Until Then
Alla
fine l’esilio era prevedibile, solo uno sciocco avrebbe
potuto
pensare che non ci sarebbero state conseguenze dopo quello che era
accaduto. A dire il vero l’unica cosa che stava andando
liscia e
tranquilla era la relazione tra Romeo e Giulietta. Finalmente
potevano stare insieme come desideravano e meritavano.
Mercuzio
aveva cercato di convincersi che l’esilio dei Capuleti fosse
stata
una scelta saggia e giusta, che fosse una cosa buona per tutta
Verona. Ci provava così tanto, aveva continuato a
ripeterselo ogni
giorno per mesi. Eppure quando il giorno giungeva al termine e lui si
ritrovava nella sua stanza a fissare il soffitto incapace di prendere
sonno la mente vagava lontano. Si soffermava su Tebaldo, su come
stesse, su dove fosse in quell’esatto momento, se fosse
ancora
sempre così arrabbiato con tutto e tutti, se pensava mai a
Verona,
se gli mancava la sua casa, la sua Giulietta. Se
gli mancava mai lui.
Mercuzio aveva provato a convincersi in ogni modo che quella scelta
fosse la migliore, ma ogni cosa che aveva mai avuto a cuore fino a
quel momento era crollata nell’istante in cui si era
risvegliato
ancora vivo. E
solo.
Certo,
aveva ancora il suo caro Romeo, e Benvolio, e aveva imparato ad amare
Giulietta come una sorella, ma tutto il resto non era che una visione
sfuocata e lontana di quel che era stato.
Gli
mancava. Gli mancavano i loro combattimenti, lo scontrarsi attento
delle spade e le parole che si scambiavano in quei momenti, - Era
una messa in scena la loro, un gioco quasi finito in tragedia
perché
Romeo si era scioccamente messo in mezzo.
– gli mancavo le parole sussurrate nella notte, nascosti al
resto
del mondo, protetti e liberi. Gli mancavano i suoi capelli, quei fili
di seta dorata che Mercuzio diceva sempre di invidiare, che diceva
essere sprecati su di lui, lo ripeteva ogni volta, tra un bacio e
l’altro, sorridendo. Eppure non riusciva ad immaginarlo in
nessun
altro modo. Gli mancava ogni cosa di quella sola, unica persona che
avesse mai rivendicato come suo.
Gli mancava così
tanto
che il dolore sembrava quasi fisico.
Fino
ad allora non sapeva nulla del dolore, era solo un ingenuo ragazzino
che non sapeva nulla. Fino
ad allora.
La
lettera arrivò in segreto; qualcuno che Mercuzio non aveva
visto la
lasciò nella sua stanza, riconobbe immediatamente con un
tuffo al
cuore la scrittura sulla busta. Certo, era leggermente diversa da
come la ricordava, più tremante e incerta, ma pur sempre
elegante.
Fino
ad allora non conosceva un dolore straziante come poteva essere
quello, il genere di dolore che gli prendeva il cuore e lo stringeva
e strapazzava e gettava a terra e calpestava.
Poi
aprì la lettera.
Era
breve, iniziava con parole dolci, d’amore, parole che
Mercuzio era
abituato a sentire nella notte e che non mancavano mai di farlo
sorridere, e sorrise anche mentre le leggeva; proseguiva con delle
scuse, delle richieste di perdono per quello che Mercuzio continuava
a chiamare un incidente; c’era una macchia
d’inchiostro.
Rosso.
Mercuzio
impiegò qualche momento prima di rendersi conto che
probabilmente
non era inchiostro.
“Ho
una richiesta, un desiderio. - lo
schizzo di inchiostro rosso, che poi inchiostro non era, si trovava
proprio lì, tra quelle parole. - Vorrei
vederti un’ultima volta. Se tu potessi venire qui, in
segreto, se
solo potessi concedermi quest’ultimo desiderio. Te ne
prego.”
