I Tre Fili
I Capitolo
La ragazza era entrata subito nell’ufficio, senza fermarsi nella sala
d’aspetto. Era probabilmente dovuto a una combinazione di fattori: non
c’era una segretaria all’ingresso a pregarla di accomodarsi mentre lei
“avvertiva il signor Ludlow”, la porta del suo ufficio era già aperta
per vedere arrivare i clienti, cosa che nascondeva la scritta ‘Tom
Ludlow, investigatore privato’ sul vetro ondulato, e infine c’era da
dire che la sala d’aspetto non era per niente accogliente: un tavolino
da caffè, una scrivania un po’ defilata, un vaso sulla piccola finestra
che dava sulla strada principale e due poltroncine che avevano visto
giorni migliori.
‘Farei meglio ad assumere un’altra ragazza che accolga i clienti’, si
disse Tom, mentre si alzava dalla sua sedia e augurava un buon giorno
alla nuova venuta. ‘O quantomeno dovrei bagnare quelle felci…’
In realtà era troppo tardi, per bagnare le felci: erano
irrevocabilmente morte.
“Il signor Ludlow?” domandò la ragazza, facendo un paio di passi verso
la scrivania di legno scuro ingombra di carte.
‘Non mi farebbe questa domanda, se avessi una segretaria’ si disse Tom,
confermandoglielo.
Non doveva aver fatto una grande impressione alla sua potenziale
cliente, finora. Di sicuro non se lei si aspettava l’ufficio di Nero
Wolfe.
La stanza non era granché: piccola, con i pavimenti in legno consumato
e le pareti quasi spoglie, ad eccezione della sua licenza da
investigatore e pochi quadri che non ricordava perché aveva scelto (una
veduta di campagna, il partenone e una nave…proprio non vedeva un
nesso. Alla fine, forse non era poi un granché come investigatore);
mesi prima, in un attacco di depressione aveva tolto tutte le
fotografie in bianco e nero, che ora se ne stavano in uno scatolone
nella stanza sul retro.
La ragazza si accomodò sulla sedia davanti alla scrivania: quello che
aveva visto non l’aveva scoraggiata tanto da girare sui tacchi e
andarsene.
In effetti era successo, una volta: Tom aveva visto apparire uno
schianto di ragazza, alta, bionda come un angelo, con vestito verde
scuro fasciante e una pelliccia appoggiata sulle spalle. La donna aveva
gettato uno sguardo alla stanza, col mento leggermente sollevato, gli
occhi profondi e attenti e terminata la sua ispezione si era
semplicemente girata ed era uscita senza una parola.
Tom era rimasto totalmente ammirato dal movimento fluido ed altero con
cui aveva valutato e trovato mancante ogni aspetto della sua vita,
prima di piroettare sui suoi strabilianti tacchi e sparire per sempre.
Quello era carattere.
Una volta sistemata la sedia alla sua ospite, Tom tornò dietro la
scrivania.
“Sarei curioso di sapere se e come posso aiutarvi, signorina,” le disse
una volta seduto.
La ragazza aveva un’aria particolarmente nervosa. Sedeva rigida, con le
ginocchia strette e la borsetta a farle da scudo. Aveva un viso molto
grazioso, a suo modo, del tutto opposto a quello della sconosciuta
bionda che tempo prima era fuggita da quella stessa stanza. La
carnagione era olivastra, gli occhi scuri e liquidi, i più grandi che
gli fosse mai capitato di vedere; il naso era a patata, ma non del
tutto sgradevole, armonizzato con il resto dei suoi tratti.
Dai capelli e dalle sopracciglia, neri e foltissimi, Tom dedusse che
avesse origini messicane, benché non avesse avvertito tracce di
accento, quando aveva aperto bocca. Non portava la fede, quindi Tom
scartò l’ipotesi che potesse trattarsi di un caso di infedeltà
coniugale. Era piuttosto giovane e l’investigatore si domandò se non si
trattasse dell’ennesima ragazza messa nei guai dal presunto amore della
sua vita, poi scomparso nel nulla.
“Mi chiamo Maria Butler. Mio padre è scomparso,” esordì lei,
coinvolgendolo nella faccenda che gli avrebbe procurato tanti guai da
bastargli per un anno intero.
Ma d’altronde, Maria Butler era solo uno dei capi della matassa in cui
si sarebbe trovato avvolto e forse niente gli avrebbe impedito di
ritrovarsi invischiato in quel casino.
Quando avrebbe ripensato a quella storia, negli anni a venire, Tom
Ludlow avrebbe ripensato a Maria Butler come al ‘filo rosso’, in onore
delle sue labbra.
Tom prese nota del nome della ragazza.
“Quando è successo?” chiese.
“Non ho più sue notizie da una settimana. Io e mio padre non viviamo
insieme, ma ci vediamo spesso. Io ho un piccolo appartamento sulla
quarantasettesima e lui ultimamente stava nei dintorni di Lexington.”
Tom le chiese l’indirizzo esatto.
“Avete detto che vi vedevate spesso?”
Lei annuì: “Sì. Talvolta lui passa qualche settimana a casa mia, prima
di cercarsi un altro posto…si sposta spesso…”
Lo disse arrossendo leggermente e Tom maledisse di non potersi
comportare da gentiluomo e dare così per scontato quello che invece era
necessario chiedere.
“Vostro padre ha dei debiti?”
Maria annuì nuovamente: “Sì, qualcuno…non grandi cifre, è sempre
riuscito a pagare dopo poco tempo. Gioca a poker, da sempre, ma non è
mai stato troppo grave, mia madre quand’era viva non ha mai dovuto
nascondergli dei soldi, o altro. A me non ha mai chiesto denaro, non mi
ha mai chiesto nulla, a parte di potersi fermare a casa mia per qualche
giorno. Ma ora che è scomparso, mi chiedo se non ci sia dell’altro…se
non sia fuggito perché non riesce più a saldare i debiti. Io potrei
aiutarlo, ho dei risparmi da parte.”
