Il Miele sul Bicchiere

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199. La Rasputitsa e Il Generale Inverno

 

 

Diari di Italia

 

Non mi era mai capitato di ritrovarmi davanti a una guerra del genere.

Solitamente, anche per quanto riguarda noi nazioni, quando pensiamo a un conflitto subito ci vengono in mente le immagini e i ricordi dei campi di battaglia, degli scontri a fuoco, dei tanti soldati che si battono con il nemico, dei nostri uomini che spandono sangue e che muoiono lontani dalle loro famiglie e dalle città dove sono nati. Quella che mi ritrovai a fronteggiare di persona a Mosca invece era una guerra diversa. Fu una guerra combattuta non solo dai soldati, ma dal popolo stesso, e non solo sui campi di battaglia ma anche all’interno delle città, fra la gente comune. Mi ritrovai davanti a una guerra dove la paura spinse i soldati a fare cose terribili. A sparare ai cittadini spaventati che avrebbero dovuto proteggere e non uccidere, a separare i bambini dalle loro madri, a impedire alla gente di mettersi in salvo, a ignorare la loro paura per eseguire i comandi di una nazione che ormai non si curava più della sua gente.

Fu una guerra del popolo contro il popolo stesso.

A quel tempo, mi ricordo che pensai: “È impossibile! In quale paese potrebbe mai capitare qualcosa di simile?” Fu quasi profetico, dato che io stesso, solo pochi anni dopo, mi ritrovai ad affrontare la stessa situazione, ossia la rabbia di un popolo che vuole continuare a combattere contro la disperazione di chi invece vuole solo ritrovare la pace perduta.

Non avrei mai creduto che quei pochi mesi trascorsi a Mosca, affianco al popolo russo, avrebbero comportato così tante conseguenze dentro di me e che mi avrebbero posto davanti a così tanti conflitti, a così tanti dilemmi interiori, che poi avrebbero influenzato le mie più importanti decisioni future.

Più tempo trascorrevo di fianco a Russia e più mi rendevo conto di quanto lui fosse simile a Germania. Più di quanto entrambi avrebbero voluto ammettere. Per questo, forse, non ho trovato la forza di andarmene, anche quando avrei avuto l’occasione di scappare.

Mi pento della mia scelta, a distanza di tutti questi anni, considerando tutto quello che le mie azioni hanno comportato? No. Nemmeno un po’.

Ogni tanto ripenso a quello che è successo, certo, ma chi non lo farebbe? Ci penso e continuo a essere convinto che, se fossi fuggito da Mosca e se avessi abbandonato Russia, allora lui non avrebbe trovato la forza di continuare a resistere all’avanzata di Germania e non sarebbe stato più in grado di difendersi e di contrattaccare. E allora, forse, Germania e tutti noi avremmo davvero potuto vincere la guerra. Romano però mi dice sempre che la Storia non si scrive con i “se” e con i “ma”. Pentirsi non serve a nulla. Tutto ciò che possiamo fare è imparare dalle conseguenze dalle nostre scelte, perché ormai la Storia è stata scritta e non si può più cambiare.

Dentro di me, sono convinto che la guerra non è altro che un continuo ciclo di odio senza fine. Per interrompere questo ciclo, sono necessari dei sacrifici, è necessario a volte perdere potere, perdere ciò che si è conquistato, ed è per questo che è così difficile rinunciarvi, è per questo che è più facile continuare a combattere una guerra dietro l’altra piuttosto che accettare di rinunciare a qualcosa. In quel momento, mi toccò proprio compiere questa scelta: rinunciare all’odio ma allo stesso tempo rinunciare alla vittoria, oppure continuare a camminare sul sangue dei miei nemici e non cambiare nulla, continuando a fare la guerra come avevo sempre accettato e come mi era sempre stato insegnato.

Fu a quel punto che presi quella decisione. Rinunciai alla certezza della vittoria per aiutare qualcuno che rischiava di perdere tutto: la sua nazione, il suo popolo, la sua famiglia, i suoi alleati, e persino se stesso. Rinunciai alla vittoria per sottrarre qualcuno alla spirale di odio che nessuno era disposto a fermare. E non mi pentirò mai di questo. Nemmeno dovessero passare altri cento o mille anni.

Quelle furono le mie intenzioni, almeno all’inizio. Perché quello che poi successe fra me e Russia mi fece dimenticare di tutto, dei miei buoni propositi, della guerra che a cui stavo cercando di porre fine, della casa a cui avrei dovuto fare ritorno, degli alleati che mi stavano aspettando. Quello fu il mio primo passo verso la perdita non solo della guerra ma anche di me stesso.

 

.

 

18 ottobre 1941

Mosca, Unione Sovietica

 

Le grida stridenti delle sirene d’allarme s’innalzarono dagli altoparlanti delle fabbriche, risalirono i casermoni dei quartieri industriali, attraversarono l’aria fredda e pregna di umidità, e rovesciarono le loro urla strazianti su tutte le strade di Mosca già invase dallo scalpiccio di passi affrettati sui marciapiedi, dallo schiocco degli stivali appartenenti ai militari, dallo scricchiolio dei mezzi blindati che marciavano sull’asfalto, e dai rombi dei carri disposti in fila che occupavano le intere carreggiate. Le ombre dei palloni frenanti sempre più numerosi vegliavano su di loro, galleggiavano contro il cielo color cenere, striato dal nero dei pennacchi di fumo, e incombevano come nubi mal auguranti cariche di presagio.

Operai vestiti con tute da lavoro e militari con i capi coperti dai colbacchi blasonati dalla stella rossa salirono sui mezzi appena usciti dalle fabbriche, finirono di caricare i pezzi di artiglieria, le casse con le munizioni, aiutarono i compagni ad arrampicarsi sul retro. Misero in moto gli autocarri, evocando il rombo dei motori che si unì alle grida delle sirene, e s’inserirono nelle carreggiate sporche di neve grigia e impastata.

Le loro voci si mescolarono, “Da questa parte, da questa parte, qui c’è ancora posto!”, arrochite dal freddo e dall’umidità.

“Le munizioni, svelti! Caricate in fretta quelle casse!”

“Sequestrate tutti i mezzi civili! Tutti quelli ancora in grado di circolare ora sono di proprietà nazionale!”

Militari armati di megafoni s’infilarono nel flusso della folla, si spinsero fra le spalle schiacciate, fra lo strofinio dei cappotti che si urtavano nella calca, sgusciarono in mezzo a tutti quei piedi che si camminavano sopra, e s’immisero in mezzo alla strada, camminando sulle tracce appena solcate sulla neve dalle carovane di autocarri.

Uno di loro accostò il megafono alla bocca, sollevò il braccio libero. “Tutti quelli con i permessi si portino verso le stazioni di Kazan e di Jaroslavl!” Diede una sbracciata, e dalla sua bocca sbocciò una densa nube di fiato bianco. “Tutti i bambini vengano radunati a gruppi e messi in sicurezza!”

“Tenete sgombere le strade!” Un altro di loro, megafono alla bocca come il compagno, inviò gli ordini a tutte le persone ammassate sul ciglio della strada, dove la neve sporca intasava i tombini. “Sgomberate le strade e tenete liberi i passaggi per l’uscita dei mezzi, mettetevi sui marciapiedi!”

Rombi più profondi, accompagnati dal suono più acuto e sbriciolante dei cingoli sull’asfalto, annunciarono l’arrivo di un’altra fila di carri armati. La carovana di T-34 riverniciati di bianco svoltò la curva, spinse tutti quelli che erano scesi dai marciapiedi a tornare con le schiene contro le pareti degli edifici, passò sotto i fili del tram a cui avevano scardinato le rotaie, davanti alle vetrine barricate dei negozi, davanti alle facciate delle case foderate di sacchi di sabbia e di travi di legno, e proseguì la marcia verso le porte di Mosca, sotto gli occhi dei militari e sotto le grida incessanti delle sirene.

Italia si strinse nel cappotto pesante, rimboccandone il bavero con la mano bendata. Arretrò di un passo, tornando anche lui con le suole sul marciapiede, e s’infilò fra le facciate di due edifici per non farsi trascinare via dalle persone che gli camminavano davanti, carichi di valige, fagotti, e di espressioni grigie rivolte verso il basso. Anche gli occhi di Italia erano attraversati da un traballante luccichio di smarrimento e di preoccupazione. Il cuore stretto in una soffocante morsa d’ansia, le labbra schiuse in un respiro a cui non riusciva ad aggrapparsi, e le orecchie doloranti per il continuo gridare degli allarmi e per i rombi dei mezzi civili e militari che parevano non avere fine.

Una donna si staccò dalla folla, affondò le gambe nella neve ammucchiata, corse verso uno dei T-34 che procedevano a passo d’uomo e prese a picchiare la corazza con il palmo della mano. “Ridatemi mio figlio!” Si chinò a raccogliere una manciata di sassi da terra, e ne scagliò uno contro il cofano di un autocarro. “È mio figlio!” Altro sasso fra i cingoli di un T-34. “Ridatemelo!” Corse più avanti e lanciò gli altri sassi contro le schiene dei militari. “Andateci voi a morire, assassini!”

Una delle squadre della polizia la placò, i militari le strinsero un braccio ciascuno e la trascinarono lontano dalla strada.

La donna si dibatté fra le braccia degli uomini. “No, nooo!” Strattonò le spalle, liberò un braccio che venne riacchiappato dalle mani callose di uno degli uomini, calciò la neve sporca, e si accasciò fino a sfiorare la strada con le ginocchia. “Vitya!” Le prime lacrime le solcarono le guance arrossate. “Vityaaa!”

Un uomo che capeggiava un gruppetto di bambini stretti ai loro fagotti di abiti prese per mano i primi della fila e li allontanò dalla scena, portandoli al riparo sotto le mura dei palazzi.

Alcuni bambini si tennero stretti per le manine, si rannicchiarono dietro le schiene degli adulti che li accompagnavano, e abbracciarono i fagotti di abiti e di scatolette di cibo che gli avevano consegnato per il viaggio. Altri singhiozzavano, si stropicciavano gli occhietti umidi di lacrime e tiravano su con i nasini rossi di freddo, e continuavano la loro marcia facendo rimbalzare i cartellini riconoscitivi che gli avevano appeso al collo.

In disparte, una giovane donna che indossava la tuta da lavoro di una delle fabbriche finì di vestire il figlio, di sistemargli i capelli sotto il berretto di pelliccia, e gli appese il suo cartellino attorno al collo. “Questo non devi mai togliertelo, chiaro? Devi sempre averlo con te, qualunque cosa succeda tu non separartene mai e non farlo togliere nemmeno a tua sorella.”

