Un amore nato dal caso

di G RAFFA uwetta
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Un amore nato dal caso



Lasciare spazio al nuovo



Lo studio della psicologa era molto piccolo. Le pareti erano bianche e dal soffitto pendeva un filo alla cui estremità era attaccata una lampadina tondeggiante. Una spropositata finestra senza tende occupava la parete più lunga, davanti alla quale erano poste una scrivania scura e due sedie dall’aria scomoda. La porta, di dimensioni insolitamente ridotte, si trovava incastrata tra due angoli della stanza.

Fin troppo minimalista, aveva pensato Giovanni storcendo il naso, la prima volta che era entrato. È davvero bizzarra, come del resto la proprietaria.

La dottoressa Morena Scafandrone era una donna minuta dallo sguardo gelido. Portava con disinvoltura corti capelli canuti e un intreccio di rughe che partivano dagli occhi chiari fino giù sul collo che spuntava da un colletto perfettamente inamidato. I piedi, che si muovevano aritmicamente senza incontrare il pavimento, calzavano delle comode ballerine di un vistoso colore rosa.

Per riuscire a guardare negli occhi i suoi pazienti, teneva sotto il sedere un paio di volumi sulla psiche umana.

«Che c’è di strano?» rispondeva altera agli sguardi interrogativi. «Ormai non servono più.» Liquidava il discorso con la mano appesantita da un enorme solitario.

Tutto in quella stanza era disomogeneo, sembrava il magazzino di un robivecchi, ma a Giovanni piaceva. Forse perché anche lui si sentiva un’accozzaglia di emozioni contrastanti.

«Allora, mio caro,» addolcendo lo sguardo, la donna lo scrutò negli occhi, «hai fatto molti progressi. Non hai più bisogno del mio aiuto. Buona giornata.»

Giovanni andò in iperventilazione e boccheggiò davanti a quelle parole di chiusura. Scosse la testa borbottando risentito.

Era approdato in quello studio mesi prima, straziato dalla cruda realtà: lui era vivo.

Gli tornò in mente il rumore sordo della sua rabbia che schiantava sul ripiano della scrivania, l’espressione imperturbabile della dottoressa e l’irrazionale terrore che gli soffocava la gola. Allora non capiva, non riusciva a farsi una ragione della propria presenza sulla terra.

«Non esiste un valido motivo, è così e devi accettarlo.» gli ripeteva Morena.

E, giorno dopo giorno, passo dopo passo, come un puma, aveva imparato ad adattarsi alle incongruenze della vita. Chiuso nella sua testa aveva scisso le emozioni e le aveva rielaborate, trovando loro una nuova collocazione.

Aveva smesso di urlare contro Dio, di ritorcere la rabbia contro se stesso. Aveva ripreso a camminare tra la gente, sorpreso per ogni sorriso che aleggiava sui volti di sconosciuti. Aveva imparato ad ascoltare il silenzio che cantava nella sua testa. Aveva abbandonato i toni cupi dei discorsi futili.

Aveva ristabilito una connessione con il cielo rimanendo in equilibrio tra follia e realtà. Aveva scalciato i demoni e abbracciato nuovi sogni.

«Torna a vivere, Giovanni. Sono certa che qualcuno, la fuori, ti sta aspettando.» E gli porse un quadretto.

Il ragazzo glielo strappò dalle mani e stizzoso lo lesse: Primo segno di un animo equilibrato è la capacità di starsene tranquilli in un posto e in compagnia di se stessi. 1

Si alzò e, uscendo, le regalò il suo sorriso migliore.



Siamo come una fotografia che per essere nitida ha bisogno di luci e ombre nella giusta misura. Massimo Bisotti.





Note dell’autrice: Giovanni non capisce. È uno qualunque, con i suoi chiari e scuri. Dunque: perché solo lui si è salvato? Ma a questo quesito non c’è una risposta. E Giovanni dovrà farsene una ragione.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Questa storia partecipa al contest ‘Il contest del Simbolismo’ indetto da Arianna.1992 sul forum con il prompt puma/equilibrio.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

1Citazione di Lucio Anneo Seneca





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