Riusciva
quasi a immaginarlo mentre sorrideva scrivendogli quella lettera,
mentre lo pregava di raggiungerlo senza dargli spiegazioni. Non che a
Mercuzio servissero, aveva imparato presto a leggere tra le righe di
quel che diceva e che non diceva, e Tebaldo aveva scritto ultimo
due volte in una manciata di parole, non poteva essere un caso.
Fino
ad allora Mercuzio non sapeva nulla della morte, non veramente
almeno. Non finché, tre giorni dopo, si ritrovava davanti
alla casa
in cui la famiglia Capuleti viveva il suo esilio. Si
intrufolò
dentro senza alcun problema, non c’erano guardie a
controllare le
porte e solo un paio di persone della servitù intente nei
loro
compiti. Si fece accompagnare da Tebaldo da una giovane ragazza che
si stava occupando del bucato e la pagò per il suo silenzio.
C’era
qualcosa nel suo sguardo quando le porse le monete e le chiese del
giovane, compassione, pietà, forse anche un velo di
tristezza. Lo
guidò con passo cauto, controllando che nessuno li
scoprisse, e
rifiutò il denaro.
“Siamo
pochi ormai a venire qui. - Disse
in tono sommesso, come se non volesse disturbare nessuno in quella
casa già così assurdamente silenziosa.
- Il mio Signore non si è mai interessato e la
Signora… Dopo un
po’ anche lei ha smesso.” Aprì la porta
quel che bastava a
Mercuzio per entrare prima di andarsene e tornare alle sue faccende.
“Non so davvero cosa sperate di trovare.” Credette
di averla
sentita mormorare, ma non vi diede troppo peso.
La
stanza era semplice, con un armadio dalle ante che non si chiudevano
bene e si aprivano di continuo se non c’era qualcosa davanti,
una
piccola scrivania con una sedia e il letto. E
Tebaldo.
Tutto lì, nient’altro.
Mercuzio
sentiva che c’era qualcosa fuori posto, e non era il fatto
che
fosse semi vuota, più simile ad una cella che ad una camera
da
letto. Tebaldo sembrava quasi troppo piccolo per quel letto, le
coperte sotto cui riposava lo avvolgevano e sembravano volerlo
inghiottire e farlo scomparire. Si avvicinò fermandosi al
suo fianco
osservandolo meglio, la luce era soffusa ma bastava. - Quanto
avrebbe voluto che non bastasse invece. Quanto avrebbe preferito
restare cieco. - Bastava perché
Mercuzio notasse il pallore sul suo viso, le
occhiaie profonde e gli occhi stretti, le sopracciglia corrugate
anche nel sonno. I capelli erano sparpagliati in disordine sul
cuscino e Mercuzio riusciva a vedere anche un paio di macchie
asciutte di sangue, non le uniche probabilmente.
Di
primo impulso gli venne da piangere. Si sedette sul bordo del letto e
gli passò piano una mano tra i capelli districando un paio
di nodi
prima di accarezzargli il capo e la guancia, si soffermò
sulle
labbra screpolate con il pollice temendo di potergli far male se lo
avesse toccato. Tebaldo si lasciò sfuggire un gemito di
dolore, si
mosse piano sotto le coperte e socchiuse gli occhi. Impiegò
quasi
troppo prima di riconoscere Mercuzio seduto al suo fianco, in tutta
sincerità impiegò troppo a capire che
c’era effettivamente
qualcuno
accanto a lui, e ancora di più prima di riconoscere chi
fosse. Ma
quando lo fece non riuscì a trattenere un sorriso sforzato,
quasi
certamente doloroso che fece gemere Mercuzio prima di chinarsi a
baciargli la fronte.
“Sei…
Sei vero. Davvero qui.” La voce era poco più che
un sussurro, le
labbra così asciutte che Mercuzio temette si sarebbero
spaccate da
un momento all’altro. Ma Tebaldo continuava a sorridergli.
“Continuavo a sognarlo. Sognarti. Qui. E
adesso…” Si bloccò
quando un attacco di tosse scosse tutto il suo corpo, mentre il
sangue colava lentamente lungo il mento e sul cuscino e sui capelli,
mentre cercava inutilmente di riprendere fiato. Quando si
placò il
sangue era l’unica nota di colore sul suo volto e Mercuzio
sentì
l’impulso di piangere farsi più forte.