Un’altra donna affianco a loro stava abbracciando e cullando il proprio foglio già preparato per il viaggio in treno. “Non piangere, non piangere, gioia mia,” gli mormorò accanto alla guancia. “Ssh, andrà tutto bene.”

Il bimbo continuò a piangere e a singhiozzare. “Dove portano il papà?”

“A combattere contro gli uomini cattivi.” La donna gli asciugò le lacrime dalle guance e gli poggiò delicatamente le nocche sotto il mento per non fargli abbassare lo sguardo. “Ma papà torna, e anche lo zio, e anche Nikolaj. Ora però voi dovete uscire dalla città perché è pericoloso.”

“Non voglio andare via.” Il bimbo strizzò gli occhi lacrimanti e si strofinò il viso annacquato e arrossato dal freddo. “Voglio tornare a casa.”

“Tornerai quando sarà più sicuro, te lo prometto. Quando la guerra finisce.” La donna gli strinse le spalle e gli strofinò le ultime carezze lungo le braccia. Anche i suoi occhi s’inumidirono di commozione. “Ma ora devi seguire questi signori, e fare il viaggio sul treno, e poi ti prometto che torneremo tutti assieme. D’accordo, gioia?”

La marcia dei bambini proseguiva in direzione opposta rispetto alle carovane militari, conduceva alle stazioni dei treni.

Italia si lasciò condurre dalla folla e si allontanò dai loro visetti tristi, da tutto quel dolore innocente che faceva male anche a lui. Camminò a testa bassa davanti alle botteghe barricate, davanti alle vetrine buie, fra i palazzi deserti, e attraversò le carreggiate dove i tram e gli autobus avevano cessato di sfilare per lasciare spazio ai mezzi militari.

Le ultime copie della Pravda sfilarono di mano in mano. Giornali stropicciati scricchiolarono fra i fianchi delle persone ammassate, sotto i loro occhi increduli e sbarrati che volavano da una riga all’altra.

Voci sibilanti si mescolarono in mezzo alla confusione. “Sì, sì, è come hanno detto anche ieri.” Bisbigli così bassi da non lasciare nemmeno una bava di condensa soffiarono da un orecchio all’altro, lontani da quelli dei militari. “Orel e Vyazma sono cadute, e ora sembra che i tedeschi siano riusciti a infrangere anche la linea di Mozhaisk.”

“Impossibile.”

“Non possono essersi avvicinati così tanto,” si aggiunse una voce scossa da una nota d’allarme. “La scorsa settimana ci avevano assicurato che era tutto sottocontrollo e che non avevano raggiunto nemmeno la prima barriera del fronte.”

“È evidente che ci hanno mentito.” L’uomo con la Pravda in mano scosse il giornale verso i compagni. “Che gli articoli sono tutti censurati, comprese le trasmissioni radio.”

Quello affianco a lui ringhiò a denti stretti. “Parla piano, per l’amor della Madonna, vuoi che ti sentano?”

“Che mi senta chi?” L’uomo non accennò ad abbassare la voce. “Il governo? Ebbene che mi senta, che mi sentano tutti.” Spalancò il braccio contro le squadre di polizia che sorvegliavano i cigli della strada, contro i pennacchi di fumo provenienti dai quartieri industriali. “Ci hanno mentito e ingannato fino a ora, e adesso ci stanno tutti mandando a morire, mentre loro sono i primi ad aver lasciato Mosca, a essere scappati a gambe levate. Questa è la riprova che i tedeschi sono più vicini di quello che vogliono farci credere.”

“Magari sono già alle porte di Mosca.” Un uomo si strinse nel cappotto, rabbrividì, stando stretto alle spalle degli altri, e scoccò occhiate scettiche e spaurite ai mezzi militari marchiati dalle stelle rosse. “Magari ci ritroveremo i panzer tedeschi per le strade già da domani stesso.”

Quella visione fulminò Italia come una scossetta e gli fece arrestare il passo in mezzo al marciapiede. Germania. L’aria attorno a lui si fece più tiepida, scomparve la cruda umidità della neve sciolta, il tanfo dei gas di scarico e dei fumi delle fabbriche. Il sole nascosto da nubi e palloni frenanti tornò più luminoso, scrostò una breccia di speranza in fondo al suo cuore. Germania è già alle porte di Mosca? Ma allora... Su di lui tornò a precipitare il grave senso di impotenza e di lontananza. Ma allora significa che Russia e gli altri sono stati sconfitti? Che cosa starà succedendo per davvero?

“Signore?” Una mano ricadde sulla sua spalla e lo fece sussultare. Italia si voltò. Uno dei militari con la stella rossa sul copricapo lo aveva riconosciuto. Lo scrutava con occhi carichi di comprensione e rispetto. “Signore, non dovrebbe essere qua. È troppo pericoloso per lei rimanere in mezzo alla folla.”

Italia si guardò attorno. Solo folla e strade bloccate dal passaggio dei mezzi. “M-ma io...”

L’uomo gli raccolse il braccio. “Venga, la facciamo subito scortare al Cremlino.”

“Ma cosa sta succedendo?” Italia si sottrasse, compì un paio di passi indietro, e si tenne distante dalla strada, dallo scricchiolio dei passi sulla neve, dalle minacciose ombre dei carri armati. “Perché sono tutti così agitati?” Perché la città sta tremando di paura?

Il militare si voltò a incrociare uno sguardo d’intesa con il compagno che reggeva il fucile fra le braccia e che teneva gli occhi fermi sulla fola. Lui gli inviò un cenno d’intesa. Il militare annuì e tenne Italia in disparte, parlò con tono cauto. “Hanno decretato lo stato d’assedio, signore. E il governo ha ufficialmente autorizzato l’evacuazione di Mosca.”

Italia trasse un sospiro. “Evacuazione?”

“Solo dei soggetti a rischio,” confermò l’altro, abbassando la guardia del fucile. “Anziani, bambini. Tutti gli altri sono inviati o a combattere al fronte o a lavorare nelle trincee anticarro in difesa della città.”

“Ma allora...” Un sentimento conflittuale si raggomitolò nell’animo di Italia. Nemmeno lui seppe se sentirsi sollevato o ancora più spaventato. “Ma allora è vero! È vero che i tedeschi sono alle porte di Mosca!”

“Non ancora,” gli rispose il militare. “Ma la situazione è comunque molto critica. Le forze tedesche stanno abbattendo ogni nostra difesa e, anche se le nostre truppe stanno operando una resistenza tenace, molti sono stati costretti a ripiegare.”

“Il vero pericolo poi è la tensione che si sta manifestando in città.” L’altro uomo strinse le mani sul suo fucile, i tratti del suo volto s’indurirono, e i suoi occhi tornarono ad assottigliarsi sotto la ruga contratta delle sopracciglia, a puntare sulla folla che marciava affianco ai mezzi. “Se i disordini proseguiranno in questa maniera, saremo costretti a gesti estremi pur di sopprimere il panico.”

I pensieri di Italia fluttuavano distanti da quelle parole, i suoi occhi si alzarono al cielo, desiderando di scavalcare le mura di Mosca e di posarsi sul fronte, dove i due eserciti stavano combattendo. “I tedeschi sono vicini.” Germania. Un primo tiepido raggio di speranza gli toccò il viso, alleggerì le catene della prigionia. Germania sta arrivando. Allora non mi ha abbandonato, non è vero che mi lascerà per sempre fra le mani di Russia, non è vero che mi ha sempre sfruttato solo per la guerra.

La voce del militare lo riportò a terra, in mezzo alla strada. “Nemmeno lei dovrebbe stare qua fuori, signore.”

“Eh?” Italia scosse il capo, si riprese. “C-cosa?”

Il militare si spostò per non finire investito da una nube nera di gas di scarico e sistemò il fucile allacciato attorno alla spalla. “È pericoloso che lei stia all’aperto,” insistette. “Ci sono troppi disordini.”

Gli occhi di Italia tornarono a velarsi di smarrimento. “Ma ora chi...” Chi è che comanda, allora? Se Russia è al fronte e se il resto del governo sta evacuando, allora...

“Ora la città è in mano alle forze militari,” gli disse l’uomo, quasi gli avesse letto nel pensiero. “Ma non si preoccupi, terremo al sicuro anche lei.”

“Dovremmo farlo riaccompagnare al Cremlino.” L’altro militare fece correre lo sguardo sul profilo rannicchiato di Italia. Inarcò un sopracciglio, scettico. “Se non altro per assicurarci che non fugga via.”

“No! V-voglio dire...” Italia si spinse indietro di un altro passo, prima che riprovassero a prenderlo per il braccio, e batté la schiena contro lo spigolo di un edificio. Volse l’indice verso il Cremlino. “Posso tornarci anche da solo.” Un fremito d’anticipazione discese la spina dorsale, si condensò sotto le suole, spargendo un bruciante formicolio lungo le piante dei piedi. Doveva correre, doveva sbrigarsi prima che fosse troppo tardi. “E voi qui avete così tanto da fare,” pigolò, “e non vorrei essere un peso.”

I due uomini tornarono a scambiarsi un’occhiata dubbiosa.

Quello che aveva fermato Italia per primo si strinse nelle spalle. “Tanto dove vuoi che vada?” fece al compagno. “E comunque, una volta che le truppe saranno fuori, faremo saltare i ponti.”

“Ma potrebbe sempre...”

Grida tonanti tuonarono attraverso le strade. “Cani bastardi!” Una vetrina esplose, una cascata di vetri s’infranse lungo la strada, passi rabbiosi delle persone in rivolta vi camminarono sopra, le loro braccia si tesero, le loro voci s’innalzarono rabbiose contro i militari. “Governo ladro, ridateci i nostri figli! Ridateci il nostro cibo!”

Il militare corrugò la fronte da sotto il colbacco, imbracciò il fucile, e diede un colpo di gomito al collega. “Muoviamoci.” S’immise nella carreggiata, compì i primi passi sopra la distesa di vetri rotti, e si girò per puntare l’indice su Italia, ben più minaccioso rispetto al fucile stesso. “Torni al Cremlino e non si muova da lì.”

Italia annuì più volte, celando un innocente e tremolante sorrisetto sotto il bavero del cappotto, e si voltò, dando le spalle alla squadra di militari intervenuti per sedare la piccola rivolta com’era successo con la signora contro il T-34.

La folla continuava a defluire lungo il marciapiede, le persone si separavano per schivare il profilo di Italia ancora immobile, lo urtavano con piccole spallate, con i bagagli infagottati, e proseguivano tornando uniti, ignorandolo, quasi fosse stato uno di loro, un compagno sovietico qualunque. Si sentì scomparire. Il cuore accelerò, le gambe bruciarono, il flusso di adrenalina salì alla testa, e il vento già profumato di libertà gli soffiò contro le guance, scosse i capelli contro le orecchie, e pizzicò agli angoli degli occhi ancora increduli e spalancati.