‘Padre fuggito per debiti di gioco…cavolo, sarebbe stato meglio un
marito fuggito per debiti’ si disse Tom.
Le mogli prima o poi si staccavano da uomini del genere, ma quale
figlia abbandonerebbe il padre, potendolo aiutare?
“Quand’è stata l’ultima volta che lo avete visto?”
“Venerdì scorso…è venuto a trovarmi al lavoro. Lavoro in un ufficio
contabile. Mio padre è passato nella pausa pranzo.”
“Vi è sembrato diverso dal solito? Ha accennato ai suoi problemi, al
fatto che voleva andare da qualche parte? Come si comportava quando vi
chiedeva di stare a casa vostra per qualche tempo?”
Maria si prese qualche secondo per pensarci su, prima di rispondere:
“Non mi è sembrato strano…di solito, quando è nei guai e viene da me lo
capisco subito, è come una sensazione che mi fa pensare: ecco, ci siamo
di nuovo. Ma stavolta…” scosse la testa, scoraggiata. “Avevamo in
programma di sentirci per telefono, ma lui non mi ha chiamata e a
quell’indirizzo non ha il telefono. Non è un posto molto rispettabile.”
Era un postaccio, concordò Tom. Un pessimo quartiere, il massimo per un
giocatore d’azzardo.
Chiese a Maria se avesse provato ad andare a casa di suo padre per
vederlo di persona.
Lei disse di no.
“Vostro padre aveva un lavoro?”
“Sì, da qualche mese lavorava per una ditta di trasporti, guidava i
camion. Viaggiava per tutto lo Stato.”
“Non può essere in viaggio? Magari lo hanno chiamato per una consegna
improvvisa…”
“Mi avrebbe avvertita. Comunque, dopo un paio di giorni ho provato a
telefonare alla ditta per cui lavora e mi hanno detto che non l’avevano
visto neppure loro.”
“Come si chiama la ditta di trasporti?”
Tom aggiunse sul foglio su cui prendeva appunti il noma della ditta-
Quicktrans- e il nome completo dell’uomo: Andrew Butler, detto Andy,
presumibilmente.
“Vi siete rivolta alla polizia, signorina Butler?” le chiese Tom.
Avrebbe dovuto chiederlo subito, ma in realtà paventava la risposta. Se
un cliente si è rivolto alla polizia e poi si cerca un investigatore
privato, significa che non è molto soddisfatto dell’operato delle forze
dell’ordine, e queste ultime hanno il brutto vizio di prendersela a
male e di sfogare il loro risentimento sui poveri investigatori
privati, quando inevitabilmente le loro strade si incrociano. Se invece
il cliente ha completamente aggirato i canali ufficiali, o la faccenda
è illegale o il cliente vuole rimanere anonimo, o entrambe le cose, e
questo inevitabilmente crea problemi di etica, segreto professionale e
intralcio alla giustizia.
Alla fin fine, quale che fosse la risposta del cliente, il povero
investigatore privato sapeva che molto probabilmente avrebbe avuto
contrasti con le uniformi blu. E Tom Ludlow aveva una lunga lista di
contrasti passati con le uniformi blu, che a quanto pareva non
riuscivano a perdonargli nulla. Come del resto lui non riusciva a
perdonare nulla alla polizia.
“Ho sporto denuncia di scomparsa, ma quando ho parlato del vizio del
gioco ho avuto l’impressione che l’agente con cui stavo parlando abbia
pensato: caso risolto, solo un tizio che fugge dai debiti, e che la
cosa non interessasse a nessuno veramente,” spiegò la ragazza,
adombrandosi.
“Credete che ci sia qualcosa di più?” le domandò Tom, con tono gentile.
“Io temo che qualcuno possa fargli del male!” esplose Maria,
fulminandolo con lo sguardo. “Voglio che lei lo trovi e gli faccia
sapere che gli presterò dei soldi e metteremo tutto a posto,
risolveremo ogni cosa!”
“E se tra sei mesi la storia si ripetesse? Mettiamo che io trovi vostro
padre, voi gli diate tutti i vostri risparmi e tra sei mesi lui
accumuli altri debiti e sparisca di nuovo…vi ritrovereste nella stessa
situazione di oggi e in più senza un soldo. Vi sembra uno scenario
auspicabile?” le domandò Tom, ben sapendo che le sue parole sarebbero
cadute nel nulla.
Maria Butler strinse la sua borsa con più foga e sollevò il mento con
aria di sfida. Era decisamente meravigliosa, così.
“È mio padre,” gli rispose con voce dura.
Tom se lo aspettava, non si era aspettato niente di diverso sin
dall’inizio del racconto. Scrollò le spalle e ricominciò con le domande.
Quando Maria Butler si alzò, Tom l’accompagnò alla porta, promettendole
di telefonarle non appena avesse avuto novità da riferirle.
Tornato alla sua scrivania, ricontrollò gli appunti che aveva preso
durante il colloquio e cominciò a batterli a macchina con ordine per
inserirli nel suo archivio. Era un uomo ordinato, quando si trattava
del suo lavoro…per il resto era una causa persa.
La sua cliente gli aveva fornito un elenco degli indirizzi a cui il
padre aveva abitato negli ultimi anni e gli indirizzi di un paio di
locali di cui l’uomo si era lasciato sfuggire il nome e che Maria
riteneva fossero i luoghi dove andava a giocare a poker. Tom li
conosceva, conoscere come le sue tasche la città era d’obbligo nel suo
campo, e sapeva che benché si giocasse non erano proprio la meta ideale
per un giocatore incallito. Poteva controllare in un altro paio di
posti nei dintorni dell’ultima abitazione di Andy Butler, ma era certo
che gli amici di Andy avrebbero potuto indirizzarlo meglio di chiunque
altro.
Maria non conosceva amici del padre, ma Tom aveva intenzione di andare
alla sede della ditta di trasporti, la Quicktrans, e fare qualche
domanda anche a loro. Un paio di colleghi che passavano le loro serate
libere insieme ad Andy sarebbero saltati fuori, con un po’ di fortuna.