Gli
pulì le labbra facendo attenzione a non fargli ancora
più male e
lasciò scivolare un paio di gocce d’acqua nella
sua bocca, non era
certo riuscisse a bere come avrebbe dovuto, non era nemmeno certo che
sarebbe riuscito a restare seduto abbastanza a lungo per farlo.
“Mi
hai chiesto di venire – Si
sforzò di dire controllando che la voce non si spezzasse
proprio in
quel momento. -
ed eccomi qui. Cos’è accaduto?” Era una
domanda stupida ma per
quanto avesse voluto dirgli che lui ci stava provando a convincere
suo zio a farlo tornare a Verona, convincerlo che aveva bisogno di
lui e che era stato solo uno sfortunato incidente la sua voce non
sembrava voler collaborare.
“Malato…”
Mercuzio si lasciò sfuggire una risata scuotendo piano la
testa, gli
sorrise dolcemente posandogli una mano sulla guancia e
accarezzandolo. Dio,
era così freddo. Troppo freddo.
“Sì,
amore mio, questo lo vedo. Ma come?” Fu il turno di Tebaldo
di
scuotere appena il capo.
“Stanco.
Ero… ero sempre stanco… - Sussurrò
debolmente reprimendo un colpo di tosse. - Ho
smesso di mangiare.” Distolse brevemente lo sguardo da
Mercuzio
vergognandosi di colpo di quella scelta e temendo il suo giudizio.
“Smesso di preoccuparmi. - Ammise
infine e Mercuzio sentì il cuore sprofondargli nel petto.
Era
accaduto tutto a causa dell’esilio? O magari Tebaldo avrebbe
finito
con l’ammalarsi in ogni caso anche se fosse rimasto a Verona?
-
Poi… Poi il sangue. E tu. Ora.” Era come se la sua
presenza in
quel momento fosse l’unica cosa veramente importante.
Districò una
mano bianca e magra da sotto le coperte e cercò quella di
Mercuzio,
non aveva la forza di stringerla così lasciò che
fosse lui a farlo,
a prenderla nelle proprie e portarsela alle labbra. Avrebbe voluto
così tanto asciugare ogni lacrima che ora gli rigava il
volto, e
avrebbe voluto chiedergli perché, e come facesse a
sorridergli
ancora nonostante tutto. Aveva così tante domande che sapeva
non
avrebbero trovato risposta così, invece di parlare, lo
sollevò
delicatamente senza stupirsi di quanto fosse piccolo, e magro, e
fragile
in quel momento, e lo strinse a sé.
“Non
intendo lasciarti. Lo ricordi vero, mio bel principe? Sarò
al tuo
fianco fino alla fine dei giorni.” Disse facendo del proprio
meglio
per ignorare il modo in cui la sua voce si spezzò e le
lacrime
iniziarono a rigare anche le sue guance. Tebaldo annuì
debolmente,
sollevò una mano asciugandogli una guancia.
“Insieme.”
Disse in un sussurro. Poi la mano cadde inerte al suo fianco e chiuse
gli occhi lasciando cadere la testa contro il petto di Mercuzio.
Stava ancora sorridendo quando il suo petto rimase immobile e le
lacrime di Mercuzio mutarono in singhiozzi mentre stringeva il suo
corpo a sé.
Quando
aveva lasciato Verona quella stessa mattina non sapeva nulla di
quello che avrebbe provato di lì a poche ore, non conosceva
il
dolore e l’angoscia, lo strazio. Non
conosceva la morte.
Ma conosceva l’amore, quello sì. E ora colui che
più di ogni
altra cosa al mondo amava giaceva immobile tra le sue braccia,
sorridente perché almeno prima della fine aveva potuto
rivederlo.
E
quando tornò a casa non era più la stessa persona
che si era
allontanata dalla città in gran segreto, non era che
un’ombra di
ciò che era stato, un’ombra dallo sguardo vuoto e
distante, dalla
voce sottile che aveva dimenticato come si facesse a ridere o
scherzare.