Sono libero?

Italia compì un passo indietro, urtò la spalla di qualcuno che comunque lo ignorò, arretrò ancora e sbatté i piedi alla base di un palo della luce, e pestò un volantino stropicciato e incrostato di neve. Si girò. Scappò via. Corse in direzione opposta rispetto ai mezzi militari e alle forze armate e operaie che si stavano dirigendo alle porte di Mosca. Si ritrovò ad allungare ampie falcate che sfioravano la terra con le punte degli stivali, a volare in mezzo a un’ondata di volantini e manifesti caduti dalle finestre e dalle mura dei palazzi. Qualche foglio sporco si ribaltò, svelò le immagini che Italia aveva già visto assieme a Russia – forti uomini che battevano il martello sull’incudine e belle donne che falciavano ampi e rigogliosi campi di grano.

Italia s’imbucò in una via più buia e umida.

Giovani ragazzi impacchettati nelle uniformi nuove uscirono dalle Case del Popolo, vennero radunati a gruppi per essere distribuiti sugli autocarri. File interminabili di civili occupavano i marciapiedi, rigiravano i coupon dei razionamenti, e sbirciavano le vetrine con occhi ansiosi. Aspettavano il loro turno nelle botteghe ancora aperte che distribuivano pane, formaggio e salsiccia dentro impacchi di carta di giornale.

Italia superò tutti, tenne gli occhi e il cuore distanti, scosse il capo per non farsi nemmeno sfiorare dal sentimento di pietà ed esitazione che gli era soffiato attraverso. Questa... questa potrebbe essere l’ultima possibilità di scappare, di salvarmi da solo dalla prigionia. Spiccò una falcata più ampia e atterrò al di là della strada. Riprese la fuga attraverso il denso fumo che sapeva di carbone, metallo e neve sciolta. Anche se Germania riuscisse ad arrivare a Mosca, Russia potrebbe anticiparlo. Potrebbe rinchiudermi di nuovo e potrebbe impedire a Germania di trovarmi. Potrebbe farmi imprigionare da qualche altra parte, in un’altra città, persino in Siberia, dove stanno portando tutte le industrie. E io non voglio. Quel forte sentimento di nostalgia che covava da settimane si schiuse, gli spalancò un vuoto in fondo al petto e gli annacquò lo sguardo. Io voglio tornare a casa! Voglio tornare dalla mia famiglia! Voglio tornare da Germania, voglio dirgli che mi dispiace essermi fatto rapire, che mi dispiace aver rischiato di rovinare tutto, e che io voglio solo stare con lui.

Continuò a correre e si portò la mano bendata al petto, senza pensarci, per raggiungere il senso di vuoto dove la croce di ferro avrebbe dovuto ballonzolare a ogni passo.

Russia ha ancora la mia croce di ferro. Il momento in cui Russia gliel’aveva rubata gli sfrecciò davanti allo sguardo. Il modo in cui gli aveva sganciato la catenina dal collo e aveva fatto dondolare il ciondolo davanti al suo naso. Ma quando vinceremo e quando sarà lui a diventare nostro prigioniero, allora me la farò ridare. Ora la cosa più importante è che io riesca a raggiungere Germania, così potrò dirgli tutto di Mosca, di quello che sta succedendo, di come stanno evacuando la città, di come sono organizzati i militari, di tutte le industrie che stanno trasferendo, e così lui sarà ancora più avvantaggiato.

Rallentò per prendere fiato, per respirare attraverso le fitte nubi di condensa e per placare il bruciore che gli grattava la gola. Deglutì, allentò il bavero del cappotto che stava diventando opprimente, e levò lo sguardo all’orizzonte cinereo. Le file di palloni frenanti galleggiavano sopra i comignoli frastagliati dei palazzi davanti ai quali scorreva una riva della Moscova. Alcuni tetti erano riverniciati, altri foderati dalle protezioni antiaeree e altri vestiti solo del sottile strato di neve che aveva formato una prima fragile crosta autunnale su Mosca.

Italia si morse il labbro che sapeva di ferro. Devo sbrigarmi a uscire prima che facciano saltare i ponti. Schiacciò i pugni ai fianchi. Devo... Una scossa gli punse la mano bendata e lo bloccò prima che potesse rimettersi a correre.

Italia si grattò la fasciatura e infilò le unghie fra gli spazi della benda, dove prudeva di più e dove la pelle era sudata. Srotolò il bendaggio, lasciò cadere il nastro di stoffa ai suoi piedi, e snudò la mano. Emise un sussulto che lo fece sobbalzare. Ma è... Si strinse il polso e rigirò la mano. La pelle era leggermente segnata e raggrinzita dalle striature del bendaggio, ma i segni dello sparo erano svaniti. Italia sgranò gli occhi, incapace di respirare, incapace di battere le palpebre. È guarita. Non è rimasto nemmeno il segno.

Un altro ricordo gli sfilò davanti: Russia che gli stringeva delicatamente il polso, che spingeva il pollice dentro il suo palmo per fargli schiudere le dita, e che posava la bocca sulle bende profumate di pomata cicatrizzante.

Italia strinse il pugno e lo raccolse sul petto, sopra il battito del cuore di nuovo soffocato dal vortice di conflitto. Se Germania è davvero così vicino a Mosca, significa che Russia è sempre più debole, e che forse si sono già scontrati. Se è così, allora Germania ha vinto. La sua testa gli gridava di fuggire, di approfittarne e di uscire da Mosca, di andare da solo incontro alle divisioni tedesche. Il suo cuore piangeva per i sensi di colpa, gli implorava di rimanere. Perché mi sto preoccupando per Russia? Lui mi ha rapito, mi ha portato via da Germania, mi ha torturato e ha detto che sarebbe disposto a tutto pur di non farmi scappare via.

Lo assalì una nauseante botta di vertigini.

Italia risollevò lo sguardo vacillante. La gente ammassata per le strade si teneva stretta. Alcuni si strofinavano le mani infreddolite, altri si aggrappavano ai viveri impacchettati appena ritirati dalle botteghe che distribuivano le razioni e sgattaiolavano via tenendo il capo basso. Le guance incavate dalla fame, i volti grigi e fiaccati dal freddo, e gli occhi pieni di miseria infossati nelle palpebre gonfie di stanchezza.

Tutto quel dolore attraversò Italia come una folata di vento siberiano, lo tenne incollato al marciapiede, ma allentò la morsa di conflitto. Forse è perché, ora più che mai, riconosco che Russia è una nazione come me, ancora prima di essere un mio nemico. E ora, con il suo popolo in queste condizioni... stanco, affamato, con il rischio di perdere tutto, persino la speranza, e senza il sostegno della loro stessa nazione... Lasciò cadere il capo fra le spalle, abbassò le palpebre e trasse un sospiro sconsolato. Davvero avrei il coraggio di abbandonare questa gente? Ma, anche se rimanessi, io cosa potrei fare? Io non ho niente a che vedere con l’Unione Sovietica, io per loro sono un nemico, un prigioniero, e...

Scoppiò una seconda esplosione, simile a quella di vetri infranti che Italia aveva già udito prima di imboccare la fuga, e qualcuno urlò. Il ruggito di una vampata di calore soffiò contro la schiena di Italia, gli arroventò il collo scoperto e scosse i lembi del cappotto attorno alle ginocchia.

Italia si girò di scatto.

Fiamme ancora basse e scure bruciavano attraverso un furgone ribaltato, uno di quelli che trasportavano le casse con le razioni inscatolate arrivate con i rifornimenti americani. Due uomini sfondarono il vano posteriore picchiando calci sulla parte arroventata dal fuoco. Uno di loro pescò un masso da terra, si diede uno slancio, e lo scagliò contro la vetrina di uno dei negozi barricati. Altri vetri esplosero, saltarono sopra le teste di tutte le persone che si erano spostate tenendo le mani dietro la nuca, e s’infransero sull’asfalto.

L’uomo che aveva scagliato il masso scavalcò quel che rimaneva della vetrina e urlò per farsi sentire sopra lo scricchiolare dell’incendio. “Svelti, svelti, fate in fretta!”

Un altro si unì a lui e sbracciò per guidare tutti verso le scorte. “Prende tutto quello che potete e correte via!”

Italia si coprì la bocca, contenne un singhiozzo di panico. Oh, no. Passi in corsa s’infilarono nella via, ombre si allungarono attraverso le mura ravvicinate degli edifici e catturarono lo sguardo di Italia. Una squadra di tre militari – i fucili imbracciati e la feroce espressione da mastini in caccia a indurire i loro volti – accorsero, divisero la folla impaurita che si stava disperdendo, e pestarono i piedi sui frammenti di vetro. Un’ondata di panico raggelò Italia che già visualizzò i lampi degli spari, la neve tinta di rosso, e i corpi degli uomini accasciati, senza vita. Devo fermarli, o li uccideranno! “Fermi!” Italia corse loro incontro, attraversò un’ala di fumo che lo costrinse a pararsi il viso con il braccio, sbatté contro le persone che si stavano allontanando, e venne trascinato indietro. “No!” Spinse un braccio in avanti, spalancò la mano contro i militari, quasi sperando di afferrarli e di trattenerli fra le dita. “Non...”

Le persone si dispersero, le voci scosse dalla paura scivolarono contro Italia come quei corpi corsi lontano dal pericolo, il fumo calò e tornò a scoprire la vetrina frantumata e le scintille provenienti dalla finestra sbriciolata sull’asfalto.

I militari avevano già le armi puntate contro i tre uomini che avevano assalito il furgone e la bottega.

“Contro il muro!” Uno dei militari picchiò il calcio del fucile sulla spalla di uno dei civili. “Mettetevi contro il muro!”

Un altro di loro afferrò la spalla di quello che stava per scappare, lo scaraventò a terra, e gli mollò un calcio sulla schiena per farlo accostare al muro. “In ginocchio e con le mani dietro la nuca, muovetevi!”

L’uomo scivolò sulle ginocchia e tenne le mani in alto. “Vi prego, lasciateci andare!”

“Disertori del popolo!”

“No!”

“Traditori della patria, della nazione, dei vostri stessi compagni!”

I tre civili finirono schiacciati alla base della parete, messi all’angolo dalle volate delle armi. “Vi scongiuro, non è come credete!”

“Abbiamo solo fame.”