Probabilmente anche la polizia si era recata sul luogo di lavoro di
Andy Butler: era stato certamente il loro primo passo, per controllare
il ruolino delle consegne di Andy e verificare che nessuno lo avesse
visto dal momento in cui Maria aveva telefonato a quello in cui loro si
erano mossi.
In ogni caso, da qualche parte bisognava che Tom cominciasse, e lui non
aveva intenzione di farlo parlando con i vecchi padroni di casa di
Andy.
Inoltre, non avrebbe cominciato quella sera: aveva un impegno.
Finì di battere a macchina i suoi appunti in tempo per andare a cena,
sempre che avere in programma di andare a bere sgranocchiando salatini
potesse definirsi andare a cena. Prese soprabito e cappello e lasciò
l’ufficio, chiudendo a chiave la porta. Scendendo le scale incontrò
altri che lasciavano il lavoro per tornare a casa: il palazzo ospitava
diversi studi e presentava l’innegabile vantaggio di avere un portiere
ventiquattr’ore su ventiquattro.
Adorava quella sistemazione: aveva affittato l’attico una decina di
anni prima (‘Già una decina? Eh, sì, vecchio mio…’) insieme ad un
collega. L’edificio era vecchio e sprovvisto di ascensore, cosa che
influiva positivamente sul costo dell’affitto e sulla psicologia di
quei clienti che preferivano l’anonimato.
L’ultimo piano (il quarto, non è che si trattasse di chissà che
grattacielo) dava una sensazione di privacy, specie perché da un paio
d’anni non c’era nessuno che occupasse i locali al piano di sotto;
inoltre gli altri affittuari erano persone discrete e i loro orari
coincidevano raramente: se quella sera Tom usciva alla stessa ora di
quasi tutti gli altri era dovuto solo al fatto che aveva un
appuntamento; alla mattina era totalmente escluso che qualcuno potesse
incrociarlo sulle scale.
Scese in strada e si avviò verso nord sul marciapiede affollato di
coppie che andavano a cena e poi in qualche locale per un ballo o due.
Diversi taxi affollavano la strada davanti al cinema dove Tom passava
almeno un paio di sere alla settimana. Peggy, la ragazza che vendeva i
biglietti all’ingresso lo salutò agitando la mano, sventolando il resto
dell’uomo in coda davanti alla cassa. Spinto dal senso del dovere e per
sdebitarsi degli ingressi che ogni tanto Peggy gli regalava, Tom
l’aveva invitata a ballare qualche volta. La fanciulla sembrava essersi
presa una bella cotta per lui e la cosa lo metteva un po’ a disagio:
non era interessato a quella mite ragazzina con gli occhiali. Forse era
il caso di diradare un po’ le sue viste al cinema Lux, almeno finché
Peggy non si fosse trovata uno spasimante, rifletté, regalandole un
sorriso.
Passò oltre prima di vederla sospirare con aria beata.
Un paio di uomini lo salutarono per nome mentre si avvicinava al locale
nel quale praticamente viveva: la Pantera Blu.
Quella sera non era particolarmente affollato, ma d’altronde era
piuttosto presto per la clientela abituale della Pantera. La sala
principale era illuminata da luci soffuse e sui tavolini circolari
piccole abat-jours davano ad ogni conversazione dei loro occupanti
un’aria intima e romantica.
Tom puntò dritto verso il bancone del bar, in fondo alla stanza. Dietro
il bancone, in abito da sera, lo accolse Winnie, la proprietaria.
Benché Tom sapesse che il nome del locale derivava da una statua a
forma di pantera che un tempo era esposta nell’ingresso, scelta del
precedente proprietario, talvolta per scherzare chiedeva a Winnie se
invece non fosse dovuto a lei a ai suoi magnifici occhi blu. Lei
sbuffava, con gli occhi che ridevano, e fingeva di schiaffeggiargli una
mano.
Nel suo lavoro era importante conoscere tutti e avere buoni rapporti
con le persone che frequentava: se un tizio di cui non sai nulla se ne
va in giro a fare troppo domande non sei molto portato a rispondergli.
Winnie gestiva un locale molto frequentato e combinando le sue
innegabili doti femminili all’intuito sviluppato dopo anni a servire
alcolici, sapeva più o meno qualunque cosa sulla sua clientela abituale
od occasionaria.
Tom vantava una discreta conoscenza del quartiere e della città in
genere, ma ci sono informazioni cui solo una donna riesce ad avere
accesso, quindi l’amicizia con Winnie gli era spesso d’aiuto con i
piccoli casi per così dire locali.
“Bentornato, tesoro,” lo accolse la donna, avvicinandoglisi e
sorridendo in maniera maliziosa.
Da quando si conoscevano Winnie fingeva di provarci con lui, e lui
stava al gioco. Non era niente più che uno scherzo tra di loro.
L’inconveniente di dover conoscere le persone per ottenere risposte è
che spesso le persone finiscono per conoscere te, e Winnie conosceva
quasi ogni cosa di lui. A Tom non dispiaceva più di tanto: non è che
vivesse nascondendosi. Inoltre, talvolta parlare con Winnie era
un’ottima valvola di sfogo.
“Buonasera, Winnie,” le rispose, accomodandosi in cima a uno sgabello e
buttando il cappello su quello accanto a sé per tenerlo occupato.
“È un po’ presto per te tesoro…qualcosa in pentola?” gli chiese Winnie,
accennando al posto che aveva occupato. “Cosa ti servo?”
“Qualcosa di leggero. Aspetto una persona,” le confermò.
Winnie sembrò illuminarsi, mentre gli serviva un Manhattan: “Aspetti
qualcuno? Finalmente mi porti a conoscere un boyfriend?”
Tom sorrise scuotendo la testa: “Un vecchio amico. E non gradirebbe
questo genere di battute,” aggiunse, più serio.
