Clair de Lune
Tout en chantant sur le mode
mineur
L'amour vainqueur et la vie opportune
Ils n'ont pas l'air de croire à leur bonheur
Et leur chanson se mêle au clair
de lune
–
Paul Verlaine
Le sue
dita sono fantasmi che aleggiano in silenzio sopra i tasti impolverati di un
piano a coda scordato, in un qualunque senso si possa attribuire alla parola – certamente da riaccordare, dopo
tutti quegli anni di inutilizzo, ed altrettanto certamente dimenticato da
chiunque vi abbia mai, passivamente o meno, posato lo sguardo sopra.
Tutti,
nessuno escluso. Tranne Remus Lupin, il cui sguardo
ha la stessa importanza fantasmagorica delle dita che, tremanti, si avvicinano
ai tasti.
Tutto
ciò che lo circonda è polvere, è grigio, è privo
di vita. Non lo è sempre stato, tuttavia, e
per dimenticare che lo sia – ancora
una volta – Remus
chiude gli occhi. Finge che la brezza di una mattina appena giunta penetri
dalla finestra rotta; finge che i drappi delle tende, ora ridotti a stracci
mangiati dagli insetti, scivolino e carezzino i mobili sì impolverati, ma quantomeno tenuti con cura, amati.
Finge
che il materasso sfondato, ora letto solo per muffe e piccoli animali, sia
pesante di un peso che conosce perfettamente; e così fingendo posa finalmente le dita contro il piano,
fingendo anche di non sentire le distorsioni nelle note stonate che esso
produce, per suonare l’unica
canzone che abbia mai saputo suonare su uno di quegli strumenti.
Inizia
tutto con un fa ed un la diesis.
Un
applauso, tanto forte da arrossare i palmi, lo interrompe. Il giovane Remus apre gli occhi ed è
immediatamente gratificato dalla visione di Peter che si alza in piedi,
battendo le mani l’una contro l’altra e sorridendo come avesse appena
assistito ad un concerto di un qualche maestro in persona, anziché ad una scarna, pallida imitazione.
Anche James sta applaudendo, più
moderato dell’amico ma equamente – Remus
glielo legge negli occhi –
entusiasta per quella piccola, grande dimostrazione di talento.
« Magnifico! », dichiara Peter; ha gli occhi
lucidi. «
Splendido, Remus, veramente splendido! »
« Come hai detto che si
chiama, Lunastorta? », si
interroga invece James; da seduto che è si
alza per avvicinarsi al piano, le assi di legno del pavimento della Stamberga
che cigolano lievemente sotto il peso dei suoi passi leggeri. Con la noncuranza
che sembra contraddistinguere ogni suo movimento, quell’atteggiamento sbarazzino e indifferente per qualsiasi cosa
lo circondi, si appoggia al piano e attende la risposta di Remus
– che ritira le pergamene su cui ha
pasticciato, nelle ultime settimane, tentando di dare un senso materiale ai segni
sulle righe tracciate con millimetrica precisione. Sua madre, un tempo, gli avrebbe
letto quelle note come fossero lettere; e ad ognuna avrebbe attribuito un suono
con la stessa semplicità con
cui le persone comuni attribuiscono ad un nome un particolare colore. Negli
ultimi tempi la sua vista però è deteriorata, e Remus
non ha avuto il coraggio di chiederle di trascrivere per lui le note, neppure
durante le vacanze di Natale.
« Claire de
Lune, del compositore babbano francese Debussy. », spiega; osserva James annotare mentalmente il nome, che è certo dovrà ripetere almeno un altro paio di volte. Il sorriso che
gli rivolge è storto, autoironico. « Buffo, vero? Ma è l’unica
che sappia suonare come si deve. »
Gli era
parso uno spreco, quasi un crimine, che il piano che per qualsiasi ragione
Silente aveva lasciato loro nella Stamberga Strillante non venisse mai
utilizzato se non nei momenti in cui Sirius vi
strimpellava sopra Frère Jackques o Mary
Had a Little Lamb. Si era preso il silenzioso
obbligo morale di dare a quella magnifica creazione il dovuto rispetto e così era stato, seppure nelle sue
limitate capacità; sperava comunque che lo
strumento avesse apprezzato lo sforzo.
« Potresti insegnarmela!