“Pietà!” Uno di loro ricadde sulle ginocchia, piegò la testa come davanti a una reliquia, e si appese al pastrano del militare. “Pietà, pietà, vi supplico. Mio padre è da tre giorni che non mangia, in casa geliamo, non c’è più nulla da bruciare per accendere il fuoco, e ormai non sappiamo nemmeno se il cibo ci verrà ancora distribuito, non...”

“Per i traditori non ce ne sarà di sicuro.”

“A modo vostro contribuirete davvero alla salvaguardia del popolo.” Il militare spinse il piede contro il petto dell’uomo, lo fece cadere in mezzo ai vetri rotti, e gli puntò il fucile contro lo sterno. “Tre bocche in meno da sfamare.”

Due di loro si strinsero, portarono le mani avanti come sperando di parare i proiettili, e il terzo tenne i palmi sollevati contro i militari, la testa alta ma il viso solcato da lacrime di disperazione che rigarono le guance prosciugate dalla fame. “No, vi prego...”

Una scossa risalì l’animo di Italia, sfrecciò come un dardo attraverso il cuore e frantumò ogni paura, lasciandogli addosso solo il bruciante bisogno di tuffarsi in mezzo e di salvare quelle persone. “No!” Compì uno slancio, spalancò le braccia e si buttò fra i militari e i civili come aveva fatto per salvare Germania dallo sparo di Russia. “Fermi!” Il suo sguardo ardente respinse i fucili dei militari senza che avessero sparato alcun colpo. “Non fategli del male. Ve lo proibisco!”

Uno dei militari calò il fucile. “Cosa?” Aggrottò la fronte in un’espressione perplessa ma ancora scura di ferocia. “Ma chi...”

Italia tenne le braccia larghe per coprire i tre uomini ancora in ginocchio dietro di lui. Innalzò attorno a sé un’aura protettiva rovente come una fiammata, come il coraggio che bruciava attraverso i suoi occhi. “È un ordine.”

I due uomini sbarrarono gli occhi davanti a quell’audacia, frenarono le armi e si scostarono indietro. Fu allora che lo riconobbero, che si ritrovarono respinti dalla forza e dalla luminosità d’animo che poteva appartenere solo a una nazione. Non a un’anima, ma a milioni di tante vite che si consumavano in un corpo solo.

Uno dei due militari ritirò il fucile, mortificato. “S-signore, mi perdoni, non l’avevo...”

“Questi sono disertori, signore.” Un altro di loro superò i compagni e gettò un’occhiata di disprezzo ai tre uomini protetti da Italia. “Sono nemici del popolo, e questi atti non possono essere trascurati, non in un momento di conflitto come questo.”

Uno dei tre si aggrappò al cappotto di Italia, ancora tremante di terrore, e balbettò un russo incomprensibile che si mescolò alle suppliche degli altri due.

Italia posò la mano sulla spalla dell’uomo, gli trasmise una stretta rassicurante. “No.” I suoi occhi non si mossero dagli sguardi dei militari, non cedettero di un battito di ciglia. “Questi non sono nemici del popolo. Queste persone sono il popolo, e voi dovreste proteggerli, non ucciderli.” Il vento di Mosca gli soffiò attraverso, s’innalzò contro il cielo carico di conflitto, dove tutta la tensione che regnava fra le mura e le strade della città si era condensata in una larga distesa di nuvole violacee come le iridi del padrone di casa. Il conflitto vi brontolava attraverso come il gorgoglio di un temporale. “Là fuori c’è la guerra,” disse ancora Italia. “Il nemico sta sterminando i vostri soldati, e io non permetterò che vi uccidiate a vicenda.” Si girò ad aiutare i tre che aveva salvato dalla fucilazione. Si chinò a stringere le loro mani, a risollevarli da terra. “Andate, presto. Tornate a casa e mettetevi al sicuro.”

Uno di loro continuò a singhiozzare, a tenere la testa china, a sussultare di sollievo e disperazione. “Oh, grazie, grazie...”

Quello aggrappato al cappotto di Italia gli raccolse le mani, prese a baciargli le dita, a versare grosse lacrime perlacee che gli rotolarono fra le dita. “Spasiba, spasiba...”

Italia annuì e li lasciò andare. Si ritrovò in piedi, davanti alla vetrina rotta, sfiorato dalle luci del piccolo incendio che ancora bruciava dal furgoncino ribaltato, con addosso gli sguardi degli unici due militari che erano rimasti. Una nuova forza lo rinvigorì, come se la scossa benefica che gli aveva guarito la mano gli avesse percorso l’intero corpo. Gli donò la forza di tenere la testa alta. Dove sarà Russia? Quanto tempo ci vorrà prima che torni a Mosca? E se fosse stato catturato? E se fosse in fin di vita? Tornò a guardarsi attorno, a tendere l’orecchio verso le grida delle sirene d’allarme, ad aguzzare la vista verso le file di persone che affollavano le strade. Gli abitanti di Mosca erano un gregge senza pastore. Un grande e spaventato gregge di pecore affidato a un branco di cani che si stavano dimostrando tanto feroci quanto i lupi in agguato fuori dalle mura. Anche se loro sono miei nemici, solo pur sempre persone, sono vite umane che vogliono sopravvivere esattamente come se si trattasse della mia gente. Non permetterò che gli capiti nulla.

“La vostra nazione non è qui a guidarvi.” Italia rivolse uno sguardo duro ai due militari rimasti. “Ma questo non significa che voi avete il potere di abusare di questa povera gente.”

Uno di loro chinò la fronte ma non abbassò gli occhi. Occhi simili a quelli degli uomini che lui stesso stava per uccidere. “Stiamo solo cercando di mantenere l’ordine, signore.”

“Facendo giustiziare quelli che muoiono di fame?”

I due militari incrociarono lo sguardo di sfuggita, uno si voltò di profilo, calò la sua arma, e l’altro soffiò uno sbuffo, lasciandosi abbagliare le guance dalle fiammelle che continuavano a danzare sulla carcassa del furgoncino. Rimise il fucile attorno alla spalla e compì un passo solenne davanti a Italia. “Allora quali sono i suoi ordini, signore?”

“I...” Italia batté le palpebre, di nuovo spaesato. “I miei ordini?”

L’uomo annuì. “Se ciò che vuole è davvero aiutare noi e i nostri compagni, allora agisca.”

Un brivido di dubbio percorse la schiena di Italia, lo fece esitare. Perché lo fanno? Perché sono disposti a fidarsi di me? Io non sono la loro nazione. Io sono un nemico e un prigioniero. Si posò la mano sul petto. Lo colse una scintilla d’illuminazione. Ma io rimango pur sempre una nazione. Forse è per questo che si stanno fidando. Hanno semplicemente bisogno di qualcuno che sia in grado di guidarli, e sanno che il mio potere e la mia autorità sono superiori alle loro.

“Portatemi alla Stazione di Kazan,” disse Italia. “Voglio verificare di persona che le evacuazioni stiano procedendo normalmente e che nessuno stia facendo male alle persone.”

I due militari, arrendevoli ma anche più sereni. “Sissignore.” Eseguirono l’ordine.

 

.

 

Lo scenario alla stazione era lo stesso in cui Italia si era già ritrovato a sguazzare quando lui e Lettonia si erano mescolati alla folla per scaricare le casse di razioni dai treni, prima che Russia decidesse di ripartire per il fronte. Il vapore dei treni impregnava l’aria assieme al soffio della condensa evaporata dalle bocche della folla, dai loro borbottii, dai loro ansiti di tensione. S’innalzò il fischio di un capostazione. Uno dei treni appena giunti frenò la corsa e le rotaie stridettero. Dalla piattaforma non si riusciva a scorgere il cielo tappato dai pennacchi delle locomotive e dalle sagome delle persone schiacciate fra loro e ammassate sul ciglio delle rotaie. Masse di bagagli e di valigie accatastate contro i vagoni spalancati, vicino alle casse appena scaricate, gruppetti di bambini con i cartellini al collo e i fagotti alla mano, squadre di militari che lavoravano sui treni blindati appena giunti alla stazione.

Uno degli uomini che aveva accompagnato Italia sistemò il fucile imbracciato sotto il gomito, lasciò che le persone gli passassero affianco abbassando gli sguardi intimoriti, e mantenne il passo incalzante. “È il Commissariato del Popolo che si sta occupando delle evacuazioni, signore.” Indicò gli autocarri da cui gli operai stavano spostando le casse sul treno corazzato. “Quel treno è riservato all’oro della Banca dello Stato. È uno di quelli che stanno venendo usati anche per smantellare le industrie e reimpiantarle negli Urali, in Siberia e nel Bacino del Volga.”

Italia si strinse nelle spalle per non urtare le altre persone e accelerò il passo per non allontanarsi dai suoi uomini. “E i treni per le persone?” domandò. “Di quelli quanti ce ne sono?”

“Circa una ventina, signore.”

Italia si spinse fuori dalla calca, attraversò la nebbia di vapore, abbandonò la piattaforma, e uscì dalla stazione, ritrovandosi di nuovo affacciato alle strade di Mosca ripulite dai mezzi di trasporto ma gremite di soldati e operai. Si strofinò le mani che cominciavano a gelare come le orecchie e come le guance. Soffiò un sospiro bianco. “Avete notizie dal fronte?”

Il militare giunse le mani dietro la schiena, rigido come un soldatino di stagno. “Si sta costruendo una seconda linea alle spalle di Mosca, nel caso...” Corrugò la fronte sotto il colbacco. “Nel caso la prima rischi di cadere.”

“Alle spalle?” Italia sollevò un sopracciglio, confuso. “Ma...”

L’uomo anticipò la sua domanda. “Ci stiamo preparando all’eventualità di un accerchiamento, non di uno sfondamento diretto.”

“Oh.”

Davanti a loro, gruppi di persone non avevano mai smesso di lavorare finirono di spezzare e sradicare dall’asfalto le rotaie del tram, le caricarono sui furgoni assieme alle travi di legno e ai sacchi di sabbia, e le affidarono a chi si stava occupando di costruire le barricate. Trasportarono anche i vagoni del tram in disuso, reticolati, e grate di ferro con punte acuminate. Gruppi di operai uscivano dalle fabbriche indossando maschere antigas.

“Perché state costruendo le barricate dentro la città?” chiese Italia.

“Perché il rischio che il nemico riesca a penetrare è sempre più alto, signore.” Il militare fece strada. “Stiamo anche costruendo dei fossati nella periferia nel caso si dovessero presentare le formazioni di carri armati.” Distese il braccio a indicare un’altra zona di lavori. “E quelle invece sono tutte postazioni per le mitragliatrici.”

