I
walked through the fire and I fly
through the smoke:
mama, I'm a voodoo child.
1.
Life
La
nonna di Abel Mahogany sosteneva che nella vita ci fossero due tipi di
scelte: quelle obbligate dalle circostanze e quelle fatte
d’istinto. A volte
certo erano connesse, ma di una cosa la vecchia signora Abigail era
sicura: le
decisioni istintive erano le migliori. Difficilmente alla fine dei
conti si
arrivava a rimpiangere di averle prese.
Anche se a fatto compiuto e
ragionandoci a mente fredda sembravano azzardate, persino stupide,
secondo lei
negli anni a seguire si riusciva a vedere ogni azione passata sotto
un’altra
prospettiva, in uno dei tanti resoconti che si facevano nella vita:
difficilmente, a quel punto, ci si pentiva del proprio istinto.
Viceversa, i pensieri troppo
ponderati, lasciati a macerare come una pozione misteriosa nella testa,
non
portavano mai a nulla di buono.
Tim Westfield aveva conosciuto la
simpatica nonnina in una delle numerose occasioni in cui era andato a
trovarla
con Abel, in ognuna delle quali lei lo aveva messo a parte di cose e
opinioni
sorprendenti: più volte gli aveva confessato di vedere
l’angelo custode del
ragazzo e altrettanto spesso ammetteva che il giovane Timmy, come lo
chiamava,
era buono sebbene fondamentalmente sfortunato. Tim però, con
il suo cognome dal
sapore inglese, la cadenza ignorante della Louisiana e la sequela
effettivamente incontestabile di sfighe, manifestava le sue rimostranze
verso
la bontà delle scelte d’istinto con la stessa
sicurezza con cui sapeva di non
avere alcun angelo custode – lo avesse avuto davvero, data la
posizione infima
del suo umano assistito, la creatura paradisiaca avrebbe dovuto ormai
da tempo
fare qualcosa a riguardo, a meno che non fosse un sadico bastardo, il
che
effettivamente poteva spiegare il prolungato sciopero angelico di ben
ventun
anni, più o meno da quando Tim Westfield era nato.
Allo stesso modo, però, in quella
sera di giugno il giovane della Louisiana in realtà avrebbe
comunque voluto
trovare un fondo di verità, sicuramente più
plausibile rispetto al presunto
angelo custode, per quanto riguardava tutta quella storia delle scelte
d’istinto decantata da nonna Abigail. Proprio
perché si trovava nella
condizione di aver fatto una scelta d’istinto poche ore
prima, più precisamente
nella fase disperatissima del ‘rielabora a mente fredda
quello che hai appena
fatto, idiota’, dunque con conseguente realizzazione di aver
compiuto forse una
delle più grandi cazzate della sua vita. E, in proporzione,
considerando che di
cazzate ne aveva fatte davvero tante per aver superato da poco la
soglia dei
due decenni di vita, si trattava veramente di una cosa apocalittica.
“Akash mi ammazza. Non mi assumerà
più” dichiarò all’improvviso,
quasi fosse un’enunciazione scientifica. Fredda,
senza inflessioni patetiche. Si mise un braccio dietro la testa e
fissò il
soffitto: tappezzeria anni ‘60 dalle sfumature color senape,
ventilatore
inutilizzato da chissà quanti anni appeso sopra le loro
teste e mobilio scarno
tipico di uno dei tanti motel a cavallo tra New York e Pittsburgh.
“Non ti ammazza, non ci perderà
tempo” assicurò Abel con tranquillità,
tirandosi su a sedere dopo aver
schiacciato il cuscino piatto. Cercò la sigaretta
elettronica che da qualche
anno aveva cominciato a utilizzare al posto del tabacco, più
o meno da quando
nonna Abigail gli aveva detto che era troppo giovane per morire di
cancro ai
polmoni e lui si era spaventato a morte; già, a morte, tanto
per rimanere in
tema. Ciononostante, non aveva smesso davvero di fumare,
accontentandosi di
quel palliativo ingombrante e dagli odori mentolati. Abel era uno che
più gli
si diceva di non fare qualcosa, più si ostinava a farla;
magari cambiando
qualche carta in tavola, ma la mano rimaneva sempre la sua, con il suo
personalissimo tocco, vincente o perdente che fosse.