Winnie annuì, facendogli capire che non avrebbe scherzato.
Era vero, James non avrebbe gradito. In fin dei conti quale graduato
dell’esercito degli Stati Uniti avrebbe apprezzato insinuazioni sulle
sue preferenze sessuali per gli uomini?
Conosceva James da quando aveva deciso di frequentare l’accademia di
polizia: si allenavano insieme in vista in vista dei test d’ingresso.
James aveva finito per scegliere l’esercito, invece dell’uniforme blu,
mentre lui…aveva sopportato per un po’, aveva combattuto, perché era un
tipo tenace, ma alla fine aveva mollato.
Aveva preso la licenza da investigatore e aveva cominciato a lavorare
per Butch Morrison, con cui aveva affittato l’attico in cui si trovava
il suo ufficio, una volta che erano divenuti soci.
James invece aveva fatto carriera. Sembrava nato per la vita militare,
a parte per un piccolo problema, lo stesso che aveva costretto Tom a
lasciare l’accademia di polizia una vola scoperto dai suoi colleghi.
James preferiva gli uomini, come Tom.
Ma spesso Tom si sentiva più fortunato di lui. Tanto per cominciare era
venuto a patti con la cosa, o almeno era riuscito finora a non
impazzire. Non si nascondeva: non che avesse attaccato un avviso sulla
porta dell’ufficio, ma non si era neppure trovato una moglie da usare
come copertura, come facevano certe checche ipocrite nel mondo dello
spettacolo o delle gallerie d’arte dei quartieri alti.
Inoltre, al contrario di James che provava ribrezzo all’idea di labbra
femminili, lui amava le donne. Le apprezzava, le ammirava. Ammirava
soprattutto il carattere e la fermezza di alcune di loro (era forse per
questo che continuava a ripensare ogni tanto alla sventola bionda che
era fuggita dal suo ufficio) e da queste ultime si era sentito
attratto. Aveva avuto un paio di fiamme, accumunate, secondo l’opinione
di Winnie, dalla loro sicurezza e dalla sensazione di controllo che
emanavano.
“Tu cerchi qualcuno che metta ordine intorno a te, a cui lasciare le
redini mentre ti abbandoni. È perfettamente naturale,” gli aveva detto
Winnie una volta.
Era rimasto alla Pantera Blu fino all’orario di chiusura, mentre Winnie
riempiva alternativamente il suo bicchiere e quello di Tom. Entrambi
erano pesantemente appoggiati al bancone, con le fronti che quasi si
toccavano e Tom si sentiva allo stesso tempo esausto, divertito, pronto
a lasciarsi andare all’autocommiserazione. Anzi, probabilmente si era
lasciato andare all’autocommiserazione, se si ritrovava quasi all’alba
a ubriacarsi con la barista.
“Cerchi solo qualcuno che ti ami nel modo giusto,” aveva continuato
Winnie, accarezzandogli una guancia. “Peccato davvero che non possa
essere io. Anch’io cerco la stessa cosa. Non ci conviene mettere la
fame con la sete,” aveva concluso infine, vuotando il bicchiere.
Tom ricordava di essere scoppiato a ridere talmente forte da cadere
dallo sgabello.
Winnie rimase a osservarlo prendere un sorso del suo drink: “Uhm…si
tratta di un amore non corrisposto?” indagò.
Tom scosse la testa: “Solo un vecchio amico che è passato in città.
Preparagli un whisky, è appena entrato,” le disse, studiando il
riflesso di James nello specchio alle spalle della donna.
Il Maggiore James Biggs era alto, imponente, solare, con i capelli
castano-dorati e gli occhi azzurri. Anche in abiti civili dava
impressione di autorevolezza. Praticamente il sogno di ogni madre per
la sua bambina.
“Santo cielo, che schianto. Volevo essere solidale con te, Tom, ma
cavolo se sono grata che non giochi con le tue stesse carte!” dichiarò
Winnie alzando lo sguardo sul nuovo venuto.
Tom ruotò lo sgabello fino a fronteggiare James, che lo aveva raggiunto
e lo fissava con un angolo della bocca sollevato.
“Sai che per trovare il posto mi è bastato chiedere dove va a bere
quell’investigatore da quattro soldi che sta sulla decima?” esordì,
facendosi avanti e stringendogli la mano con calore.
“Spero che tu abbia detto ‘quell’affascinante investigatore da quattro
soldi’,” gli rispose Tom, alzandosi.
James sbuffò e se lo tirò contro. La fronte di Tom gli arrivava più o
meno all’orecchio.
“È un secolo…” sussurrò James.
“Dal funerale di Morrison. Un paio d’anni…” corresse Tom, districandosi
dall’abbraccio.
Aveva avuto modo di notare che James sembrava invecchiato e stanco.
C’erano segni intorno ai suoi occhi che era certo di non aver mai
visto. E il suo sorriso. Era il solito, certo, ma appena malinconico se
non si ingannava. E non si ingannava, lo conosceva troppo bene.
Ma in fin dei conti neanche lui poteva dire di essere passato indenne
attraverso gli ultimi anni: beveva troppo, era disgustato da tre quarti
dell’umanità, si sentiva solo. Certamente tutto questo traspariva dai
suoi tratti.
‘Il giorno che trasparirà da un capello bianco è molto vicino…’si disse
e rabbrividì mentalmente.
Era molto orgoglioso dei suoi capelli castano scuro.
James si accomodò sullo sgabello che Tom gli aveva riservato,
ringraziando distrattamente Winnie per il drink che gli aveva servito.
La donna gli rivolse un ultimo sguardo estasiato, poi fece a Tom un
piccolo cenno di saluto con il capo prima di allontanarsi per lasciar
loro un po’ di privacy.
Tom le fece l’occhiolino.
“Mi aspettavo di vederti in divisa. Winnie sarebbe svenuta,” disse a
James, dando un’occhiata al cappotto scuro dell’amico e alla giacca
sportiva che si intravedeva sotto di esso.