Italia impallidì all’altezza delle guance, improvvisamente raggelato, e allentò il bavero del cappotto per dissolvere la sensazione del nodo alla gola. E io li sto aiutando. Sto aiutando il nemico a difendersi da Germania, invece che aiutare il mio alleato. Ma allora... perché non riesco a fare a meno di pensare che sia questa la cosa giusta da fare? Nonostante tutto, quel pensiero lo intristì. Perché non riesco a sentirmi in colpa?

“Proseguite con i lavori e proseguite con le evacuazioni,” disse ai due uomini che lo stavano scortando. “Radunate gli istruttori militari e dite loro di insegnare agli operai a spegnere le bombe incendiarie e a soccorrere i feriti.”

“Sissignore.”

Italia rimase da solo, in piedi sotto il cielo gonfio di nuvole fitte e grigie come quei pensieri che non gli davano pace. Germania, Romano, perdonatemi. Sto rinunciando a scappare e a tornare da voi per aiutare il nemico. Strinse un pugno sopra il battito del cuore. Non odiatemi per questo. Ma se voi riuscirete ad arrivare a Mosca e a conquistarla, la guerra non finirebbe. Diventerebbe solo più grande. E io invece voglio che tutto questo finisca. Voglio far finire questa guerra, e non succederà mai se continueremo a combatterla con l’odio. Fino a che Russia non sarà di nuovo qui, sarò io a proteggere questa gente.

 

♦♦♦

 

18 ottobre 1941

Fronte di Mozhaisk , Unione Sovietica

 

Prussia artigliò la stoffa di una gamba dei pantaloni, poco più su del ginocchio, indurì i muscoli delle spalle e diede un forte strattone verso l’alto, sradicando il piede dalla distesa di fango che gli arrivava fin sopra lo stivale. Scrollò la suola, schizzando contro uno dei mezzi chinati di lato, con gli pneumatici ingoiati dalla strada, e allungò un passo. Squish! Riaffondò il piede nel pantano e la bocca di fango si spalancò, risucchiandogli di nuovo la gamba fino al ginocchio. Un brivido ghiacciato risalì fino al suo stomaco. Prussia strinse i denti in un grugnito e ingoiò quel senso di disgusto e frustrazione. “Merda.” Scollò l’altro piede dalla strada, calciando via uno schizzo, e allungò una falcata più lunga. “Merda, merda, guarda che gran...” Traballò, perse l’equilibrio per schivare uno dei carri fermi, e finì addosso alla schiena di Austria che sussultò sotto il colpo improvviso. “Ghn, che gran macello, dannazione!”

Austria gli diede un piccolo colpetto di spalla, senza riuscire a scollarselo di dosso, ma scosse il capo e fece più pressione sul cofano del mezzo che lui e altri tre soldati stavano trascinando fuori dal fango. “Continuate a tirare,” disse agli uomini. “Non vi fermate.”

I soldati che reggevano le funi annuirono. Uno di loro arrotolò la sua porzione attorno alle mani callose e scorticate, e si rivolse agli altri due che tenevano i piedi dove il terreno era più asciutto e solido. “Al mio tre. Uno, due...” Gettò le spalle all’indietro e tirò per prima. “Tre! Tirate!”

I tre soldati stropicciarono i volti rossi di fatica, gonfiarono i muscoli delle braccia, tirarono indietro le spalle e ressero le funi fino a far sanguinare le falangi. Austria e Prussia, ancora con le gambe ammollo nel fango, concentrarono ogni grammo di energia bruciante attraverso le braccia e spinsero l’autocarro in avanti, assecondando il tiro dei tre uomini.

Prussia batté le palpebre, scrollò le lacrime di sudore rotolate fin dentro le ciglia, e buttò un rapido sguardo alle sue spalle.

I mezzi militari erano posteggiati sul ciglio della strada, fuori dal fango, e quelli caduti nella melma erano chini di lato, con altri militari tutt’attorno, aggrappati alle funi di corda, circondati dagli schizzi sollevati dai loro passi trascinati all’indietro e dal ruggito delle ruote che giravano a vuoto, allargando le pozze. Gonfi arabeschi di gas trasudavano dagli pneumatici impantanati e sottosforzo. S’innalzò un odore metallico di benzina bruciata e di olio per motori.

Austria compì un passo in avanti, piegò le braccia, mise più forza nelle spalle per aumentare la spinta, e scivolò con un piede.

Prussia gli agguantò il bavero della giacca prima che potesse sbattere la faccia sul cofano. “Ohi.” Lo rimise in piedi. “Non mi annegare.”

Austria raddrizzò la schiena e si riaggiustò il colletto dove Prussia l’aveva sgualcito. “Non ci tengo tanto quanto te, grazie.”

Prussia alzò gli occhi al cielo – smorfiosetta ingrata – e affondò un altro passo in avanti, nella scia collosa scavata dal lento avanzare dell’autocarro.

Uno dei tre soldati che stavano tirando le corde arretrò di due passi, posò la suola sul terreno cedevole, sdrucciolò cadendo sul fianco del compagno, allentò la presa attorno alla sua corda, e l’autocarro tornò a scivolare indietro, verso il fango che lo tratteneva come una ventosa.

“Fermi, fermi,” esclamò Prussia. “Mollate la presa, non ammazzatevi per un dannato carro.”

I tre uomini obbedirono, srotolarono le funi dalle mani consumate dalla corda, e tirarono fiato, rossi in viso e grondanti di sudore. Quello che era scivolato cadde a sedere, il suo compagno gli diede una pacca sulla spalla e lui annuì per rassicurarlo. Tutto bene.

Prussia si massaggiò le braccia, strinse una spalla, fece roteare il gomito, e boccheggiò. Aveva ancora il fango alle ginocchia. “Non possiamo andare avanti così,” brontolò. “Gli uomini sono sfiniti, e sforzando i motori mentre sono sommersi dal fango rischiamo solo di rovinare i filtri e di sprecare inutilmente olio e carburante.”

Austria riprese fiato, si massaggiò le mani che teneva ancora bendate, e corrugò un sopracciglio in una delle sue solite espressioni di scuro disappunto. “La tua soluzione?”

Prussia fece schioccare la lingua fra i denti in un moto di frustrazione. Il fastidio che gli ribolliva dentro era pari alla sensazione umida e molliccia che sentiva quando muoveva le dita dei piedi dentro gli stivali imbevuti di fango freddo. “Tu e gli altri fate fare i turni ai soldati,” ordinò ad Austria. “Non permettetegli di stare troppo con le gambe nel fango o qui ci ritroviamo tutti con i piedi mangiati dall’umidità nel giro di tre giorni.” Agguantò di nuovo la stoffa asciutta dei pantaloni e, dragando nell’ammasso di fango e pozze d’acqua color caffelatte, si portò sul ciglio della strada, sul rialzo solido e asciutto affacciato ai fossati che circumnavigavano le distese di campi spogli.   

Spagna era lì fermo. Osservava impotente un altro gruppetto di soldati che avevano appena guidato un cavallo fuori dal fango, lasciando però il carico delle artiglierie e dei cannoni smontati nel punto dove si era incastrato. La povera bestia tremava, soffiava forte dalle narici dilatate, e spostava il peso da uno zoccolo all’altro, mentre gli uomini gli raschiavano via la terra molle dai garretti e dalle spalle.

Prussia gli si accostò al fianco. “Che situazione, eh?” gli fece. “Paradossale.”

Spagna sollevò un sopracciglio e gli inviò un’occhiata incuriosita. “Paradossale?”

Prussia annuì. Lo sguardo all’orizzonte grigio, i capelli pregni di sudore e umidità incollati alla fronte. “Seccante, direi. Abbiamo vinto a Borodino, abbiamo stabilizzato il fronte fra Volokolamsk e Maloyaroslavets, le linee di difesa sono spezzate, e le nostre divisioni panzer del Gruppo Armate Centro sono a poco più di cento chilometri da Mosca. Stiamo riuscendo dove qualsiasi altro condottiero e conquistatore ha fallito...” Affondò le mani nelle tasche e scosse il capo, amareggiato. “E ora ci si mette questo cazzo di fango a rovinare tutto.” Calciò una zolla di terra più secca.

Spagna si passò una mano fra i capelli umidicci e reclinò il capo per volgere gli occhi ai nuvoloni. “Provvidenza divina?”

“Provvidenza un cazzo,” sputò Prussia. “È la Rasputitsa, come aveva detto Ucraina.” Abbassò il tono, borbottò a denti stretti. “Spero non avesse ragione anche sul resto.”

Spagna fece strada lungo il fossato. Ciondolava, le gambe molli e stanche, gli occhi affaticati e il viso che aveva perso colore. Trovò comunque la forza di abbozzare un sorriso. “Chissà cosa direbbe Francia nel vederci ora, eh?” Diede a Prussia una soffice spallata. “Dici che gli sia già arrivata la notizia?”

“Lo spero.” Prussia si lasciò contagiare dal suo buonumore e ridacchiò, maligno. “E non vedo l’ora di farlo schiattare d’invidia quando saremo a Mosca.”

“E pensare che ci stiamo arrivando assieme. Nonostante tutto quello che ci eravamo detti.”

“I problemi ormai sono altri, no?”

“Infatti. A proposito di problemi...” Lo sguardo di Spagna volò verso gli autocarri ancora integri riservati agli ufficiali, fuori dal fango, posteggiati affianco ai furgoni a cui avevano installato le antenne e le apparecchiature radio. “Di Germania cosa mi dici?”

Anche Prussia guardò verso lo stesso furgone. Il mezzo dove Germania si era isolato per lavorare sulle cartine, sui bollettini spediti dalle altre divisioni, dai fronti dei gruppi d’armata. Fuori c’era solo Romano a fare la guardia. Ciondolava anche lui, passeggiando avanti e indietro, con le mani nelle tasche, la testa china, le palpebre semichiuse, quasi stesse sonnecchiando in piedi.

Prussia sospirò, si strinse nelle spalle. “Cosa dovrei dire?”

“Non lo so,” gli disse Spagna. “È che da quando abbiamo vinto a Borodino lo vedo un po’...” Si strofinò la nuca, incerto. “Un po’ perso. Sicuro che vada tutto bene? Magari è ancora indolenzito e non ce lo dice, magari ha qualche ferita grave che sta trascurando, e considerando la maniera in cui si sono massacrati...”

“Ehi.” Gli occhi vermigli di Prussia ritrovarono la solita ferocia. “Credi sul serio che basti qualche graffietto a metterlo fuori gioco?”

“Per questo te l’ho chiesto.”