“Beh, bella roba. Io intanto sono
senza lavoro; mi mantieni tu? Tuo papà? Tua nonna?
L’angelo custode
fancazzista?” replicò Tim incattivito, reagendo in
maniera più feroce del
solito quando si sentiva messo all’angolo.
Abel voltò la testa verso di lui, lo
guardò dall’alto verso il basso. Fece un mezzo
sorriso, per poi espirare tra le
labbra la nuvola al mentolo, dando prova della sua incrollabile
pazienza, al
contrario di quel ragazzetto più giovane di sei anni,
più magro per quanto alto
quanto lui, e decisamente più biondo, anche se non
altrettanto pallido.
“Io. Ti mantengo io. Troveremo un
altro lavoro, Timmy. Quell’indiano di merda era un coglione,
un approfittatore
arrivista che ti sfruttava e basta. Ti pagherà pure gli
arretrati che ti deve,
vedrai.”
Tim lo guardò, per poi tirarsi a sua
volta a sedere e, nudo, incrociare le gambe rivolto verso
l’altro.
“Come fai?”
“A fare cosa?” domandò Abel,
ridacchiando placido.
“A essere così. Tranquillo, sicuro
che le cose andranno in maniera spettacolosa quando, concedimelo, sono
proprio
una merda.”
Gli fissò i capelli scuri e mossi,
lunghi fino alle orecchie, selvaggi, gli occhi altrettanto neri e la
pelle di
contrasto bianca, di chi stava sempre in soffitta – a volte
Tim pensava che
Abel avesse una relazione con il suo attico polveroso, che odorava di
acqua
ragia, vernici e polvere di marmo, piuttosto che con lui – e
usciva la notte,
quando faceva meno caldo e incontrava più gente
interessante. Provò un moto
d’amore, ma anche d’odio, in
quell’equilibrio cosmico che da tre anni a quella
parte reggeva la loro strana eppure intensa relazione.
Volle schiaffeggiarlo, perché era un
ricco figlio di puttana, però desiderò anche
baciarlo, perché era il più
altruista, intelligente e devoto ricco figlio di puttana che conoscesse.
Davanti a lui sentiva davvero di
avere ventun anni e non di essere un vecchio precoce, di quelli troppo
stanchi
e troppo cinici; la cosa lo spaventava e lo elettrizzava allo stesso
tempo,
dandogli un sapore di genuina invidia per tutti i soldi che lui aveva,
la casa,
il futuro, misto a un senso di karmika soddisfazione, perché
se c’era una
persona che si meritava tutto, quella era Abel. Idealista ma mai
sprovveduto,
artista eppure coi piedi per terra nella determinazione di andare
avanti, a
qualunque costo. Egocentrico fino all’infinito ma appunto
generoso e capace di
coltivare i rapporti, anche a distanze che Tim considerava
interplanetarie. Lo
amava nei suoi infiniti contrasti, sebbene a volte
quell’amore lo facesse
riflettere sulle proprie insoddisfazioni.
Si grattò la profonda cicatrice
sopra il sopracciglio destro, che gli pesava sulla palpebra conferendo
all’occhio un aspetto più stanco rispetto alla sua
controparte sinistra, poi
sospirò e si trattenne dal dire altro, perché in
quel momento, in quel merdoso
motel disperso chissà dove c’era Abel con lui,
nonostante i progetti in corso,
la scultura lasciata a metà e tutta la vita rimasta sospesa
nel suo attico a
SoHo.
Lo vide aspirare da quello che gli
ricordava un detonatore per bombe e poi prendergli la mano, facendogli
smettere
di grattarsi; allora Tim sospirò ancora, come se fosse una
stupida questione di
principio, o di sofferta rassegnazione.
“Amore – come riusciva a non essere
nauseante anche chiamandolo con un vezzeggiativo simile? Come?
– Sono
così perché mi rende felice l’idea che
tu ti sia levato dal cazzo. Quel posto
faceva schifo. Dai: vendita di pneumatici, un sacco riparati con
materiale
scadente. È solo perché paga la gente giusta che
quel posto non ha ancora
chiuso e lui non è andato dietro le sbarre; woh, a quanto
pare questo cazzone
di Akash paga tutti, tranne i suoi dipendenti.”