James scrollò le spalle: “Sono arrivato in aeroporto alle due, ho avuto
tutto il tempo di andare in albergo, pranzare e cambiarmi.”
“Credevo fossi in città per lavoro. Per qualche patriottico incarico da
svolgere in alta uniforme e con piglio solenne.”
James annuì: “È per lavoro, infatti, ma non oggi. Mi sono preso qualche
giorno per sbrigare un po’ di faccende personali, vedere te e infine
l’impegno ufficiale: sono a L. A. perché venerdì si riunisce una
commissione d’inchiesta.”
“Commissione d’inchiesta? Avete avuto qualche casino, giù al Sud?”
chiese Tom, riferendosi alla base militare di Encino, dove l’amico era
di stanza.
“Più che un casino direi una catastrofe,” confermò James bevendo. “Più
o meno un mese fa un convoglio che trasportava armi da Encino al nostro
deposito sul confine è sparito. La camionetta di scorta è stata
assaltata, gli uomini messi fuori combattimento.”
Tom fischiò: “E le armi sono sparite? Sembra un attacco alla diligenza,
messa così…”
“Erano un gruppo molto organizzato: il camion che trasportava le armi
si è fermato, forse avevano bloccato la strada in qualche modo. Era
buio, la strada da Encino al deposito 114 è per buona parte sterrata,
non illuminata. La camionetta della scorta si è fermata, gli uomini
hanno pensato che ci fosse da rimuovere qualche ostacolo sulla
careggiata e sono scesi per dare una mano. Erano tutti pivelli,
arruolati dopo la guerra. Appena sono stati a terra li hanno circondati
e disarmati. Ci sono state delle indagini, condotte da noi con
l’appoggio della polizia locale, ma non abbiamo trovato i banditi, per
riprendere la tua similitudine.”
Scosse la testa.
“Hai detto che forse hanno bloccato la strada? Cosa ha detto il
conducente del camion?” chiese Tom.
James buttò giù quanto restava del suo whisky in un sorso: “Niente.
Dopo aver disarmato la scorta gli hanno sparato. Forse ha cercato di
reagire.”
“Ma c’era solo una camionetta? Solo quattro uomini per scortare un
camion di armi e munizioni? Perché?”
Non gli sembrava prudente.
James allargò le braccia, con l’aria di chi aveva dovuto ripetere la
stessa risposta all’infinito, ben sapendo che risultava
insoddisfacente: “Siamo a corto di uomini. Il deposito è vicino,
nonostante le condizioni della strada il viaggio normalmente non
richiede più di due ore e certo non attacchiamo i manifesti per far
sapere a chiunque quando spostiamo carichi pericolosi. In poche parole:
chi se lo aspettava?” concluse, con tono forse troppo leggero.
Ma era una farsa: Tom era perfettamente in grado di capire che la cosa
aveva sconvolto il suo amico.
“E tu come ci entri? Fai parte della commissione d’inchiesta?”
James gli rivolse un sorriso auto derisorio: “Ho autorizzato io la
partenza del convoglio. Mi è stata delegata l’organizzazione degli
armamenti della base. Doveva essere una promozione. Ho festeggiato, lo
scorso anno, quando mi hanno conferito l’incarico.”
Tom imprecò sottovoce, per sottolineare la gravità del fatto.
“Quindi dato che i responsabili non sono stati arrestati, la
commissione cerca qualcuno su cui scaricare la colpa?”
“Sono un ufficiale. Sono responsabile delle decisioni che prendo,”
rispose James. Fece cenno a Winnie di riempirgli di nuovo il bicchiere.
“Non ho sentito nulla, di questa storia. È successo il mese scorso, hai
detto? Non c’era una parola sui giornali.”
“Grazie al cielo. È stato uno smacco incredibile, per l’esercito. Tutti
hanno tenuto la bocca cucita.”
“Chi sospettate?”
“Così vicino al confine? I Messicani. Al di là del confine episodi di
questo genere non sono così infrequenti, girano diverse bande armate.”
Era davvero una catastrofe, ed era evidente che James stava facendo un
po’ di fatica a mantenersi calmo.
“Domani sera ho un incontro informale al palazzo del Governo, per
valutare la linea di condotta da tenere, e venerdì c’è l’incontro
ufficiale davanti alla commissione,” continuò.
“La commissione reclamerà la tua testa?”
“Al massimo formuleranno un’accusa e da quel momento potrò difendermi.
Dai, ora basta parlare di questa storia, sono venuto per vederti. Dimmi
come te la passi,” gli sorrise, facendo un cenno con il bicchiere come
a voler accantonare tutta la faccenda, l’assalto al convoglio, la morte
di un uomo e la sua presunta responsabilità per tutto quello che era
successo.
Tom fece roteare le ultime gocce di liquore sul fondo del suo
bicchiere.
“Non c’è molto da dire. Nessuna grande novità, niente rivelazioni
sconvolgenti, a parte un nuovo foro di proiettile sul fianco destro,”
scherzò.
“Meglio così. Come va il lavoro?”
“Direi bene. La solita routine di fedifraghi, dipendenti disonesti e
truffe assicurative, e da oggi un caso di sparizione, che me lo sento,
mi procurerà un sacco di grane con la polizia. Il distretto è quello di
Kuntz.”
Si poteva dire che il capitano Kuntz non avesse proprio grande stima di
Tom Ludlow, sin dai tempi dell’accademia di polizia che per un periodo
avevano frequentato assieme.
Quando il piccolo e oscuro segreto di Tom era venuto alla luce (parole
di Kuntz stesso; Tom pensava alla cosa come alla sua ‘posizione sul
campo da football della vita’), Kuntz e suoi compagni e tirapiedi
avevano deciso che denunciarlo e farlo sbattere fuori dall’accademia
sarebbe stato troppo facile e poco divertente. Avevano optato per
persuadere Tom ad andarsene di sua scelta, “con le tue gambe o su una
barella, a seconda di quando ci metterai a decidere”, per riportare
esattamente come l’avevano messa loro prima di rompergli due costole.