Prussia contenne uno sbuffo ma non riuscì a ignorare il brivido di scetticismo che gli aveva scolato la fronte davanti a quelle parole. Rivisse i momenti trascorsi affianco a Germania durante quegli ultimi giorni. I suoi modi taciturni, ancora più del solito, i suoi sguardi sbrigativi e sempre più distanti, quel suo modo di isolarsi nella sua fuligginosa nuvoletta di malumore, le dita sempre aggrappate a quella scheggia metallica, alla croce di ferro di Italia che ormai era un tutt’uno con la sua mano. La ferocia che lo stava abbandonando lasciando spazio a un languido malessere, come quello di un cane da caccia a cui è stata allacciata la catena al collo.

Non andava bene.

Prussia scese dal rialzo del fossato, lasciandosi Spagna alle spalle, marciò a passo incalzante verso Romano e gli inviò un mezzo fischio soffiato fra i denti. “Pst, Roma.” Aspettò che lui si girasse e lo chiamò in disparte con un cenno della mano.

Romano fece roteare lo sguardo, si stropicciò le palpebre, e trascinò i piedi fino a lui. “Che vuoi?”

Prussia si guardò attorno, circospetto – solo Spagna che li osservava da lontano, gli altri soldati che continuavano a lavorare, due gruppetti che si stavano aiutando a vicenda con le casse, tutti gli occhi ben distanti da lui – e si mise a braccia conserte, sfiorandogli la spalla. “Cos’è successo quando tu e West avete combattuto da soli contro Russia?”

Un barlume di lucidità splendette negli occhi assonnati di Romano. Lui ebbe un sussulto, un singhiozzo di ricordo che lo spinse a strofinarsi il petto dove aveva ricevuto il proiettile di striscio, e guardò in disparte. “Perché me lo stai chiedendo?”

“Perché sono preoccupato.” Una folata di vento umido soffiò in faccia a Prussia, rese la sua espressione più rigida. “Perché basterebbe solo un ultimo slancio e saremmo a Mosca, perché proprio ora che abbiamo stabilizzato il fronte ci ritroviamo con il fango alla gola, perché West mi sembra un po’ perso per le sue, e non vorrei che prendesse la decisione sbagliata proprio ora che siamo sul filo del rasoio.”

“E io cosa dovrei...”

“Senti.” Prussia sciolse un braccio dal nodo sul petto, si passò le dita fra i capelli con un gesto lento ed esausto. “Conosco West e so che non è tipo da farsi manipolare, ma conosco anche Russia.” Nei suoi occhi aleggiò una luce più fiacca, apprensiva. “Non vorrei che potesse avergli detto qualcosa per farlo esitare e per mandarlo in paranoia, proprio perché anche lui comincia a sentirsi col fiato sul collo.”

“In paranoia?” Romano grugnì una risata incredula. “Tuo fratello? Ma dai, è...”

Però il ricordo di Russia era ancora vivo, aspro e crudele come tutte le accuse che aveva sparato su entrambi, guardando Germania con quegli occhi magnetici e indecifrabili.“Ormai Italia non sa cosa farsene del vostro legame, non vuole avere più niente a che fare con uno come te che l’ha abbandonato invece che proteggerlo.”

Che lo abbia davvero sconvolto? si domandò Romano. Uno come il crucco messo fuori gioco da qualche cazzata simile? Ma se anche Prussia dice che è così, allora forse...

Romano guardò verso l’autocarro occupato solo da Germania sopra il quale pareva che le nuvole si addensassero, scaricandogli addosso un’aura scura e malevola simile a quella che precede un temporale. Si diede una strofinata alla nuca, arricciò il naso in una smorfia infastidita, e diede le spalle a Prussia incalzando di nuovo la camminata ciondolante. “Vado a parlarci io.”

Si trascinò fino allo sportello del passeggero.

Chinò la testa per infilarsi nell’abitacolo che odorava di pelle, di carta inchiostrata, e di chiuso, spostò una manciata di carte, si lasciò cadere sul sedile del passeggero senza nemmeno guardare Germania, e accavallò le gambe sfiorando il cruscotto con la punta del piede. “Ehi.”

Germania riordinò i bollettini che aveva spostato perché non finissero schiacciati dal peso di Romano. Lo guardò di striscio. “C’è qualche problema?” Con un rapido guizzo della mano, flesse le dita e infilò la croce di ferro di Italia dentro la manica della giacca, facendola sparire.

Romano fece dondolare il piede accavallato, annodò le braccia al petto e vi tamburellò le dita sopra. “Tuo fratello mi ha mandato a controllarti, perché là fuori abbiamo un bel po’ di casini con il fango e non sappiamo dove sbattere la testa.” Fece spallucce. “Vorrà sapere quanto conti che ci impiegheremo prima di arrivare a Mosca e vorrà sapere perché non ci stiamo dando una mossa.”

Germania abbassò le palpebre, contrasse la fronte, si massaggiò una tempia martellante, e abbandonò il capo reclinato sul sedile, sprofondandovi dentro. “Arrivare a Mosca...” Fece scendere la mano, la passò attraverso il viso, e la lasciò lì, a dita divaricate.

L’immagine di Russia continuava a torturarlo come la presenza di un fantasma. Un alito gelido perennemente accostato al suo orecchio, a sibilargli nel sonno e nella veglia come una lingua di serpe. “E se fosse lui quello a non voler tornare assieme a te? Tu hai permesso che lo rapissi, hai lasciato che io uccidessi Romano, e Italia non ti vorrà mai più al suo fianco dopo quello che hai lasciato capitare a lui e a suo fratello. Non vorrà mai più vedere la tua faccia.” A quelle parole si accostò l’immagine di Italia, i suoi occhi arrabbiati, il suo profilo che gli dava la schiena per poi non voltarsi più, il suo corpicino inglobato fra le larghe braccia di Russia, isolato dietro una barriera di ghiacci che nemmeno il passaggio dei panzer sarebbe riuscito a spezzare. 

Non poteva affrontarlo in quel modo.

“Non possiamo ancora sfondare su Mosca.”

Romano arrestò il dondolio del piede. L’espressione vuota e gli occhi fissi davanti a sé. “Non...” Sbatacchiò le palpebre, corrugò un sopracciglio, e si convinse di aver sentito male. “Cosa?”

Germania ripiegò una delle cartine. Parlò con tono fermo e intransigente. “Dobbiamo fermarci, almeno fino a che la stagione del fango non sarà finita. La velocità di marcia ormai si è ridotta quasi a zero chilometri al giorno, e insistere significherebbe solo sprecare uomini, armi e mezzi. Non possiamo permettercelo.”

“M-ma se...”

“Aspetteremo che il freddo indurisca il fango, che lo renda di nuovo transitabile, ne approfitteremo per far riposare i soldati, e poi ci rimetteremo in marcia per coprire l’ultima tratta che ci separa da Mosca.”

“Tu...” Un nodo di rabbia si raggomitolò in fondo al petto di Romano. Ribollì attraverso il sangue, gli arroventò le guance, e gli fece tremare i muscoli contratti. La sua mente si annebbiò. “Tu stai...” Artigliò il sedile di Germania, affondando le unghie nella pelle consumata, e gli esplose contro. “Tu stai aspettando il gelo di proposito?” Il suo urlo riecheggiò nell’abitacolo, fece vibrare i finestrini. “Sei diventato matto o cosa? Vuoi farci morire assiderati? Per di più dopo tutto il sangue che abbiamo sputato per arrivare fino a qui!”

“In queste condizioni non stiamo comunque facendo alcun progresso. Non abbiamo scelta. E in ogni caso...” Germania lo guardò negli occhi senza timore, come se quella sfuriata non l’avesse nemmeno sfiorato. “Nemmeno Russia ha alcuna possibilità scelta. Abbiamo rotto ogni sua linea di difesa. Non può proteggersi, non può ripiegare, non può più far niente per impedire che noi avanziamo. Sto solo rimandando la sua sconfitta. Presto o tardi, sarà lui a soccombere.”

Alla rabbia subentrò un vuoto e più freddo senso di disperazione e d’impotenza. Sotto i piedi di Romano si spalancò il nero senso di vuoto che credeva se ne fosse andato quando aveva stretto la promessa con Germania dopo la vittoria a Borodino. Come se fosse questo l’unico problema. “Ma Russia sta sicuramente tornando Mosca.” Si costrinse a rallentare il respiro. Deglutì. Il cuore gli era salito in gola, pesava come un pezzo di piombo. “Potrebbe far qualcosa a Veneziano.”

“Credi sul serio che non ci abbia pensato?”

“E allora perché ti stai comportando da codardo? Stai guidando una guerra o una scampagnata? Non te la sarai mica fatta sotto per quello che ti ha detto il bastardo, no?”

“Sto solo cercando di essere ragionevole.”

“Tu mi avevi fatto una promessa, dannazione! E ora ti stai tirando indietro con la coda fra le gambe?”

Germania socchiuse le palpebre. Rimase di ghiaccio. Nonostante la furia rovente di Romano, l’interno dell’abitacolo era freddo e scuro. “Se avanzassimo, Romano, dovremmo comunque lasciare indietro i carri, i cannoni e le artiglierie pesanti. Sul serio credi di poter raggiungere Mosca praticamente disarmato?”

Romano impallidì, schiacciato da quello sguardo che pareva averlo incollato allo schienale. “I-io...” Strizzò le unghie fino a sfilacciare la pelle che rivestiva il sedile, e vi scaricò addosso un ultimo brivido d’ira. Sempre ragione lui, cazzo.

Germania distolse lo sguardo. Rimise mano ai bollettini. “L’avanzata è sospesa fino a che il fango non si sarà solidificato.” Sfogliò un paio di carte e ne pareggiò gli orli con secchi colpetti di mano. “Comunicalo anche agli altri.”

Romano tenne la fronte aggrottata, gli occhi brucianti di rabbia, sull’orlo del pianto, e il cuore che scoppiava di risentimento. Fece scattare la maniglia, mollò un calcio al portellone, spalancandolo, e si fiondò giù dall’autocarro. Lo sbatté alle sue spalle – tunf! – il finestrino vibrò sotto quel colpo che avrebbe potuto far venire giù l’intera carrozzeria, e se ne andò pestando i passi sul terreno sempre più molle e sempre più ingordo.

 

♦♦♦

 

19 ottobre 1941

Mosca, Unione Sovietica

 

Appena passato il posto di blocco, Russia spalancò il portellone senza aspettare che l’auto ripartisse. Scese per primo dall’autocarro militare che li aveva riportati tutti a casa, costrinse la schiena a rimanere dritta nonostante le fitte di dolore, e imboccò la corsa lungo le strade sporcate dalla neve nera e molliccia.