I due si guardarono, nel silenzio
notturno della stanza, eccetto per il ronzio del frigo minuscolo che
odorava di
muffa, con dentro una bottiglietta d’acqua presa alle
macchinette: tutto, di
quel viaggio, era davvero d’improvvisazione e di fortuna.
Dopodiché,
scoppiarono istintivamente a ridere. Allora Abel lasciò
andare la sigaretta
elettronica e baciò Tim, senza impeto euforico ma comunque
con trasporto,
dotato di quel fascino leggero e impalpabile della sua persona, che
sembrava
perennemente destinata un futuro più grande, sebbene
confinata in una stanza
decadente con un ventunenne solo e carico di delusioni. Un martire
innamorato –
innamorato... forse; Tim aveva dubbi persino su quello
– che aveva deciso
di immolarsi per rendere migliore la vita di quel ragazzo spiantato,
coi
capelli pallidi al pari della pelle lunare di un amante delle soffitte.
Lo baciò e fecero l’amore, anche se
erano stanchi dopo un viaggio fatto sull’onda di quelle
famose scelte istintive
eppure con un obiettivo preciso, sebbene rimandato da troppo tempo.
Dopo ulteriori baci, carezze e in
procinto di spingersi oltre, Abel guardò Timmy, abbracciato
a sé, gli portò
all’indietro i capelli lunghi incollati dall’afa e
dal calore di ciò che erano,
assieme; gli accarezzò il sopracciglio deformato dalla
cicatrice, passando il
pollice lungo il collo magro, dove vedeva le vene pulsare e il pomo
d’Adamo
sporgente spingere per scacciare la saliva scarsa.
Così arrabbiato, ferito, disilluso.
A ventun anni. Pensava al lavoro mal pagato e pagato in ritardo, non si
ribellava allo sfruttamento, anche se dentro piangeva e fuori urlava,
scaraventava quel poco che aveva perché forse il nulla era
meglio. Ma anche così…
ah, era pieno d’idee, di fantasie, di racconti. Raccontava
tanto, e bene.
Storie della Louisiana, della mama Hazika che praticava il vodoo e
usava le
ossa di pollo, storie di quando riusciva a prendere con sua sorella il
bus fino
a New Orleans e vedere il Mardi Gras, storie della cucina creola di sua
mamma,
delle discendenze francesi dei nonni, della zona palustre in cui
sognava di
cavalcare alligatori misteriosi fino al vicino lago Pontchartrain.
Lo amò e lo sentì gemere,
innamorandosi della passione con cui sconfiggeva la sua condizione di
‘sfortunato Timmy ignorato dal suo angelo custode’.
Abel credette che anche
quello fosse un suo racconto speciale, per ricordargli che persino lui
sapeva
amare.
Poi, all’improvviso squillò il
cellulare, mentre lo stavano facendo e il letto cigolava con trasporto,
la
testiera sbatteva contro il muro e ansimavano, ignorando
l’unica suoneria
collegata a una persona specifica che Tim si fosse scomodato a mettere
nel
cellulare modello ultrabase.
Lasciarono che Lady Gaga continuasse
a cantare e in un certo senso fu divertente. Abel guardò
Tim, il quale però gli
mise una mano sulla bocca, impedendogli di ridere anche se stava
scoppiando a
ridere a sua volta, ma soprattutto di chiedergli cose come vuoi
rispondere?
“No” gli disse solo, ansimando. Poi
gli tolse la mano e lo baciò, un bacio sconnesso,
esattamente come era
sconnesso, assetato, il modo in cui si cercavano.
Quando Tim venne, Lady Gaga aveva
già smesso da un pezzo di suonare e il cellulare giaceva
ormai silenzioso sul
comodino.
Abe.
Mormorò flebile, girando gli occhi
verso il soffitto, quasi stesse per morirci. Metteva
un’intensità incredibile
durante l’orgasmo; chiamava Abel abbreviandogli il nome,
quasi non avesse più
fiato ma prima di andarsene volesse comunque avere tempo di ricordarsi
del suo
compagno un’ultima volta.