Tom aveva sopportato sei mesi di continue minacce, umiliazioni e
agguati. A una settimana dalla cerimonia di diploma il bilancio dei
danni comprendeva in tutto tre costole rotte, mignolo e anulare della
mano sinistra spezzate (ancora un po’ storte adesso), un dente saltato,
un taglio che aveva richiesto dei punti dopo una discussione nel bar
dove le reclute andavano a bere a fine giornata.
A sua volta, Tom aveva restituito un discreto numero di colpi: lo
stesso Kuntz si era guadagnato una frattura alla mandibola e uno dei
suoi cari amici aveva preso tante botte da lasciare il gioco e non
avvicinarsi mai più a Tom.
Tutto questo, cercando di evitare l’attenzione dei loro istruttori.
Soprattutto Tom doveva preoccuparsene: se avesse lasciato troppi segni
e i superiori si fossero accorti di qualcosa gli altri si sarebbero
spalleggiati a vicenda e lui sarebbe stato buttato fuori. Si era fatto
amico un dottore che non faceva troppe domande che ancora esercitava,
nella trentasettesima.
All’epoca James si era appena arruolato e anche se si vedevano appena
riuscivano a far combaciare le rispettive licenze, di tutta la faccenda
era al corrente solo di un paio di episodi.
“Cristo, Tom, non puoi stare lontano da quell’uomo? Ho il sospetto che
tu te le cerchi, le grane con la polizia,” fece James, con aria di
biasimo.
Forse non era così lontano dal vero.
“Lo sai come siamo io e Kuntz: non perdiamo occasione di ribadire
quello che siamo, un sadico bastardo e una checca orgogliosa,” replicò
Tom, stringendosi nelle spalle.
“Questa guerra con Kuntz non avresti mai dovuto iniziarla, Tom. E non
sarà mai troppo presto per farla finita. Perché non puoi semplicemente
lasciare perdere?”
“Perché rifiuto di andare a nascondermi ogni volta che quel bastardo
attraversa la strada,” ringhiò Tom, a denti stretti.
Stava cominciando ad arrabbiarsi.
Non aveva lasciato l’accademia a una settimana dal diploma perché ne
aveva finalmente avuto abbastanza dei soprusi di quella banda di
violenti.
Se si fosse diplomato avrebbe semplicemente potuto chiedere di essere
assegnato a un distretto diverso da quello di Kuntz. Prima che le
chiacchere su con chi passava il suo tempo libero lo avessero
raggiunto, non dubitava che sarebbe riuscito a farsi apprezzare per il
suo lavoro e il suo cervello. Sapeva di essere intelligente e sapeva di
poterlo dimostrare. Era certo di riuscire a farsi accettare dai suoi
colleghi e se anche qualche idiota di un altro distretto avesse sparso
la voce che era un invertito i suoi colleghi lo avrebbero comunque
sostenuto, perché così fanno i poliziotti: sono solidali tra loro e
ancor più solidali tanto più l’ambiente è ristretto, come all’interno
dello stesso distretto o dello stesso quartiere.
Avrebbe potuto avere la sua uniforme blu, prima o poi le chiacchere
sarebbero cadute nel nulla. Senonché, così facendo avrebbe dovuto
nascondersi. Non avrebbe dovuto dar sostegno alle dicerie sul suo
conto. Avrebbe dovuto mentire, comportarsi da ipocrita, costruirsi una
vita che supportasse le sue menzogne.
Sentiva di non poterlo fare.
E questo James lo sapeva, era con lui che ne aveva discusso una notte
intera. Per questo si stava arrabbiando.
“Non ho intenzione di comportarmi da codardo. Ho fatto la mia scelta e
devi rispettarla. Non venirmi a parlare di lasciar perdere, di
ignorarli o di far finta di niente! Tu hai scelto la tua vita e io
cerco, per quanto mi riesce, di non intromettermi. Non puoi rendermi la
cortesia?” gli sibilò contro.
“Sappiamo entrambi che tra noi due sono stato io a fare la scelta del
codardo,” gli rispose James, senza perdere le staffe.
Lui non perdeva mai le staffe.
“Anche se ti assicuro che vivere nella paura che tutto possa saltare
fuori non è semplice. Ma l’altra opzione mi spaventa ancora di più. Mi
preoccupo per te, che uno di quei bastardi ti possa sparare in un
vicolo, o…”
“So badare a me stesso,” gli rispose Tom, un po’ addolcito.
“Lo so. Hai intenzione di invitarmi a cena o no?” concluse James,
alzandosi in piedi e lasciando un paio di banconote accanto al
bicchiere per saldare il conto.
Anche Tom si alzò: “Ti va una bistecca? Conosco un posto. È poco più di
una bettola, ma la cucina è grandiosa.”
Uscirono dalla Pantera Blu, lanciando un saluto a Winnie, occupata con
i clienti arrivati negli ultimi minuti.
“Poco più di una bettola? Preferirei un posto di classe: cosa mi sono
portato a fare il frac in valigia, altrimenti?” ridacchiò James.
Si avviarono per i vicoli del quartiere.
“È un posto intimo. Magari non ti va di farti vedere troppo con me. Qui
tutti mi conoscono e le voci girano,” gli rispose Tom con tono leggero.
Non avrebbe mai e poi mai messo in difficoltà James. Il problema non
era solo un eventuale scandalo. James adorava la vita militare, non
avrebbe sopportato di essere cacciato.
James gli si fece più vicino e gli diede una spallata giocosa: “Non è
un problema. Nessuno conosce me.”
“È vero. Se fossi da solo probabilmente qualcuno ti avrebbe già
rapinato. Ma dato che sei con me...” disse Tom.
“Sono venuto fin qui da solo e non mi è successo niente,” gli fece
notare l’amico.
“Vediamo come andrà stanotte quando usciremo dal ristorante e tornerai
in albergo da solo,” lo rimbeccò Tom, leggermente piccato che James
avesse snobbato la sua protezione.