», propone James; non sembra aver
colto la natura del commento circa il nome della canzone, probabilmente perché non spiccica un acca di francese. L’amico arrossisce appena, chiaramente
assorto in personali fantasie –
segrete quasi a nessuno; lo sente borbottare, subito dopo: « A Lily piacerebbe… probabilmente, sì, le piacerebbe. »
Remus sorride. L’influenza
positiva che Lily Evans ha sull’atteggiamento
di James è la manna più graziosa che sia mai caduta dal
cielo sotto cui vive. « Con
un po’ di buona volontà e della costanza, James…che so per certo non mancarti… »,
afferma, sorridendogli già. « Io penso davvero che
potresti… »
« …riuscire ad eseguire una graziosa versione di Twinkle Twinkle Little
Star quasi perfettamente, James. », li
interrompe una voce. « Sono
sicura che la Evans cadrebbe ai tuoi piedi istantaneamente. »
« Deficiente. », è la
risposta pronta di James – un
colpo in canna sempre carico quando si tratta di rispondere a Sirius che, ad occhi chiusi, il volto per metà affondato nel cuscino a cui si è aggrappato nel sonno, sorride
comunque visibilmente. « Sei
l’ultimo da cui accetterò mai consigli su come far colpo sulle
ragazze. »
« Ed è per questo che continuerai a
fallire. », borbotta Sirius; si volta, ignorando la smorfia di James, per dar
loro le spalle. Peter interviene, visibilmente nervoso.
« Ti sei perso l’esibizione di Remus.
»
« Ah, l’ho sentita tutta, invece. », ribatte l’amico. « Mi
ha svegliato proprio quella, per cui mi dovete almeno un’altra ora di sonno. Soprattutto tu, Codaliscia,
con quell’applauso ho pensato che Mocciosus stesse facendo irruzione nella Stamberga con un
esercito di ratti al seguito. »
« Con i suoi parenti,
quindi. », commenta James; si compiace
della battuta per un solo istante, tuttavia, immediatamente zittito dallo
sguardo di Remus che lo colpevolizza. « Uhm, ehm. Scusa. »
« Non credo che dormire
sia una buona idea…. », insiste Peter, aggrappandosi al bracciolo del divano su
cui è seduto. « È
già l’alba.
Qualcuno potrebbe vederci mentre ci avviciniamo al castello e… »
« Un’ora! »,
ripete Sirius; solleva l’indice senza neppure voltarsi. « Di meritato silenzio, Peter. »
Consapevole
che non c’è modo di farlo ragionare, Peter
getta le speranze nel mare della capacità e dell’influenza che Remus
ha sugli amici; è compito suo anche sorridere
al più debole, rincuorarlo: « Voi iniziate ad
andare. Lo convinco io. »,
sussurra. James è straordinariamente
collaborativo: si solleva dal piano senza proteste e fa cenno a Peter di
seguirlo – cosa che l’amico fa senza neppure pensare di
discutere. «
Iniziate a preoccuparvi se non ci vedete tra una decina di minuti. »
James
ride, sull’uscio. « Ora è una tua responsabilità, Lunastorta. », risponde.
« Io non sono mai stato
qui. »
Remus scuote la testa. James e Peter si trasformano sotto i
suoi occhi, in un confortevole battito di ciglia; per un istante i suoi occhi
fissano quelli di una creatura graziosa, longilinea – un cervo che sparisce selvaggio in un ulteriore battito
di ciglia. Dopodiché è solo, nel silenzio della casa che abita da innumerevoli
notti. Quasi crede di poter dimenticare la presenza di Sirius,
per un istante, illuso – ma poi
lui respira un po’ più forte del previsto e Remus è nuovamente un fascio di nervi teso
al limite delle proprie capacità.
« Quella canzone », sussurra Sirius;
la voce è ovattata dal cuscino, l’espressione invisibile ai poveri
occhi di Remus. « Quella che stavi suonando… »
« Claire de
Lune. », ripete Remus,
la voce che trema; Sirius, come sempre lievemente più colto di James – come anche più bravo a mascherarsi dietro una facciata di rozza
ignoranza – coglie il riferimento e
ride.
« Sei un masochista, Remus. »
(“Non sai neanche quanto”, sussurra a se
stesso – e nel frattempo: “Non Lunastorta,
ma Remus.”)