Questi lo guardò, non chiuse un
istante gli occhi, anche se aveva le lacrime e sentiva il sudore contro
le
cosce e la fronte. Pensò che gli avrebbe fatto una statua,
nonostante la
promessa di non ritrarlo più. Ebbe a sua volta un orgasmo,
però... un po’ si
vergognò, per non essere altrettanto intenso, con
l’impressione irrazionale che
Tim potesse ritenere di non piacergli abbastanza. Westfield era fatto
così:
pensava di se stesso come un passatempo, un viaggio effimero con un
ritorno
senza di lui, ma non perdeva mai tempo a lamentarsene, dandolo per
scontato,
come se non gliene importasse particolarmente. Ragionava da vecchio
veterano
rassegnato, congedato dal sistema.
Il ragazzino della Louisiana si alzò
infatti in piedi in fretta una volta che ebbero finito, legandosi i
capelli
come faceva d’abitudine per farsi la doccia. Sembrava non ci
fosse sentimento
in lui eccetto un tiepido distacco, terminato, esaurito in una
supernova
universale dopo aver fatto l’amore, quando prima era stato
passione e sorrideva
cercando paradossalmente di non farlo.
Abel si passò allora una mano sul
volto, poi lo guardò prendere il cellulare e cambiare
espressione.
“Perché mi ha chiamato?”
Tim sembrò chiederlo a se stesso.
Forse era così.
Abel si alzò in piedi ravvivandosi i
capelli ondulati, anche se erano schiacciati dal cuscino e dal sesso, e
frugò
nella tasca dei pantaloni per porgergli il proprio cellulare,
anticipandolo su
tutta la linea.
“Richiamala.”
Tim roteò gli occhi, con un senso di
fastidio. Poi annuì e mormorò una sorta di
grazie, tenendosi una mano sulle
costole: quasi si abbracciava per suonare le ossa leggermente
sporgenti, simili
a tasti di un vecchio pianoforte da saloon. I suoi muscoli nervosi, i
tendini
del collo, ogni cosa sembrava tendersi fino a fargli spiccare il volo.
Compose il numero ricordato a
memoria, per tutte le volte in cui l’aveva cercata
in un bar o a casa di
qualcuno così da dirle che stava bene.
Guardò Abel che, fermo con una mano
nel suo caso sul fianco, in attesa lo osservava a sua volta,
l’espressione
intensa eppure placida capace di placare Tim, le sue paure,
l’ansia e la
rabbia.
Dopo diversi squilli rispose una
voce maschile, che Tim conosceva bene, ed era così vibrante
da assordarlo:
“È nata! Gesù Signore, è
nata, è
nata cazzo!”
Abel sgranò gli occhi scuri prima
ancora di Tim e gli afferrò un braccio. Questi non si mosse.
Aprì una volta la
bocca asciutta e annuì, senza smettere di fissare il
compagno.
“Ellie sta bene? La bimba anche?”
Domandò alla fine e sentì dall’altra
parte Steve Wu, cinese di seconda generazione nato negli U.S.A.,
compagno e ora
padre devoto... piangere. Tim seppe che era un buon
pianto e, sollevato,
senza pensarci si sedette per terra, espirando mentre il cuore batteva
impazzito nel petto svuotato.
“Sta bene, Timmy, stanno bene tutt’e
due. Quando smetto di tremare e tua sorella riprende a capirci qualcosa
ti...
ti mando un sacco di foto. Oddio, oddio, ci pensi? Sophie. Vuol dire
sapienza,
lo sapevi? Ellie si è letta un sacco di cose.”
Disse qualcos’altro e Tim lo
ascoltò, mentre Abel gli si sedeva accanto, appoggiando la
testa su quella del
compagno per ascoltare a sua volta, anche se Steve parlava con
sufficiente
energia da sentirsi benissimo anche a distanza.
“Ok, ok, Steve, non preoccuparti.
Quando riesci. Salutamele. Sapevo che... che non sarei riuscito ad
arrivare
prima del parto ma un po’ ci speravo.”
Lo sentì ridere leggero dall’altra
parte del telefono: “Arrivare? Ma dove sei? Con Abel,
giusto?”
Per qualche istante, Tim una volta
di più realizzò che sua sorella aveva memorizzato
in rubrica il numero di Abel.
Evidentemente, lei ci credeva più di quanto ci credesse lui.
“Sono in viaggio. Veniamo a
trovarvi. Ma è una sorpresa, non dirlo a Ellie.”