Biascicò
delle scuse a Giulietta, ma nulla di più. Non fece nomi e
non diede
spiegazioni, nulla se non un debole “Mi
dispiace.”
mentre stringeva con più forza del necessario le mani
attorno alla
piccola croce che portava al collo, come se quello bastasse a tenerlo
ancorato alla realtà. Non bastava, ma era un inizio. Non
c’era
altro da dire, a modo suo lei già sapeva, capiva. Giulietta
sorrise
con gli occhi lucidi di lacrime che si sforzava di non versare per
poter essere forte per lui, ora che ne aveva così bisogno.
“Ti
amava. - Disse
e una lacrima sfuggì al suo controllo seguita rapidamente
dalle
altre. Si ritrovarono entrambi inginocchiati a terra stringendosi in
un abbraccio disperato che Romeo, arrivato solo in quel momento, non
riusciva a spiegarsi. -
Almeno non era solo. Almeno aveva te alla fine.”
C’erano
ancora delle lotte a Verona, per quanto la faida che aveva diviso la
città così a lungo fosse finalmente giunta al
termine non voleva
dire che ognuno viveva in pace. Quelle lotte alla fine erano
l’unica
cosa che ancora faceva sentire vivo Mercuzio, sebbene fosse solo per
un momento. Si portò la croce alle labbra, disse a mezza
voce una
veloce preghiera, non a un Dio che mai prima lo aveva ascoltato
quanto piuttosto a chi prima di lui aveva indossato quella collana,
poi sfoderò il pugnale da cui non si separava mai e
ghignò.
Nessuno
notò mai che non era il pugnale che era solito portare,
nessuno notò
lo stemma dei Capuleti inciso sull’elsa fino al giorno in cui
entrarono nella sua stanza quando Mercuzio era in ritardo e lo
trovarono steso sul letto con il pugnale affondato nel petto, una
mano ancora stretta attorno all’impugnatura e un sorriso
sereno.
“Insieme.”
Angolino dell'autrice: Non
crediate che mi dispiaccia per quello che ho scritto, perchè
se così fosse non mi conoscete. Non sto dicendo che rido o
che ne sono felice (orgogliosa sì però.), ma non
sono dispiaciuta per questa oneshot.
E se qualcuno mi conosce, o ha letto altro, allora lo sa, e anche bene,
che io nell'angst ci sguazzo come una paperella nell'acqua, che
è il mio antistress (e quite not so healty coping
mechanism.) e che se per caso leggete qualcosa di felice e gioioso
aspettatevi la tragedia di lì a poco.
Detto questo. Non ricordo come mi sia venuta esattamente l'idea, ma
stava funzionando troppo bene per non sfruttarla. Tebaldo
così vulnerabile può sembrare strano, tanto,
troppo. Ma prendiamola come, ovviamente, una AU. è stato
esiliato, si è ammalato (e per rispondere a Mercuzio,
sì, sarebbe accaduto comunque anche a Verona, ma forse
lì avrebbe avuto qualcuno che si occupava di lui. Magari non
si sarebbe salvato nemmeno in quel caso ma non avrebbe sofferto
così tanto. Era malato già da mesi prima
dell'esilio, ma lui e la sua testardaggine fanno troppo a botte col
buon senso.)
Gli aspetti di base sono quelli della produzione francese, il Tybalt
del 2001, con quegli splendidi ricci biondi, e il Mercuzio di Eyzen.
Per quanto io ci prova non riesco a scollarmi da loro due.
Essendo una traduzione, scritta prima in inglese, certe frasi
potrebbero suonare un po' strane, mentre altre le ho cambiate
leggermente. Spero non siano troppo strane.
Alla prossima. Se sopravvivo.
C'è una AU su "Beauty and the Beast" che si sta rivelando
particolarmente complessa, non perchè è in
inglese quanto piuttosto per il fatto che da oneshot, la stronzetta,
s'è ingigantita. Ma arriverà.
Stay tuned~
~Aki~
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