« Però la suoni bene. »,
prosegue; si volta di nuovo, le molle che cigolano sotto di lui. Remus lo osserva, dal basso dei suoi patetici ed ormonali
sedici anni: un giovane Adone disteso sul letto, svestito, che lo guarda da
dietro le ciocche di capelli neri e lo divora, con poche parole. « Falla di nuovo. Per
me. »
Non gli
è mai stato facile obbedire a Sirius, ma neppure disobbedirgli. La straordinaria
differenza tra lui e James, Remus ritiene, è nella consapevolezza: laddove James è un capo inconsapevole del fascino
che esercita sui suoi piccoli e devoti seguaci, Sirius
comprende perfettamente la reale portata del proprio ascendente. È sempre stato così, fin dal primo giorno, sull’Espresso per Hogwarts;
e proprio per questo si è
permesso di fare un passo indietro e lasciare a James il ruolo più importante nel loro quartetto. Sirius non ha bisogno che nessun ruolo d’autorità gli
venga riconosciuto – e per questo, inizialmente, Remus lo aveva quasi detestato, ritenendolo subdolo ed
infimo.
Poi l’aveva conosciuto veramente.
C’è qualcosa di malinconico nelle
parole di Sirius, nel suo ordine – qualcosa che lo spinge a non
avanzare proteste: risistema lo spartito avanti a sé, ma non vi getta neppure un’occhiata;
sospira e posa le dita sui tasti, mascherando a malapena un brivido d’eccitazione. Preme.
Fa.
La Diesis.
Le note
di una versione semplificata del capolavoro di Debussy, che Remus
conosce grazie alle origini babbane di sua madre – il cui
amore per il pianoforte rivaleggia solamente con quello che la donna prova per
figlio e marito – riempiono la stanza. Lo
avvolgono in quello che sembra un accompagnamento alla voce malinconica di Sirius, una diretta trasposizione del suo stato d’animo; a testa china Remus non lo vede mutare in espressione, non nota la pacata
risoluzione nei suoi lineamenti, e non lo vede neppure mettersi seduto. Lo nota
però alzarsi ed incamminarsi verso di
lui, e per un istante le sue dita si ritraggono dal proprio compito: ma lo
sguardo di Sirius, la nota di panico nei suoi occhi,
lo riporta nel mondo della musica.
“Se ti fermi ora, mi fermerò anche io.”, sembra dirgli, in silenzio. “Tornerò su quel letto, e insisterò per dormire un’ora in
più, e mi sgriderai fino a farmi
alzare. Ma niente di tutto questo deve accadere, non è così, Remus? Non è quello in cui speravi quando hai
chiesto a James e Peter di andarsene. E neppure io.”
O
forse:
“Perché ti agiti tanto?”
A Remus non è dato
sapere quale delle due interpretazioni sia quella corretta. Continua a suonare
mentre la canzone scivola verso la propria sezione più corposa, complessa, armonica, e allo stesso modo Sirius continua a scivolare verso di lui. Torreggia al di
sopra del suo corpo e lo osserva, ora, e la Stamberga Strillante non gli è mai sembrata così piccola né le sue dita così
inclini all’errore. È per un semplice miracolo che
continua ad eseguire il pezzo senza fermarsi, sotto lo sguardo fermo e severo
di Sirius, legandosi a lui con la musica.
Il
pianoforte è sprovvisto di un sedile
apposito. È vecchio, impolverato, e il
suo corpo è la tomba della carcassa di
svariati insetti – troppo piccoli ed
insignificanti per rovinarne il suono. Remus ha
prelevato una sedia dal tavolo vicino per poter eseguire quel pezzo, ed è quello che ora fa anche Sirius –
sistemandosi vicino, troppo, al punto in cui le loro spalle si toccano
prepotentemente. Remus continua a suonare, avvolto
ora in uno straordinario sudario di pace e iper consapevolezza di sé e di ogni movimento che esegue, del
sudore che gli imperla la fronte e delle ciglia lunghe di Sirius,
i cui occhi non si sollevano dalle sue mani costantemente in movimento; e per
un istante Remus, perso com’è nella concentrazione, riesce comunque a pensare che l’intero mondo sia in movimento – che non siano solo le sue dita a
produrre la musica, ma i loro corpi stessi, il modo in cui Sirius
inclina il capo verso di lui ed il modo in cui ad un certo punto, ben oltre la
metà della canzone, i suoi occhi smettono
di osservare il piano ed iniziano ad osservare il profilo di Remus.