Anche se doveva ammettere che solo un idiota avrebbe provato a derubare
un tipo alto un metro e ottantacinque, con il fisico di un pugile e un
taglio di capelli che urlava ‘forze armate’. Inoltre, forse un pivello
non lo avrebbe notato, ma un delinquente esperto avrebbe riconosciuto
il rigonfiamento provocato dalla pistola d’ordinanza di James. Quindi
forse la sua offerta di protezione era inutile, ma non per questo meno
cavalleresca, no?
La cena fu piacevole. Il ristorante non era un granché, ma le bistecche
erano anche meglio di come Tom ricordasse, e gli alcolici passabili.
Tuttavia non era posto dove passare tutta la sera a bere e dato che
l’atmosfera si era fatta un po’ malinconica (‘Segno della vecchiaia
imminente’ si disse Tom), propose di farsi ancora qualche drink nel suo
ufficio.
Il portiere del palazzo rivolse loro niente più che un cenno della
testa e due uomini salirono indisturbati fino al quarto piano.
“Devi bagnare le felci,” gli ricordò James, con un sorriso un po’
brillo.
Tom lo mandò al diavolo.
Un piccolo mobile bar occupava un angolo dell’ufficio. Era appartenuto
a Butch Morrison, che lo riteneva più elegante che tenere una bottiglia
nel primo cassetto della scrivania.
“Specie quando devi offrirne ai clienti,” gli ripeteva spesso.
Mentre Tom, abbandonata la sua giacca, versava del liquore in due
bicchieri, allungando la bibita con un po’ d’acqua, James diede
un’occhiata alla stanza.
“Non me la ricordavo così spoglia,” commentò.
Tom gli porse il bicchiere: “Ho tolto le foto. Da poco, in realtà. Non
mi hanno mai dato fastidio dopo il funerale, poi un giorno sono entrato
e mi sono ritrovato a pensare che se non le toglievo al più presto
avrei sfasciato tutto in un attacco di rabbia. Hanno cominciato a farmi
impressione così, dal nulla.” Prese qualche sorso. “Le riappenderò,
prima o poi. Quando mi prenderà un po’ di nostalgia.”
“Sei sempre stato un sentimentale,” fece James. “Povero Butch. Dava
l’impressione di essere insormontabile, indistruttibile. Irremovibile.”
“Già, e invece…”
Morrison era morto per un attacco cardiaco. Lui e Tom erano stati
coinvolti in una sparatoria, per un caso di rapina. Avevano sistemato i
delinquenti, la polizia era arrivata a dar loro man forte, per una
volta, e tutto sembrava risolto. Era tornata la calma, Butch si era
acceso una sigaretta ed era caduto nel bel mezzo della strada, sui
piedi del poliziotto che gli aveva prestato l’accendino. Probabilmente
aveva il cuore malandato da tempo.
“Le altre stanze sono chiuse?” chiese James, accennando con un gesto a
una porta laterale.
Tom fece cenno di sì.
“Non ho bisogno di tutto quello spazio. Uso solo la stanza sul retro.
Ancora?” chiese, allungando una mano per prendergli il bicchiere vuoto.
James glielo consegnò.
“Cavolo. Niente più acqua,” constatò Tom, una volta tornato al mobile
bar.
Aprì la porta della stanza sul retro per riempire una caraffa dal
piccolo lavandino di servizio.
James si affacciò nella stanza dietro di lui.
“Ma che…cavolo, Tom, ci vivi, qui?” gli domandò stupito.
La stanza aveva una piccola finestra con gli avvolgibili abbassati, un
letto in ferro sgangherato sulla cui spalliera erano appese un paio di
camicie. Un cassettone conteneva il resto dei vestiti di Tom.
L’investigatore scosse le spalle.
“Fai tu?” disse, consegnando la caraffa a James, e andò ad aprire la
finestra per far circolare un po’ d’aria.
James aggrottò la fronte, ma preparò due nuovi drink.
“Allora? Ti sei trasferito in ufficio?” chiese di nuovo, tornando.
“Ho cominciato a dormirci un paio di volte a settimana. Poi finivo
sempre per fermarmi qui. A volte tornavo a casa e dopo due ore ero di
nuovo qui,” spiegò Tom: “Così ho lasciato l’appartamento e mi sono
attrezzato per restare.”
Si rendeva conto che la sistemazione era quanto mai squallida, e
avvertita una punta di vergogna all’idea della bottiglia in fondo al
suo cassetto della biancheria. Ma quella sistemazione si accordava
perfettamente con il suo stato d’animo degli ultimi tempi: usurato.
“Hai lasciato la casa in Yucca Avenue?” James scosse la testa
incredulo. “E io che mi ero quasi offeso perché non hai provato a
portarmi a casa tua…” commentò con un sorriso.
Tom si affacciò alla finestra: “Era una casa grande…e non ci portavo
mai nessuno.”
James si avvicinò alla sua schiena: “Ma stare qui…non mi sembra
salutare. Dovresti allontanarti da qui ogni tanto, dimenticare il
lavoro. Ci riesci, con lo schedario dei casi a due metri dal tuo
cuscino? E poi, dannazione, Tom, è un attico! Se proprio vuoi viverci
perché non lo arredi come si deve, invece di …bivaccare come un uomo
cacciato di casa dalla moglie?” fece James, con tono leggermente
esasperato.
Cominciava a far fresco per un uomo in maniche di camicia, così Tom
richiuse la finestra.
“Non è così male, alla fine. È luminosa, le tubature del bagno sono
nuove, al mattino non faccio mai tardi al lavoro e in questo momento
nella mia camera da letto c’è uno splendido uomo. Che cosa potrei
volere, di più?” rispose, rivolgendo un ghigno a James.
Vuotò il bicchiere. Fece per scostarsi dalla finestra, ma James non si
mosse.
