma tanto bastava a farla sentire in colpa per aver sprecato del tempo che poteva considerarsi prezioso.
La palpebra le calò per un istante, giusto il tempo di far apparire nella sua mente l'immagine di Nico in quella squallida cella. Riaprì gli occhi di scatto, focalizzando la propria attenzione su Riario, intento nella lettura del proprio evangeliario tascabile.
Quanto poteva resistere un uomo senza cibo né acqua? Probabilmente un uomo in perfetta salute come il Conte sarebbe sopravvissuto per una settimana o anche dieci giorni, ma Nico aveva sofferto per tutto il viaggio fino a quel punto delle privazioni della sua condizione di prigioniero. Forse avrebbe resistito tre, quattro giorni al massimo. E uno di questi se ne era già andato.
Sospirò e tornò a guardare i fogli davanti a lei. Scosse la testa, sconfitta.
Rialzò lo sguardo su Riario: si sarebbe aspettata minacce o altre parole sulla sorte che sarebbe toccata al povero Nico, invece in tutto quel tempo non era successo niente di questo: se ne stava là, seduto di fronte a lei a leggere. Lo aveva colto ad osservarla un paio di volte, ma niente di più. Forse nel suo immaginario l’avrebbe indotta a tradurre quella mappa per sfinimento, una tecnica che probabilmente aveva visto praticata dagli inquisitori della Santa Sede. Ma sarebbe rimasta questo: soltanto immaginazione. 
E, poi, come faceva ad essere così certo che lei fosse in grado di decifrare la Pelle dell’Abissino? In effetti non ne conosceva la gran parte dei simboli. Certo, aveva i suoi sospetti, ma se li sarebbe tenuti per sé. Le sue parole sarebbero state solo una mezza bugia.
"Io non ci riesco", mormorò.
Il Conte alzò la testa dal proprio libro dopo diversi secondi di pesante silenzio. Sbattè un paio di volte le palpebre, come a mettere a fuoco la giovane di fronte a lui. "Cosa?" domandò.
Elettra non riuscì a capire all'istante se effettivamente, soprappensiero, lui non aveva capito oppure se con quella domanda le stesse dando la possibilità di ritrattare su ciò che aveva detto. Possibile che avesse nuovamente intuito tutto con uno solo sguardo? Questa volta non le sarebbe importato se lui avesse fiutato la menzogna o meno, avrebbe portato avanti la propria linea di pensiero fino alla fine. Non era solo il futuro di Nico ad essere in gioco: se sfortunatamente il Libro delle Lamine fosse stato trovato - ed era certa che una volta ottenuta la rotta, Riario non si sarebbe fermato fino a quando non lo avesse avuto - e fosse finito nelle mani di Sisto, cose ne sarebbe stato di Firenze? E dell’Italia intera? La furia e la brama di potere di quell’uomo era certa avrebbero spazzato via tutto, sottomesso ogni città. 
Osservò i movimenti di Riario, i tratti del viso tirato e le mani che avevano preso a stringere nervosamente il libretto: tutto quello esprimeva una rabbia trattenuta a stento, una frustrazione che per la prima volta, lo doveva ammettere, le metteva davvero paura. Abbassò gli occhi, incapace di reggere quello sguardo che pareva trafiggerla come un dardo acuminato e scavarle nell’anima alla ricerca dei pensieri più reconditi.
"I-io... io non conosco questa lingua", balbettò.
Lui lasciò cadere il libro sulla liscia superficie di legno, facendo sussultare la giovane, e si alzò poi in piedi, prendendo a camminare per la stanza. Le lanciò più di un'occhiata con la propria espressione imperscrutabile, notando che più le si avvicinava, più lei si rannicchiava contro lo schienale della poltrona sulla quale era seduta. Era un piacere perverso quello che ne ricavava, la piacevole sensazione di tenerla in pugno.
"Come è possibile?", le domandò di nuovo, avvicinandosi. 
"Nico non ne ha colpa se io non so tutto", mormorò lei con voce tremante. 
Non lo aveva mai osservato in volto da quando aveva parlato, le sue erano sempre state solamente occhiate di sottecchi. Che nascondesse qualcosa? La osservò rannicchiata su quella poltrona, chiaramente sulla difensiva, con una posa rigida, le spalle contratte e le mani che nervosamente stringevano la stoffa della propria camicia.
Sì, nascondeva qualcosa.