Sbaglia,
ma Sirius non può
sentirlo. Non conosce quel pezzo, non è
cresciuto ascoltando sua madre suonarlo – di
fatto, Remus si interroga su quante occasioni Sirius abbia mai avuto di ascoltare della musica dal vivo.
Non riesce a non figurarselo, piccolo e arrabbiato e solo in quella casa che ha
descritto loro come vuota, di cui ha parlato con un sorriso velenoso sulle
labbra. Ed è davvero per lui che suona,
quindi – non per sé, non per il piano, non per sua
madre; e la canzone assume tutto un altro significato.
Distaccarsi
da quei tasti è una condanna. Remus ritrae le mani dal piano subito dopo aver terminato,
come se lasciarle lì contribuisse a renderlo
colpevole di chissà quale crimine; le raccoglie
sulle proprie gambe, stringendo i pugni, ed attende che l’ultimo eco si sia allontanato dalla
stanza ed abbia lasciato posto ad un silenzio con cui ha altrettanta familiarità – lo
stesso silenzio che ha ascoltato, impaziente, tutte le notti in cui ha sorpreso
Sirius intento ad osservarlo dal suo letto o tra le
chiacchiere di James e Peter riguardo compiti eseguiti all’ultimo, di fretta e male. Non conosce
la forza che lo spinge a sollevare almeno lo sguardo verso Sirius,
non gli appartiene; ma la fa sua almeno per qualche istante, forte dell’assenza di reazione dell’amico.
« Allora », mormora; e nel farlo si rende conto
di aver perso la voce. « Che
ne pensi? »
Sirius solleva una mano verso il suo volto, e prima che Remus possa rendersene conto si avvicina quanto basta perché le loro labbra si sfiorino nella più gentile e discreta delle maniere – ma è un
veleno che circola istantaneo nel suo corpo, intossicandolo; non fa in tempo ad
avere paura di esso che subito si trova a chiederne di più, e preme contro le labbra di Sirius con l’insistenza
e la voglia accumulata in settimane, mesi ed anni di dubbio. Il suo gomito
sbatte e preme contro i tasti del pianoforte, producendo una cacofonia
sgraziata di suoni che non riesce comunque a distrarli: ad occhi chiusi scopre
un volto che conosce già in una
nuova accezione, intima e personale. Il pudore non lo abbandona mai abbastanza
da permettergli di aprire la bocca più che
per permettere a Sirius di insinuarvi dentro con la
propria – non c’è un passionale scambio di lingue, non ci sono mani che si
aggrappano a volti e capelli e non c’è
neppure il cigolio delle molle del materasso che sopporta il loro neonato e
congiunto peso, ma ci sono baci disperati ed una smania infantile e nel
separarsene Remus posa la fronte contro quella di Sirius e annaspa senza fiato, incapace di aprire gli occhi.
Trema e non basta che Sirius prenda le sue mani e
sussurri il suo nome con quella cadenza di scherno innocente, quel “Remus” che suona come una maledizione,
una riconferma della sua esistenza. « Apri gli occhi. Va tutto bene, apri gli occhi… »
« È facile per te. »,
riesce a borbottare – e si
sorprende nel sapere che c’è
ancora una vena di sarcasmo, in lui, la volontà di
rimbeccare Sirius, sotto tutte le ansie e le paure. « Non… »
È solo allora che Sirius
prende il suo volto tra le proprie mani, i pollici che affondano nei suoi
zigomi; Remus apre gli occhi e si trova ad osservare occhi
grigi e profondi e profondamente felici, turbati quanto immagina siano i suoi. « Mi dispiace. », è la
prima cosa che Sirius dice. « Non dovevo? »
« No. », risponde immediatamente – e altrettanto immediatamente si da dell’imbecille.
« Non intendo che non
dovevi, intendo dire che… »
Le
parole gli vengono meno. Non è mai
stato bravo con le parole, lui, a cui bastano uno sguardo e poche espressioni
gentili per definire la propria personalità, e mai
si è odiato come in quel momento. Le sue
mani stringono quanto riescono dei vecchi pantaloni in jeans, unico sfogo
nervoso che gli è concesso. Potesse fuggirebbe
da quella casa, da quella scuola, da quel mondo – ma non
può: è
intrappolato tra le mani di Sirius e tra il suo
sorriso sornione, caritatevole.