Estonia si sporse per primo per raggiungerlo. “Signore, aspetti,” esclamò con tono allarmato. “Cosa dobbiamo...”

“Andate alle stazioni dei treni.” La voce affannata di Russia li raggiunse attraverso la scia di fiato bianco che si stava trascinando alle spalle. “Radunate il Commissariato del Popolo, e fatevi dire tutto quello che sta succedendo e che è successo mentre noi eravamo via.”

“Ma signore...” Estonia posò il primo piede sulla strada. Le dita ancora arpionate alla maniglia del portellone. “Lei ha bisogno di cure, dobbiamo portarla da un medico, e...”

“Non preoccupatevi per me, preoccupatevi della mia gente.”

Bielorussia si arrampicò fra gli spazi dei sedili, sgusciò contro la spalla di Estonia, si appese anche lei al portellone dell’auto, e tese il piede verso terra. “Fratellone, aspetta, vengo...”

“Bielorussia.” Russia si fermò. La bloccò con un solo sguardo. “Rimani con loro e fate tutto quello che vi ho detto.”

Lei gli rimase addosso con quegli occhi imploranti. “M-ma tu...”

“Io devo andare al Cremlino.” Russia serrò i denti per contenere il fiatone, si rimboccò la sciarpa, si chiuse nel suo cordoglio. Se ormai non è troppo tardi.

Si separarono.

Russia s’infilò nelle strade di Mosca, silenzioso, isolato ed evanescente come un fantasma nella sua stessa città. Soffici nuvole bianche sempre più corte e sempre più rapide s’infransero fra le sue labbra secche e impallidite. Italia. Solo quel pensiero gli rimbombava nella testa. Italia è tutto quello che mi è rimasto da questa sconfitta. Se avessi perso anche lui... Ingoiò quel fiotto di terrore amaro come bile. Allora per me sarebbe finita. Non avrei più nulla con cui ricattare Germania, non avrei più nulla con cui pagare il prezzo e riprendermi Ucraina. Si tenne stretto al cappotto, proseguì la sua corsa, e a ogni passo si ritrovò a incassare il dolore bruciante delle ferite ancora aperte che gli prosciugava le forze dai muscoli e dalle ossa, dal suo cuore sfiancato. E non ci sarà più nessuno in grado di far guarire tutte quelle ferite che solo lui è stato in grado di raggiungere.

Tirò su gli occhi, scrutò il cielo di Mosca attraverso le ciocche di capelli sparpagliate contro le palpebre socchiuse, e si ritrovò a fronteggiare le guglie del Cremlino rivestite dal cappotto anti-bombardamento. Le prime briciole di neve cominciarono a fioccare dal cielo, lente, silenziose e inesorabili come la sabbia di una clessidra che si consuma fino al fondo. Non può finire così.

 

.

 

Russia premette il primo passo sulla Piazza Rossa chiusa al traffico, aprì un’impronta sulla distesa di neve – crunch! – e irrigidì le gambe, rimanendo immobile, circondato da quell’aria grigia e nebulosa attraverso la quale spiccava l’alta e mastodontica massa di torri e guglie appartenenti al Cremlino. La Piazza era deserta. Vi regnava un’atmosfera sospesa, un silenzio penetrante interrotto solo dagli ovattanti rintocchi delle campane della Torre del Salvatore.

Nevicava ancora poco. Fiocchi innocui, per nulla freddi, che danzavano leggiadri come petali di cenere.

Russia inspirò l’aria trasudata dal cuore della sua capitale, resistendo alle scosse di dolore che lo punsero dove le ferite erano ancora aperte, e tastò l’odore ferroso di neve, quello dei gas di scarico, e quello del fumo, della carta bruciata.

Da dietro le guglie e le torri del Cremlino foderate dai cappotti antiaerei, sorgevano colonne bitorzolute di fumo nero e pastoso che andavano a sciogliersi contro la cappa di nuvole gonfie di neve. Stavano bruciando gli archivi, tutti i documenti che non dovevano finire in mano nemica quando i tedeschi sarebbero riusciti a penetrare la città.

Quella visione fu una lama d’angoscia nel cuore di Russia. Lo trafisse con lo stesso dolore che aveva provato quando Germania gli aveva conficcato la baionetta nelle costole.

Russia spalancò gli occhi, assorbendo il nero di quel fumo che gli aprì un buco nell’anima. Schiuse le labbra in un ansito muto che lo rese pallido come la neve che rivestiva la piazza. Il terreno mancò sotto i suoi piedi, il vortice di angoscia lo inghiottì, riaprì il dolore di ogni ferita e si allacciò alla gola cicatrizzata di nuovo nascosta dalla sciarpa.

È finita?

Crollò in ginocchio, aprendo altri due solchi nella neve, schiacciato da una sequenza di immagini dolorose come tanti proiettili – Italia scappato da Mosca, il viso sorridente di Ucraina che non avrebbe mai più rivisto, la sua casa calpestata dalle impronte insanguinate del nemico, la sua gente in catene, il suo popolo sterminato sotto gli scoppi delle armi tedesche, le strade di Londra macinate dalla marcia dei panzer, e il Cremlino demolito.

Ho perso. Raccolse il viso fra le mani tremanti, respirò forte, vi soffocò dentro, si accartocciò in avanti come se avesse ricevuto un’ennesima pugnalata allo stomaco, ricadde con le spalle davanti alla sagoma del Cremlino, piccolo e fragile come un fedele davanti a una cattedrale, e il bruciore delle prime lacrime risalì le guance, gli occhi strizzati. Ho perso tutto.

“Russia?”

Un timido e tiepido raggio di sole frantumò la barriera di ghiaccio che stava per cristallizzarsi attorno a Russia. Uno spicchio di luce sbocciato in mezzo alla distesa di nuvoloni che foderava il cielo. Un soffio di speranza nell’alito di morte che stava evaporando dal suolo martoriato di tutta l’Unione Sovietica.

Russia si girò.

Italia era lì, in piedi e fermo come un’ombra, vestito con il cappotto pesante a cui non aveva chiuso il bavero. Lo osservava attraverso la piazza deserta, circondato solo dal soffice biancore del suo respiro e dalla lenta danza di quella neve morbida e tiepida come talco. “Russia, sei...” Mosse un piccolo passo. “Sei tu?”

Russia schiuse le labbra lasciandovi scivolare fuori quel mormorio simile a un singhiozzo nato dal cuore. “Italia.” Si rialzò su una gamba, zoppicò per il dolore alle ferite, tornò a cadere.

“Russia!” Italia gli corse incontro. “Sei tornato! Da quanto sei qui? Perché non mi hanno detto niente?” Cadde in ginocchio anche lui, senza sfiorarlo. I pugni affondati nella neve. “Ma perché sei a Mosca? Cos’è successo al fronte? Ci hanno detto che siete stati costretti ad arretrare e che hanno cominciato a costruire un’altra linea di difesa e...” Un lampo gli esplose dentro, fu un vuoto nel petto. “Ti sei già battuto con Germania.”

Il ricordo della battaglia a Borodino fu un pugno affondato nelle viscere di Russia, sale gettato sulle ferite fresche. Lui respirò a fatica. “Sì.”

“Ma allora... allora sei sopravvissuto. No, un momento, cos’è successo a Germania? È ferito anche lui? E Romano? Ma se ti hanno sconfitto allora perché ti hanno lasciato andare? E...” Gli si appese alle spalle. “Ti prego.” La sua voce assunse un tono di supplica. “Ti prego dimmi cos’è successo.”

Russia rimase in silenzio, scosso dai tremori di quelle manine appese ai suoi avambracci. Guardò Italia con occhi lucidi e profondi da cui traspariva tutto il suo dolore. Lo guardò come aveva guardato le guglie del Cremlino non appena aveva posato piede sulla Piazza Rossa, con lo stesso trasporto. “Sei ancora qui.” Gli raccolse il viso fra le mani, si specchiò nei suoi occhi. “Perché sei ancora qui? Saresti potuto fuggire.” Rivisse il brivido di quel pensiero. “Perché non sei scappato?”

“P-perché...” Italia chinò il capo, lasciandosi sorreggere dai palmi di Russia grandi come le sue guance. “Perché queste persone avevano bisogno di me.”

“Ma non sono il tuo popolo.” Russia continuava a non capire. “Non sono la tua gente. Perché hai accettato di aiutare dei tuoi nemici piuttosto che tornare dai tuoi alleati?”

Italia scosse il capo. “Perché era la cosa giusta da fare, anche se non era quello che desideravo io.”

Nonostante la fronte abbassata, Russia riuscì comunque a penetrare il suo sguardo, a raggiungere quegli occhi buoni, quel suo animo senza macchia e senza imbroglio, di un’ingenuità disarmante, persino ridicola, che però era tutto quello di cui aveva bisogno. Italia è rimasto. Lo catturò in un avido abbraccio dominato dalla paura e dalla gratitudine nel quale soffocarono entrambi. Le mani di Russia si aggrapparono alla sua schiena, granitiche, terrorizzate dall’idea di lasciarselo scivolare dalle braccia, dall’idea che potesse scappare come un coniglietto saltato giù dal grembo. È rimasto nonostante sarebbe stato facile per lui scappare in mezzo a tutta questa confusione e tornare libero. Lo ha fatto davvero per me, oppure è stato solo l’istinto guidato dal potere lenitivo della sua anima?

“Russia, cosa...” Italia sollevò il viso dalla sua spalla, girò il capo per cercargli lo sguardo e gli sfregò la guancia sulla sciarpa. “Cos’è successo fra te e Germania?”

Russia risollevò il capo con un sospiro. Gli occhi ancora bassi, volti altrove, lontani dalle parole di Italia, bui come il cielo soffocato dal fumo che li sovrastava. Italia non è nato per seminare guerra, ma per portare pace. Intrecciò le dita alla mano guarita di Italia, gliela raccolse, ne distese le falangi come quando vi aveva posato le labbra sopra, e tornò ad accostarla al viso. Vi annegò dentro. Per questo è rimasto. Lui ha percepito il dolore e la paura della mia nazione e non ha potuto fare a meno di seguire il suo cuore invece che la sua testa. Ecco perché Germania non riesce a staccarsene. Perché Germania è una nazione triste e disperata tanto quanto me, e ha bisogno di Italia per sopravvivere nel mondo di guerra e odio sul quale lui stesso ha deciso di fondare il suo popolo. Una fiammella d’astuzia si accese in quella distesa di gelo senza fine. Gli angoli delle labbra di Russia s’inarcarono sotto il palmo di Italia, attraversate da un familiare formicolio. Germania potrà anche aver vinto questa battaglia, ma Italia è ancora in mano mia. E sarò io a dimostrargli in che modo va sfruttata una tale arma.