Un sorriso tutt’altro che rassicurante gli increspò le labbra: voleva salvare il giovane Machiavelli e allo stesso tempo evitare a tutti i modi di riprendere il mare. Ma, come dice un noto detto comune, “Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca”. Il suo non era nient’altro che un goffo tentativo.
Avrebbe detto che messa di fronte alla possibilità di salvare la vita ad un proprio caro amico, Elettra non avrebbe esitato a dargli ciò che voleva, come era accaduto in precedenza a Firenze, quando si era trattato di scagionare Becchi dall’accusa di tradimento, ma si era sbagliato: quella ragazza si era rivelata più testarda e determinata di quanto avrebbe mai pensato. 
Camminò lentamente, a passo cadenzato, con i tacchetti degli stivali che producevano rumore ogni volta che poggiavano sulle assi di legno del pavimento, fino a trovarsi alle sue spalle. Lasciò scivolare le mani con lentezza su di esse, risalendo poi lungo il collo e fermandosi appena sotto alla mascella. “Elettra”, sussurrò al suo orecchio. “Ragiona un istante: pensa al povero Nico, solo soletto in una gabbia, al buio, affamato e assetato. Vuoi davvero condannarlo ad un simile, atroce, destino?”
Lei tentò di liberarsi dalla sua presa, ma quel tentativo si rivelò troppo debole. “Io non so tradurla”, mormorò di nuovo. 
Riario schioccò la lingua contro il palato e la costrinse a negare con la testa. “Sappiamo entrambi che non è così, mia diletta”. Lasciò la presa sulle sue spalle e si portò di fronte a lei. Le mise un paio di dita sotto al mento, costringendola così ad alzare lo sguardo su di lui. “Lo leggo nei tuoi occhi: tu mi nascondi qualcosa”
Negò con la testa, questa volta di propria spontanea volontà.
Le dita di lui si serrarono sul suo mento ed avvicinò il volto al suo. “Potrei far portare qui il giovane Nico”. I suoi occhi vagarono per un istante per la cabina. “Per far parlare una persona non sempre sono necessari strumenti elaborati come la lacrima di vedova”
Osservò gli occhi di lei riempirsi di lacrime. “Per favore, non fatelo”, disse, sbattendo più volte le palpebre per scacciarle via. 
Si allontanò da lei, dirigendosi verso la porta. “Guardie”, chiamò. Il tono di voce troppo basso perché effettivamente lo udissero. L’importante era che lei lo udisse. 
Avvertì una sedia alle sue spalle spostarsi di colpo, segno che lei si era alzata di scatto dalla propria seduta. 
“Non è colpa di Nico se non conosco un antico dialetto abissino!”, urlò la giovane. 
Si voltò verso di lei, osservando il suo petto espandersi e contrarsi a ritmo conciato e le sue mani strette a pugno.
Elettra lo osservò a sua volta, pareva… soddisfatto. 
“Un antico dialetto dell’Abissinia… ne sei sicura?”, le domandò. 
Sì, era proprio soddisfazione. Anche se la giovane non ne capiva il motivo. Non aveva detto niente di che, almeno che… Lo osservò dirigersi alla porta ed aprirla il tanto da mettere fuori il viso.
"Zita!", urlò.
Era abissina, questo lo aveva considerato pure lei, ma non era possibile che lei conoscesse quella lingua. O anche solo che sapesse leggere o scrivere. 
“Zita è una schiava”, gli fece notare.
“Zita non è sempre stata una schiava”, ribattè lui. 
 

***

 

Zita entrò appena una manciata di secondi più tardi e nel mentre Riario era tornato a sedersi al proprio posto, invitando con un galante gesto della mano Elettra a fare lo stesso. Lei in risposta lo aveva fulminato con lo sguardo, accogliendo però quel consiglio. 
Osservò la schiava abissina avvicinarsi alla pelle del suo conterraneo, prendendo a studiarla in silenzio, in una sorta di timore referenziale che non si capiva esattamente se fosse nei confronti della mappa, in quelli di Riario o di entrambi. 
Le sue dita scure ne sfioravano la superficie e la sua bocca si aprì e si chiuse più volte, forse alla ricerca delle giuste parole da dire. 
“Molto di queso è oltre la mia comprensione”, disse, dispiaciuta. 
E a quelle parole Elettra scoccò un’occhiata sorniona a Riario, ma la sua espressione mutò in fretta, non appena la donna riprese la parola. 
 “…ma questi… questi sono scritti nell’antica lingua ge’ez del mio popolo. Sono numeri”. Ne indicò uno con il dito indice. “Tredici. E questo è millesettecentotrentuno  su diecimila”, proseguì, indicandone un altro. 