Sentì qualche esclamazione di
deliziosa sorpresa da parte di Steve e pensò che come sempre
era l’uomo capace
di esprimere maggiore genuino entusiasmo sulla faccia della Terra. Sua
sorella
era una donna fortunata, finalmente.
Dopodiché lo udì zittirsi e
abbassare il tono di voce: “Contaci. Ma e con Apu
– sempre adorabilmente
ironico sentire un asiatico ironizzare sugli stereotipi degli indiani,
specie
se quell’indiano era un pezzo di merda come Akash –
come hai fatto? Ti ha dato
giorni di ferie?”
Lo disse senza nemmeno crederci
davvero, eppure fu in grado di manifestare una sorta di stupore quasi
ingenuo.
“Sì. In un certo senso sì”
mentì.
Avvertì il respiro caldo di Abel, cadenzato e calmo.
“Bene. Bene. Grandissimo –
tacque un istante, poi si sentì un fruscio e uno scambio di
parole – aspetta.
Aspetta, te la passo.”
Suo malgrado Tim sorrise. Si grattò
la cicatrice, ma Abel si tolse dall’appoggio e lo
fermò, scuotendo la testa con
quel fare tranquillo, vagamente divertito eppure ammonitore che gli era
proprio
in quei casi.
“Ehi” disse la voce di Ellie, un po’
stanca, ma felice.
“Ehi” replicò l’altro. La sua
era
incrinata, sbeccata da quell’impatto imprevisto con il suo
maltrattato
lavandino intasato di emozioni.
“È una cicciona. Oltre nove libbre*.
Secondo me diventa una bella biondona come te e la mamma.”
Tim rise e Abel si morse un labbro,
fotografandolo nella sua testa.
“Una bionda cinese non s’è mai
vista, entrerebbe nella storia. Mamma la adorerebbe.”
“Timmy...” mormorò dopo un istante,
con la risata che si spense lenta, un fuoco dopo lo scintillio di un
nuovo
ciocco di legno.
“Riposati. Io sto bene. Mi mancate, Signore
Wu.”
“Anche tu, baby, anche tu. Dai un
abbraccio ad Abel da parte nostra. Steve ti manderà una foto
di Sophie, anche
se è rossa e piena di rughe – ridacchiò
e aggiunse – non mia eh. Faccio schifo.
La mia foto domani, dammi il tempo di riprendermi”
sospirò, con fare fintamente
drammatico.
Si salutarono e Tim chiuse la
telefonata dopo un ultimo saluto di Steve.
Nuovamente avvolto dal silenzio, si
grattò un gomito:
“Come si chiamano i mulatti quando
sono cinesi e... americani? Mah, non proprio americani. Creoli?
Francesi?” domandò
a caso, senza che realmente gli interessasse.
Si alzò poi in piedi, con Abel che
lo guardò. Disfò la coda, lasciandosi
l’elastico al polso, infine si massaggiò
il collo. Abel notò che sul proprio telefono erano arrivate
una serie di foto
di Sophie, una delle quali ritraeva in pieno anche la mamma che cercava
di
guardare altrove per non essere catturata dall’obiettivo.
“Saremo gli zii che la porteranno
alle mostre d’arte, a teatro, a vedere le drag queen
più fighe del pianeta” annunciò,
distendendo le gambe sul pavimento fresco, come se facesse una
previsione ormai
certa. Sembrava un divo o un Gesù moderno, forse entrambe le
cose. Tim schioccò
la lingua, gli prese il cellulare quasi con stanchezza, quasi non
volesse
davvero vedere le foto.
“Tu e la convinzione che il tuo
mondo queer sia speciale. Siamo solo ricchioni,
Abel, non c’è nulla di cui
vantarsi.”
L’altro gli dette un calcio alla
caviglia, leggero, una sorta di pacca, e replicò:
“Se siamo solo ricchioni
allora perché non ci lasciano in pace e siamo ancora
costretti a manifestare
per i nostri diritti? Domani ti porto in un posto figo,
amore” decretò
all’improvviso, in uno dei suoi infiniti collegamenti tra un
discorso e
l’altro. Si alzò in piedi, prima che Tim potesse
afferrargli il piede.