“Germania...” Una maschera di dolore e compassione scivolò sul volto di Russia, cancellò il sorriso ancora prima che potesse sbocciare. “Germania ormai ti ha abbandonato, Italia.”

Italia sgranò gli occhi, impallidì, il cuore gli cadde nello stomaco con un tonfo sordo che cancellò ogni sibilo dalle sue orecchie, ogni soffio di Mosca, ogni respiro dei suoi abitanti. Gli rimase la bocca amara e impastata. Un giramento di testa fece vorticare la piazza attorno a lui. Addensò la caduta della neve che divenne sgranata e simile al rumore bianco di una radio sintonizzata male. “N-no.” Italia strappò la mano da quelle di Russia e tirò le ginocchia all’indietro, scivolando fra la neve. “No, non è vero.” La condensa del suo fiato tremolò, sminuzzata dal battere dei suoi denti. “È impossibile, lui...”

“Abbiamo combattuto,” gli confessò Russia. “È stato lui a dirmelo, è stato lui a farmelo capire.”

“Non è vero!” Italia si tappò le orecchie, scosse il capo. “Non è vero, è una bugia, stai solo cercando di...”

“Si è ripreso la croce.”

Italia ingoiò un singhiozzo di fiato. “Eh...” Sollevò le mani dalle orecchie, batté le palpebre, soffiò un mormorio bianco. “C-cosa?”

“La croce di ferro.” Russia tornò a raccogliergli la mano guarita in un gesto di solidarietà. “Me l’ha rubata, ha detto che a te non servirà più, che ormai il vostro legame non significa più niente, e che non avrebbe comunque intenzione di riaffidarla a qualcuno che si è fatto catturare così facilmente e che ormai è indegno dell’alleanza.”

Non ascoltarlo, si ripeté Italia. Ti vuole ingannare, ti vuole solo... Ma quella vocina dentro di lui era sempre più fragile e indecisa.

“No.” Italia si aggrappò agli ultimi ricordi di Germania, andò in cerca di quel conforto, ma la sua immagine apparve soffusa e distorta, circondata dalla lattiginosa nebbiolina della distanza. I veri ricordi sbiadirono, si mescolarono alle immagini evocate dalle parole di Russia. I timidi occhi azzurri di Germania divennero freddi e distaccati, lo sguardo ostile rivolto al campo di battaglia e non a Italia, il ricordo del suo tocco e delle sue carezze fin troppo lontano per riuscire a percepirne il tepore. Italia vacillò. “No, non è possibile, lui...” La mano di Russia, grande e nerboruta come quella di Germania, strinse sulla sua e scaricò una scossa di gelo e solitudine che arrivò fino al cuore, stendendo sugli occhi di Italia una gelida e distorta lastra di bugie. Italia soffiò condensa, intrappolato in quell’artiglio di ghiaccio che si era già aggrappato al suo animo. Rabbrividì, lasciò che la neve si depositasse sulle sue spalle, sui suoi capelli, e si arrese a quel freddo, a quella prigione che gli impediva di continuare a lottare. “Mi ha davvero abbandonato?” Le prime lacrime risalirono gli occhi ma si cristallizzarono fra le ciglia, fragili come fiocchi di ghiaccio.

Russia annuì. “È così.” Sovrappose anche l’altra mano a quella di Italia. Gli stette vicino. “Non ha intenzione di riportarti a casa, non ha intenzione di liberare Ucraina, perché altrimenti la sua strategia fallirebbe. Devi rassegnarti, Italia, perché è come ti ho già detto: Germania anteporrà sempre la guerra a tutto.” Scosse il capo. “E tu non ti meriti un alleato così. Non dopo tutto quello che hai già patito per colpa sua.”

Un primo singhiozzo scosse il corpicino di Italia, infranse il sottile e farinoso strato di neve che gli si era depositato sulle spalle. “E cosa...” Strinse un pugno e lo strofinò sugli occhi lacrimanti. “Cosa faccio, adesso? Non ho dove andare, non ho un posto in cui tornare.”

“Ma hai un posto in cui restare.”

“Ma...” Un ultimo filo ancora lo tratteneva, gli impediva di lasciarsi cadere inerte fra le braccia di Russia. “E la mia nazione? E mio fratello?”

“Proprio perché Romano è una parte di te, non dovrai più preoccuparti della sorte del tuo paese. Sarà lui a prendere il tuo posto.” Russia gli sfiorò la fronte con la sua, gli stette addosso con quegli occhi ipnotici e risucchianti. “Accetta il tuo destino, Italia, tu non sei un’anima fatta per i conflitti, per le guerre, per l’odio e per la violenza. Tu non meriti una sorte simile. Ma di questo te ne rendi conto da solo, vero? Sei stato tu stesso a dirmi quant’è difficile per te affrontare le crudeltà dei conflitti.”

“S-sì. È vero, ma...”

“Se tu stessi qua con me per sempre, io non permetterei mai che ti accadesse qualcosa di male. Io ti proteggerei, al contrario di Germania, e saprei dare valore alla tua vera natura, alla ragione per la quale tu esisti e che lui ha sempre dato per scontato.”

“E quale sarebbe?”

“Lenire il dolore degli altri.”

Il gelo di Mosca entrò come una scheggia nel cuore di Italia, corruppe il suo animo, distorse i suoi pensieri. Fu come guardare attraverso un vetro incrostato di ghiaccio. Allora... allora è sempre stato così, senza che io me ne rendessi conto? Germania mi ha sempre e solo sfruttato? È solo per questo che ha accettato di allearsi di nuovo con me? E se Russia avesse ragione? Se io non fossi davvero fatto per la guerra, anche se sono una nazione? L’unico modo per essere felice è davvero abbandonarmi alla protezione di qualcun altro? Batté le ciglia imbiancate di neve e un’ultima scintilla di lucidità saettò attraverso le iridi ancora tiepide, color ambra. Ma davvero mi andrebbe bene una vita del genere? Che ne sarebbe di tutti i miei sforzi e di tutte le sofferenze che sia io che Romano abbiamo patito per farci rispettare e accettare dal resto del mondo?

Le labbra di Russia si accostarono alla sua fronte. “Rimani con me, Italia.” Lo strato di neve su cui premevano le loro ginocchia s’indurì, assunse riflessi azzurrini. La farina di neve s’innalzò sotto una folata di vento e compì un vortice attorno a Russia e a Italia, isolandoli nella morsa di gelo che stava per calare su tutta Mosca. “E io saprò custodirti in un luogo dove non esiste né dolore né nulla che possa farti del male, dove non dovrai combattere alcuna guerra e dove non cambia mai nulla. Tutto rimane fermo. Fermo e perfetto, proprio come un ghiaccio che nessuno può né infrangere né disturbare.”

Ogni difesa di Italia cadde. Il ghiaccio imprigionò il suo animo, rese i suoi occhi freddi e privi di vita come gusci di vetro, risucchiò ogni speranza dal suo cuore, ogni desiderio di rialzarsi e di tornare ad abbracciare Germania. Di lui non rimase altro che un involucro. “Come farai per difendere Mosca?”

Russia guadagnò un respiro profondo, questa volta senza più sentire alcun dolore provenire dalle ferite, e spostò gli occhi sul panorama della Piazza Rossa. L’aria brillò attorno alla sagoma del Cremlino che apparve di nuovo solida e carica di luce, con le punte delle guglie e delle torri affondate nelle nubi. Lo rese di nuovo padrone di casa sua. “Sarò disposto a versare fino all’ultima goccia del mio sangue pur di proteggerla. Mosca non si arrenderà, e i miei uomini combatteranno anche casa per casa pur di respingere gli invasori.” Il vento carico di nevischio gli turbinò attorno, le schegge di ghiaccio gli sfregiarono le guance, depositarono un forte sapore metallico fra le guance, gli impolverarono i capelli di bianco, e risanarono le ferite sotto gli abiti. Il cuore di Mosca gli batté sotto le ginocchia e di nuovo dentro di lui. “Ora che lo stato d’assedio è stato ufficializzato, ci prepareremo per una vera e propria guerra invernale. Invieremo i soldati nelle foreste, faremo proteggere le retrovie e ogni fronte di difesa.” E comincerò fin da subito. Russia socchiuse le palpebre per visualizzare il suo territorio ancora intatto. Creerò delle linee di difesa più corte, in modo da concentrare le forze e da non disperderle inutilmente. Una da Kalinin a Tula, e l’altra da Klin a Svenigorod, in modo da formare un semicerchio attorno a Mosca. Premette un piede a terra, senza che il ginocchio traballasse, e si rimise in piedi. La sua stazza alta e imponente contro il profilo fumante del Cremlino. Incrementerò gli sbarramenti difensivi, assicurerò sia i rifornimenti che i servizi tecnici alle truppe al fronte. Organizzerò ricognizioni aeree e terrestri, smuoverò le riserve, stenderò le linee telefoniche e telegrafiche, e sposterò lo Stato Maggiore a Perchuskovo. E soprattutto risolleverò il morale di tutti i cittadini. Sono loro la mia vera forza, e non posso permettere che si perdano d’animo. Farò vedere a Germania di cos’è capace il mio popolo. Sorrise da sotto la sciarpa. Ritrovò quel sottile taglio fra le labbra che era rinato assieme a lui e al ghiaccio che lo circondava. Ma Germania deve ancora affrontare la mia arma più potente. L’unico nemico di cui deve avere paura e che ha disintegrato interi eserciti in passato e che continuerà a mietere vittime finché sarò io a possedere queste terre.

“Preparati, Italia.” Russia si lasciò accogliere dalla doppia ala di vento e nevischio fischiata contro i suoi fianchi. La neve e il fumo si gonfiarono alle sue spalle, crebbero contro il cielo, toccarono le nubi, e si dilatarono su tutta Mosca. Russia chiuse gli occhi e si abbandonò a un sorriso sereno, dolcissimo. “È arrivato l’inverno.”

Gli occhi di ghiaccio del Generale Inverno si spalancarono dalla nube di neve e fumo. Le sue braccia si stiracchiarono, spalancarono le mani callose, i lembi del suo pastrano sventolarono sotto le raffiche di vento spostate dal suo respiro, la sua ombra cadde sulla Piazza Rossa e ne fece tremare il suolo. Il Generale Inverno spalancò la bocca e scagliò il suo ruggito attraverso Mosca, ne fece vibrare i tetti innevati, le finestre ghiacciate, spogliò gli alberi delle ultime foglie, graffiò i volti scoperti delle persone, congelò i loro arti, ed estese il suo splendido e mortale candore su tutta l’Unione Sovietica.





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