Questa volta l’espressione sorniona era stampata sul volto di Riario. 
“Tu sai leggere e scrivere?”. La domanda sfuggì spontanea dalle labbra di Elettra, talmente sorpresa che quasi non si rese conto di avere parlato. Si alzò in piedi e si avvicinò alla schiava, non riuscendo a staccare gli occhi dalla mappa. 
Zita le annuì. Un sorriso malinconico aveva fatto capolino sul suo viso. “Non sono sempre stata una schiava, mia signora”. Indicò in fretta altri numeri, quasi volesse cambiare argomento al più presto. “Settantadue”, disse tra gli altri. “E trecentoquarantuno su…”, si fermò un istante a pensare.
“Su seicentoventicinque”, l’anticipò la bionda. 
La serva la osservò con non poco stupore prima di annuire. Anche lo sguardo di Girolamo pareva stupito, senz’altro non si aspettava che lei prendesse dimestichezza con quella lingua così in fretta.
“Sono per lo più frazioni”, si intromise nel discorso. “Gli arabi le usano per rappresentare parti di numeri interi”
Guardò Elettra bloccarsi un istante e poi i suoi occhi correre da un capo all’altro della Pelle dell’Abissino fino a quando non si alzarono su di lui. 
“Girolamo, passami l’astrolabio”
Lui la osservò perplesso e colto alla sprovvista: poteva vedere in quei due pozzi azzurri che erano le sue iridi le emozioni agitarsi  e susseguirsi una all’altra. Era di timore quella sfumatura più scura? E quell’altra leggermente più chiara, che si trattasse di un’intuizione? Ma sopratutto in quello sguardo poteva vedere curiosità: la tentazione della conoscenza aveva vinto, era riuscita in ciò in cui lui aveva fallito. 
“Girolamo, l’astrolabio”
Sbattè un paio di volte le palpebre prima di afferrare il significato delle sue parole. Si chinò per aprire un cassetto ed estrarne il pregiato contenitore in legno e porgerglielo. 
Elettra lo aprì senza indugi, estraendo con delicatezza lo strano oggetto dalla forma circolare. Ruotò le due manopole alle estremità, facendogli così assumere il volume di un globo. 
Tracciò su di un foglio bianco le linee essenziali della mappa e, continuando a far roteare gli spicchi dello strumento, prese a scarabocchiare alcuni appunti. 
Girolamo non riusciva a staccare gli occhi di dosso da lei, dalle sue mani che si muovevano con dimestichezza sull’astrolabio e sui fogli bianchi. 
Avvertì Zita tossicchiare sommessamente, come se in quel modo cercasse di comunicargli di essere ancora lì. Il massimo che riuscì a fare fu mimarle un grazie con le labbra e congedarla. 
Aspettò di sentire lo scatto della porta prima di parlare. “Sembra che tu non abbia mai fatto altro nella tua vita che tracciare mappe usando un astrolabio”, disse ad Elettra, non potendo fare a meno di mostrare la propria ammirazione. Anche lo sguardo diceva lo stesso, tra le altre cose. 
Lei alzò il viso verso di lui, incrociando subito i suoi occhi. “Apparteneva a Cosimo de Medici. Io e Giuliano ci giocavamo spesso, nelle cacce al tesoro era la chiave di lettura delle mappe”, gli rivelò in un sussurro, mutando però la sua espressione in quello che sembrava essere turbamento. 
“Vi stava addestrando”, ragionò il Conte. 
Lei doveva essere arrivata alla stessa conclusione e si limitò ad annuire, per poi tornare a lavorare. 
Il vederla tracciare segni sulla carta, lentamente, con la sua mano che si muoveva decisa ma allo stesso tempo delicata come se stesse accarezzando quel foglio, aveva come un effetto ipnotico su di lui. Sotto al suo sguardo prendevano forma un’infinità di simboli: alcuni erano la perfetta riproduzione dei segni presenti sulla Pelle dell’Abissino, mentre per altri dovevano trattarsi di semplificazioni e traduzioni utili al Capitano. 
Il raschiare della matita sulla carta, unito al suono dei loro respiri, aveva un effetto rilassante, che richiama alla mente ricordi di un tempo felice. 