« Penso che sia davvero
bella. », gli mormora.
« Faccia tosta. », borbotta in risposta. Scuote la
testa e Sirius ride, una risata che gli scuote il
corpo.
« Anche tu sei davvero
bello, Remus. »,
prosegue, una volta placata la risata – non
del tutto, però. « Era da tanto che volevo
dirtelo. »
Una
nuova ondata di consapevolezza si abbatte su di lui. Le cicatrici sul suo volto
e sul suo corpo non gli sono mai sembrate così vivide
– neppure nel vederle indicate dagli
altri studenti estranei le ha mai sentite bruciare, così vere, sulla sua pelle; la moltitudine di lentiggini, ed i
capelli di un colore scialbo ed anonimo, e i vestiti di seconda mano: tutto di
lui sembra sia stato preso, accartocciato e riaperto, mentre Sirius è l’equivalente di un principe annoiato e
viziato.
E Sirius gli ha appena detto che lo trova bello.
« Tu mi ucciderai, uno
di questi giorni. », sente se stesso sussurrare.
« Non prendermi in giro… »
Sirius – Remus lo scopre nei minuti successivi, passati tra baci e
carezze leggere; nei giorni che seguono, tra domande a cui trova finalmente
risposta e riscoperte altrui; nei mesi a venire, in cui il loro rapporto
sboccia in discreto silenzio, tra baci rubati dietro una libreria e lunghe
dichiarazioni scritte di cui si prendono gioco l’un l’altro, ma che conservano comunque – non lo fa.
“Ad Azkaban non esiste musica,
ovviamente. Per anni ho pensato di essermi immaginato il mondo esterno, i
colori, i fiori, la musica e tutto il resto”, gli aveva confessato Sirius,
seduto su una poltrona del salotto della casa che tanto aveva odiato – una prigione non troppo differente
da quella in cui era stato gettato per dodici anni. “Ma poi mi è
tornata in mente quella canzone, Remus. Quella che
suonavi sempre al piano, come si chiamava?”
“Claire de Lune”, aveva risposto Remus, consapevole che Sirius
ricordava perfettamente il titolo. Come vent’anni
prima aveva alzato lo sguardo sull’amico e
l’aveva trovato intento a fissarlo.
“Proprio quella”, aveva confermato Sirius; e poi gli si era avvicinato e lo aveva baciato con
la stessa triste delicatezza di quella prima volta. E poi avevano scoperto di
non essere più due ragazzini timidi ed
impacciati, e per qualche settimana avevano avuto persino il coraggio di
approfondire le implicazioni di tale scoperta.
E poi Sirius se n’era
andato per sempre.
Remus osserva le dita sui tasti grigi. Non è andato più in là di
quelle prime due note – ha l’impressione di aver dimenticato il
resto, nonostante i pomeriggi passati a tentare di insegnare a James la
canzone, ascoltando gli incoraggiamenti di Peter e le risate scroscianti di Sirius far da sottofondo.
Forse
un giorno troverà la forza di distruggere quel
piano, di rimuoverlo dalla propria vista, regalando allo strumento martoriato
un ultimo atto di carità. Lo
farà a pezzi e lo seppellirà da qualche parte dietro la
Stamberga, nello stesso posto in cui anni prima ha seppellito i ricordi d’infanzia.
Per
ora, però, quella rabbia distruttiva
non gli appartiene. Solleva le mani dai tasti consunti e le posa sulle proprie
gambe – stringendo i pugni, in
attesa.
-
Questa fic è dedicata
a Sora e alle sue idee tristissime che mi ispirano a scrivere cose tristissime.
So che non è il modo migliore per augurarti
una vita felice, ma mi conosci: è il mio
modo. Spero tu stia bene ❤
Mi
scuso per le probabili inesattezze musicali: non sono una musicista e le cose
qui riportate sono informazioni raffazzonate e ricercate in una mezz’oretta con l’aiuto di un fratello (musicista) mezzo addormentato e vari
tutorial di YouTube. Spero non abbia rovinato l’esperienza
a chi ne sa più di me :’’
Vi
ricordo che le mie commissioni sono aperte e vi lascio il link del mio ko-fi qui sotto!
Alla prossima,
-Joice