Su
Alexandria è calata una sera ruvida, quasi violenta nei suoi
contrasti cromatici. Castore e Polluce, i soli gemelli che illuminano
quella frazione di universo, sono bassi sull'orizzonte. I loro raggi
morenti inondano il mondo di una luce scarlatta, simile al sangue e
al fuoco, che delinea con nettezza i confini delle cose: li modella,
li affila, li rende taglienti come la lama di un coltello.
Basta
una raffica di vento più forte delle altre, però,
perché
l'atmosfera si faccia d'un tratto torbida e opaca. Sono ormai tre
giorni che il Baleo spira ininterrottamente da ovest, raccogliendo
grandi quantità di sabbia dorata nel Deserto dell'Eleos e
scaraventandola poi sulle immense piane orientali. Alexandria
è una
delle prime roccaforti umane che il vento incontra sul suo cammino e
la sabbia vi si abbatte con rabbia, graffiando impietosa gli
imponenti edifici di pietra e vetro che gli uomini hanno eretto nel
corso di pochi decenni.
A
chi, immerso in quell'atmosfera amara, percorre le vie della
città,
i palazzi affusolati che costeggiano le strade sembrano nere torri di
ossidiana, distorte e irregolari. A seconda dell'intensità
del
vento, i raggi del tramonto si riflettono in un baluginio
fiammeggiante sulle finestre di un edificio, oppure vengono assorbiti
dalle particelle minerali sospese nell'aria, lasciando che l'opera
dell'uomo si perda in un turbinio confuso.
La
città è quieta, immersa in
un'immobilità innaturale. Le porte dei
palazzi sono chiuse, le finestre serrate: non v'è
pressoché nulla
che indichi che quel luogo è abitato da esseri senzienti e
non è
invece soltanto la dimora della sabbia e del Baleo feroce. Solo di
tanto in tanto si scorge il repentino scostarsi di una tendina e si
intravede, ombra sfocata nel riflesso purpureo del cielo,
l'impressione di un volto esangue, gli occhi sbarrati, la bocca
socchiusa in un'esclamazione muta. Sono pochi, gli abitanti di
Alexandria che trovano la voglia di trascinarsi fino alla finestra:
quelli che lo fanno, però, sono tutti spinti dalla stessa
ragione.
C'è
qualcuno che cammina per la strada. Ne avvertono la presenza dai loro
salotti, dai letti in cui sono coricati. Non è una
sensazione che
sanno definire con chiarezza, ma piuttosto un presentimento oscuro
che impregna l'aria, qualcosa che solletica i loro sensi, spingendoli
a scuotersi brevemente dal torpore delle loro stanze piene di
penombra e a raggiungere una finestra che dà sulla via
principale.
Chi
mai può essere così folle da uscire allo scoperto
con un tempo del
genere? Non basta il male che è calato su di loro?
È davvero
necessario aggiungerne dell'altro, sfidando la tempesta di sabbia e
andando in cerca di sciagure in quell'ambiente selvaggio e ostile?
I
loro occhi spenti seguono apatici il viandante solitario, lo guardano
trascinarsi lento, ma inarrestabile, lungo la strada deserta. Cammina
al centro esatto della carreggiata, senza preoccuparsi di proteggersi
dal vento e dagli sguardi di chi lo osserva dagli appartamenti bui.
Si potrebbe pensare che si senta il padrone di quel luogo desolato,
se non fosse per quell'incedere zoppicante, per l'aria di mesto
abbandono con cui lascia cadere la testa e ciondolare le spalle. No,
pensano gli abitanti di Alexandria che ancora riescono a reggersi in
piedi: non è un conquistatore venuto da fuori, ma un
disperato al
par loro che forse la malattia ha privato del senno.
Egli,
colui che cammina, non si cura di quei pensieri. Oh, non li ignora,
ne è anzi profondamente consapevole, dal momento che essi
hanno
attraversato la sua mente più e più volte,
turbinando vorticosi
come il vento che spazza la strada, schiaffeggia le facciate degli
edifici e stritola i lampioni, facendoli tremare e vibrare come se
fossero fragili steli d'erba. Dopo lungo riflettere, ha compreso
l'ineluttabilità del fato che l'attende; ergo cammina,
prigioniero
della trappola che egli stesso ha approntato, e attende la fine.