Si alzò in silenzio e, altrettanto in silenzio, si mise alle spalle di lei per poter osservare meglio il suo operato. Lei, così concentrata, con quegli occhi che, sì, quando aveva incrociato il suo sguardo poco prima avevano brillato, brillato davvero, di quell’azzurro intenso che le aveva sempre visto a Firenze, che credeva di poter rivedere solo nei propri sogni. Aveva quasi dimenticato quell’espressione di puro entusiasmo stampata sul suo volto. Aveva quasi dimenticato la sensazione che essa gli suscitava.
Si chinò con lentezza sui suoi cappelli, affondando con il naso tra quei soffici boccoli biondi e aspirandone il profumo: era inebriante, anche se avevano perso quella sfumatura di vaniglia diventata per lui così famigliare. Forse lei avrebbe apprezzato poter tornare ad utilizzarla, forse sarebbe stato un gesto carino reperirle un po’ di essenza di vaniglia. Fuerteventura era il punto di snodo di ogni possibile merce esotica, non sarebbe stato difficile procurarsene un po’. Sì, sarebbe andato di persona fino al mercato il mattino successivo. 
Lentamente, sfiorandole la pelle con le nocche della mano, le scostò i capelli da un lato, avvicinando le labbra alla candida linea del sul collo. La avvertì trattenere il respiro mentre lasciava un bacio su di esso. 
Un gesto, un no, una qualsiasi parola e si sarebbe allontanato, promise a sé stesso. Ma ci sarebbe davvero riuscito? 
Ne lasciò un secondo… e poi un terzo, continuando fino a quando lei non piegò la testa dalla parte opposta, lasciandogli così più spazio di manovra. Era un consenso a proseguire quello?
Continuò a salire, incontrando il profilo delicato della sua mascella, la guancia, lo zigomo, l’angolo dell’occhio… e poi prese nuovamente a scendere, indugiando un po’ di più sui cerchiolini rossi che erano andati formandosi su quella pelle dal candore latteo.  Arrivò fino al limitare della camicia di lino che indossava e decise di osare ancora un po’: portò le mani ai lacci che chiudevano lo scollo e con mano esperta ne sciolse i nodi. Poteva chiaramente sentire il suo cuore accelerare.
Fece scivolare lentamente la stoffa da parte, arrivando a lasciare nuda la sua spalla e proseguendo con le labbra su quel nuovo percorso. Arrivato anche alla fine di esso, le lasciò un morso, strappandole un sussulto. 
Elettra si alzò improvvisamente, fronteggiandolo. 
Se avesse voluto andarsene, lui lo avrebbe accettato, pensò. Forse era ancora presto.
Osservò il suo viso arrossato e gli occhi lucidi, aspettando una sua mossa, una qualunque. Lei si alzò sulle punte per poter arrivare al suo viso e poggiò le labbra sulle sue, in un contatto che segretamente bramava da settimane, ma che fino a pochi istanti prima aveva cercato di reprimere.
La sua lingua corse subito a cercare la propria compagna, da cui era rimasta lontana per troppo tempo. 
Il Conte la strinse con gesti che si stava sforzando di mantenere contenuti, ma da cui in realtà traspariva una certa foga. Sospirò quando lei gli morse il labbro e la premette di più contro sé stesso, desideroso di annullare ogni possibile distanza tra loro.
Passò le mani dietro alle sue cosce, issandola sul proprio corpo mentre lei gli stringeva le braccia intorno al collo. La adagiò sull’unico angolo libero della scrivania, dopo aver lasciato cadere a terra la giacca fino a poco prima abbandonata in quel punto. 
Elettra portò le mani alla sua camicia grigio scura, cominciando a slacciare in fretta i nodi che la chiudevano. Era quasi arrivata alla fine quando Girolamo le bloccò i polsi, stringendoli delicatamente ma allo stesso tempo in maniera decisa; prese ad accarezzarne l’interno, seguendone distrattamente l’intricato labirinto blu sotto la pelle sottile. Cercò il suo sguardo.
“Ne sei sicura?”, chiese, il volto serio nonostante il respiro pesante e gli occhi languidi. Il suo autocontrollo non avrebbe resistito ancora per molto.
Anche il respiro di lei era concitato e il viso era in fiamme. La osservò indugiare nella risposta, lo sguardo da cui trapelava indecisione. Non gli diede una risposta, ma chiuse gli occhi e lo baciò nuovamente. 
Girolamo sospirò di piacere contro la bocca di lei, arrivando semplicemente alla conclusione che l’avrebbe lasciata fare. 