“Una delle tue due tappe prima di
arrivare a Lafayette?” domandò Westfield, senza
ancora guardare le foto. In
quella posizione, nudo, coi capelli sciolti oltre le spalle e un
po’ sporchi
per via del sesso e del caldo, il cellulare schiacciato contro il
petto, Tim
sembrava un ragazzino invecchiato presto, come se si fosse appropriato
di anni
non suoi. Eppure, anche con il suo sopracciglio appesantito dalla
cicatrice, la
muscolatura nervosa e lo sguardo cinico, aveva una sua personale forma
di
bellezza, simile a una statuina di vetro che rifletteva le luci
dell’arcobaleno
ma, purtroppo, con l’arrivo della notte si eclissava.
“Una delle mie due tappe – confermò
– ho intenzione di pensare alla mia prossima mostra. Potrei
lanciarmi nella
fotografia, credo di avere un certo talento” ammise, senza
falsa modestia.
“Indubbiamente” replicò Tim, a sua
volta senza cinismo. Ci credeva davvero e apprezzava
quell’ego sicuro di sé di
Abel; avrebbe voluto poter succhiare un po’ di quella
convinzione ed essere
così capace di piacere comunque agli altri.
Alla fine Tim si decise: abbassò lo
sguardo e vide la foto di Sophie, dopo aver sbloccato lo schermo.
Ovviamente la
bimba aveva i capelli neri, anche se radi, ed era bruttina, come tutti
i
neonati appena decompressati dopo l’uscita dal confortevole
utero. Non capiva
se si vedesse qualcosa degli occhi, se fossero vagamente a mandorla o
meno. Era
una smorfia addormentata di rughe.
“Mia nipote.”
Nel dirlo, per la prima volta ebbe
gli occhi lucidi. Sigillò le labbra e si sedette sul letto,
dopo essere
indietreggiato mentre continuava a guardare la foto.
Pensò che l’idea di Abel, di loro
due zii, non fosse poi così folle. Perché no,
giusto? Magari... beh, magari in
fin dei conti nemmeno tutta la storia delle scelte d’istinto
professate da
nonna Abigail era poi così sbagliata.
Sollevò la testa e gli chiese
all’improvviso, dopo aver appoggiato il cellulare sul
comodino:
“Siamo quello che siamo; nel nostro
piccolo, possiamo essere stelle: ce ne sono tante nel cielo, ma ognuna
a modo
suo brilla. Hai ancora voglia di fare l’amore con me,
Abe?”
Questi gli sorrise, mordendosi un
labbro. Avanzò e si piegò sulle ginocchia,
posando le mani sulle sue cosce:
“Sempre – gli baciò un ginocchio
– zio Timmy. Zio Abel.”
Poi lo baciò ancora. E Tim non lo
zittì, cominciando a crederci, con il cuore che galoppava e
la vita che
scorreva in sangue. La vita, lui l’aveva quasi vista nascere.
Sproloqui
di una zucca
Lo so, dovrei scrivere di un mucchio di cose e ne ho altrettante da
pubblicare, ma è un periodo intenso e non avevo la giusta
concentrazione. Poi ieri sono stata illuminata dall'ispirazione e ho
scritto di getto, dopo aver pensato e ripensato ai protagonisti di
questo racconto breve, di cinque capitoli, che illustrerà un
viaggio on the road.
Ringrazio il gruppo SasuNaru Fanfiction per la bellissima
challenge a tema per il pride month (qui il link https://www.facebook.com/groups/1712840615712529/permalink/2254066268256625/),
per ogni colore della bandiera arcobaleno, simbolo della
comunità LGBT, cii sono dei prompt associati.
Il primo colore è il rosso, la vita, con ulteriori
prompt Scoperta / Dubbio / Passione. Mi sono
concentrata sulla vita, ma anche sul dubbio e sulla passione, sebbene
il primo inerente al dubbio esistenziale.
Dedico questo capitolo in particolare a Sunako, la futura zia che mi ha
ispirata per il prompt più bello ed emozionante di tutti: vita. Sarai la zia
più bella, sensibile e tosta del mondo. Tuo nipote
è fortunato, fortunatissimo.
P.s. il titolo principale è ispirato a due canzoni, una di
Jimi Hendrix, Voodoo Child, l'altra di Johnny Jenkins, I Walk on Gilded
Splinters. Hanno tutta l'atmosfera che volevo per questa storia e un
tocco di New Orleans.
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