Gli rivolgeva uno sguardo che Tom conosceva perfettamente: se l’erano
scambiati un milione di volte; era certo, anche se erano passati quasi
quindici anni, che il primo sguardo che James gli avesse mai rivolto
fosse proprio quello. Era uno sguardo caldo, profondo, tenace
nell’attesa che Tom si avvicinasse.
Ogni volta che James lo guardava così finivano l’uno contro l’altro,
pronti a finire a letto.
Non erano mai stati una vera coppia. Erano sempre stati attratti l’uno
dall’altro ed erano sempre andati a letto insieme, più spesso che no,
ma avevano entrambi stabilito che avere un amico con cui condividere
quello che erano, quello che li faceva sentire diversi da tutti gli
altri era molto più importante di una scopata.
Winnie gli aveva chiesto se James era un amore non corrisposto: per
Tom, James era prima di tutto un amico. Lo amava, ed era riamato, ma
era un aspetto secondario della loro relazione.
“Mi guardi così perché ti faccio pena per la storia dell’appartamento?”
gli chiese prendendo tempo.
E allo stesso tempo facendo un passo verso di lui.
“Ci penso da quando ti ho visto al bar. Dal momento in cui ti ho
abbracciato,” rispose l’altro.
“Lo sapevo,” fece Tom, allungando una mano dietro di sé e riabbassando
gli avvolgibili.
Entrambi cercarono a tentoni il davanzale della finestra per posare e i
bicchieri, e magicamente quel gesto li addossò l’uno all’altro. Non
appena Tom reclinò la testa all’indietro James prese a baciarlo
stringendolo tra le braccia fino a lasciarlo senza fiato. Tom non ebbe
altra scelta che aggrapparsi alla sua vita, sentendo la testa leggera
come se si fosse ubriacato di nuvole. Sentiva il cuore nel petto
accelerato più del suo respiro e dovette staccarsi dall’amico.
“Dammi un minuto, ti prego…” lo implorò, voltandogli le spalle.
James gli premette il petto contro la schiena e gli baciò una tempia:
“Stai bene?”
“Sì, è solo passato molto tempo. Credo di essere nervoso,” spiegò Tom,
prendendo l’altro per mano e avvicinandosi al letto. “Meglio non stare
a pensarci troppo,” continuò con un ghigno.
Era passato davvero molto tempo. Non si era mai sentito troppo a suo
agio ad agganciare qualcuno in un locale, anche se non erano mai
mancati i damerini che gli avevano proposto un giro su qualche bella
macchina sportiva. Né era un tipo da far sesso in un luogo pubblico,
principalmente perché il rischio di rimorchiare un agente della
buoncostume non lo eccitava minimamente. Sapeva che James, stando così
vicino al confine, trovava tempo ogni tanto per una gita in qualche
bordello messicano. In un bordello messicano si può trovare di tutto.
‘Anche cose che preferiresti non vedere mai’ ricordò a se stesso,
ripensando a un viaggio fatto da ragazzo con altri due amici.
Scacciò l’immagine dalla mente, mentre guardava James mettersi a sedere
di fronte a lui con un sorriso divertito.
Tom cominciò a sbottonarsi la camicia, ma James sostituì le sue dita
con le proprie: “Lascia fare a me…” sussurrò.
Tom si svegliò circa verso le due, a sentire il suo orologio interno.
Nella notte James si era alzato e aveva aperto la finestra di pochi
centimetri, e ora fumava seduto a letto con un ginocchio piegato,
lasciando cadere la cenere in uno dei bicchieri che avevano usato la
sera prima. Aveva lo sguardo rivolto verso la finestra, ma quando Tom
si stropicciò un occhio abbassò gli occhi azzurri su di lui senza dire
nulla.
Ancora non del tutto sveglio, Tom alzò una mano e gliela appoggiò sul
petto, quasi a verificare che fosse davvero lì.
Era contento di essersi svegliato. Negli anni lui e l’amico non avevano
mai condiviso un appartamento: le volte che si erano svegliati assieme
nello stesso letto si contavano sulle dita di una mano. Anche quella
notte James aveva con tutta probabilità l’intenzione di tornare a
dormire in albergo.
Tom gli accarezzò con la punta delle dita i muscoli ben definiti,
scendendo fino agli addominali. Con gli occhi studiò la curva della
spalla, il braccio con cui James reggeva la sigaretta continuando a
fumare.
Gli sarebbe piaciuto dormire con James, svegliarsi tardi, fare
colazione. Talvolta rimpiangeva che non potessero avere una vita
insieme, ma non era cosa per un soldato e un detective privato. Al
massimo lo facevano quei vecchi omosessuali che gestivano esclusivi
negozi di antiquariato.
James continuava a fissarlo, soffiando fumo azzurrognolo a intervalli
regolari. Quante cose avrebbe voluto dirgli, Tom. Mi sei mancato.
Resta, per stanotte. Possiamo sistemarla insieme, la faccenda della
commissione d’inchiesta.
“Scopami,” disse.
James lasciò cadere la sigaretta nel bicchiere che usava come
posacenere e si chinò su di lui.
Note:
Grazie per aver letto fin qui!
Questa è una vecchia storia scritta per un NaNoWriMo, ispirata a 'Il
lungo addio' di Raymon Chandler e a 'L'ultimo caso di Umney' di Stephen
King, ma senza pretese È completa e mi spiaceva
abbandonarla senza averla mai pubblicata.
Non ne sono completamente soddisfatta: il titolo è particolarmente
stupido (ma è sopravvissuto per anni, ad almeno tre revisioni, quindi
restaXD), i riferimenti geografici sono abbastanza raffazzonati, il
periodo storico volutamente indefinito perchè all'epoca non volevo
perdermi in ricerche infinite invece di scrivere e raggiungere le mie
1667 parole quotidiane.
Inoltre, ai tempi non mi ero neanche posta il problema, ma ora mi
domando se io sia davvero la persona adatta a scrivere di un
personaggio bisessuale in un ambiente omofobo....spero di non urtare la
sensibilità di nessuno.
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