Le mani di lei corsero a scompigliargli i capelli, per poi scendere sul collo, graffiando leggermente la pelle fino ad arrivare alle spalle, per poi proseguire il lavoro che appena una manciata di istanti prima lui stesso aveva interrotto. 
Nel frattempo anche le mani di lui si intrufolarono nuovamente sotto alla camicia di lei ma, a differenza del giorno precedente, non dovette imporsi di limitare le proprie azioni: le accarezzò i fianchi, salendo poi lentamente fino ad incontrare la linea alta dei suoi seni e riuscendo finalmente a scucire dalle sue labbra un gemito di piacere. 
La sua camicia nera cadde a terra, seguita poco dopo da quella bianca di lei. 
La baciò nuovamente, con foga e una passione che ormai faticava a trattenere. Avvertì gli stivali di lei cadere con un tonfo sordo sulle assi di legno del pavimento e le sue mani corsero velocemente a liberarla dei propri pantaloni, unico indumento che ancora portava. Glieli sfilò con un unico gesto fluido. La prese nuovamente tra le braccia, con le sue gambe sottili strette attorno ai propri fianchi e si avviò verso la parete più vicina. Lei gli lasciò un morso sulla clavicola non appena la sua schiena cozzò contro la paratia delle nave. 
Girolamo si abbassò i pantaloni, unendo finalmente i loro corpi.
C’era sensazione più travolgente che essere dentro di lei, avvertirla stretta contro di sé mentre affondava le unghie nella sua schiena e soffocava i propri gemiti nell’incavo del suo collo? Quella sensazione gli era arrivata inaspettata. Non pensava sarebbe accaduto così presto. Non pensava proprio sarebbe accaduto. 
Anche quando l’amplesso si concluse la tenne ancora un po’ tra le proprie braccia, in attesa che il respiro di entrambi si regolasse e beandosi del calore che quel corpo, così gracile e allo stesso tempo così perfetto per lui, emanava. Sapeva che non ne avrebbe mai avuto abbastanza di lei, ma per quella sera si sarebbe dovuto accontentare: non voleva spossarla più di quanto già non fosse. 
Elettra aveva sempre tenuto la testa nascosta nell’incavo del suo collo, prendendo talvolta dei lunghi respiri con il naso premuto sulla sua pelle, quasi a volerne assaporare il profumo. Lo mantenne anche quando lui la mise delicatamente a terra, reggendola comunque per i fianchi, nel caso in cui le sue gambe fossero state ancora troppo deboli per sostenere il suo peso da sole. 
“Tutto bene?”, le chiese, premuroso. Aveva il timore di averle fatto male, non sempre era riuscito a mantenere il controllo completo del proprio corpo. 
Lei allontanò il proprio viso giusto il necessario per poterlo guardare in volto e Girolamo lo vide: tra i suoi occhi umidi di pianto si annidava il senso di colpa per ciò che avevano fatto. 
Avrebbe voluto dirle che non avevano fatto nulla di male, che niente di così bello poteva essere qualcosa di negativo, ma le parole gli si mozzarono in gola. 
La giovane si staccò da lui, sciogliendo la stretta intorno al suo collo e cercò con lo sguardo i propri vestiti.
“Sono ancora tua prigioniera?”, mormorò. 
Girolamo distolse lo sguardo: avrebbe tanto voluto risponderle di no ma… semplicemente non poteva fidarsi di lei. E quel sentimento doveva essere reciproco. Quando doveva essere brutto avere al proprio fianco una persona che non si fida di te e di cui tu non puoi fidarti? Il Conte di Imola e Forlì comprese in quell’istante ciò che lei invece conosceva da mesi. 
Sospirò. “Ti affiderò una scorta di guardie svizzere per proteggerti”, si limitò a dirle.
“Per controllarmi”, ribattè lei.
Di fronte a quella verità non poté fare altro che allontanarsi e, seguendo il suo esempio, cominciare a rivestirsi.
La osservò rimettere la propria camicia e infilarsi gli stivali per poi andare alla porta. “Vi auguro una buona nottata, Conte Riario”, disse.
Girolamo non riuscì a rispondere nulla e si limitò ad un lieve cenno del capo, prima di guardarla chiudersi la porta dello studio alle proprie spalle.


Nda 
BOOM!
Forse è il caso che vi lasci del tempo per elaborare il tutto, ma prima vorrei farvi notare che per una volta, UNA volta, sono riuscita ad essere puntuale con la pubblicazione.
Come sempre, aspetto i vostri commenti. Al prossimo mese! 





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