Mentre
si trascina per le strade polverose e deserte, avverte che Alexandria
è una città nata già morta: come un
cadavere non ancora intaccato
dal decadimento della materia, essa conserva intatte le sue arterie
stradali, l'ossatura data dalla struttura geometrica e ordinata dei
gruppi di edifici, i centri nevralgici delle centrali elettriche da
cui gli uomini traggono l'energia che permette loro di sopravvivere
tanto lontani da casa, ma la scintilla dell'anima non c'è
più. O,
meglio: non c'è mai stata.
Se
fosse in grado di provare ironia o sarcasmo, penserebbe forse che vi
sia un che di ironico nel fatto che la sua esistenza millenaria si
concluderà proprio in quel luogo insignificante, simbolo
della
stirpe di invasori giunti da un altrove che non ha mai conosciuto. Da
quando gli umani sono arrivati nel suo piccolo mondo, lui, il
pellegrino, è mutato. Ha perso certe sue caratteristiche
antiche e
ne ha assunte di nuove: non può dirsi simile alle creature
che lo
spiano dal rifugio illusorio delle loro tane artificiali, ma non
è
nemmeno più qualcosa di completamente estraneo alla loro
natura.
Quando
passa accanto a un'enorme superficie riflettente, una vetrina
specchiata che ancora custodisce dei mobili che gli umani avrebbero
potuto comprare per arredare le loro case, il viandante si ferma per
un istante. È quella, la forma che ora gli appartiene? Vede
una
figura curva, scheletrica, abiti scuri che coprono una
nudità che
lui non ha mai visto. Com'è il suo volto? Non riesce a
scorgerlo.
C'è un vecchio cappello polveroso, sopra al suo capo, e una
sciarpa
del colore della ruggine nasconde il suo viso, come per proteggere il
naso e la bocca dalla sabbia portata dal vento. Perché ha
assunto
quella forma? Non la forma umana, ma chi ha scelto per lui quegli
abiti - concetto che gli è estraneo? Perché
quello scudo davanti
agli organi che introducono l'ossigeno nel corpo? Lui ha avuto
origine tra la sabbia e tra il vento, tra le antiche oasi paludose
che brillano come gemme nel deserto occidentale, tra specie di piante
che non esistono più da milioni di anni, tra piccole
creature senza
nome, pelose o coperte di scaglie, che guizzavano o strisciavano
all'ombra di foglie spesse e ricche di venature. Il vento è
suo
amico e alleato. Non ha bisogno di alcuna sciarpa che lo protegga da
esso, eppure è così che finirà: in
quella forma che non riconosce
e che non avrebbe mai dovuto assumere.
Anche
se non è mai stato padrone di nulla, anche se per la maggior
parte
della sua esistenza non ha avuto nemmeno una vera consapevolezza di
sé, ha sempre avvertito nella sua essenza più
profonda di essere
esattamente dov'era giusto che fosse. Ed è per questo che il
suo
operato è sempre stato il più giusto possibile,
fino al momento in
cui il suo cammino non si è incrociato con quello della
razza umana.
È stato lì, che qualcosa si è spezzato.
Spinto
da passi che non ha scelto di muovere, trascinato da quel vento che
gli ha fatto conoscere l'intero continente, il viaggiatore solitario
abbandona la via principale, lasciandosi alle spalle gli sguardi
offuscati delle persone che lo spiano da dietro le tende dei loro
appartamenti. Quando sparisce dalla loro vista, gli abitanti di
Alexandria sentono che la tensione che li ha spinti fino alle loro
finestre svanisce, lasciandoli di nuovo preda della consueta
spossatezza. E allora risucchiano respiri rantolanti che hanno il
gusto ferruginoso del sangue, gemono per i dolori alle giunture, si
aggrappano ai tavoli, fiaccati dalla febbre, e infine fanno ritorno
ai loro giacigli con l'impressione di aver quasi toccato con mano il
cuore pulsante del male che li ha colpiti. Sentono inspiegabilmente
di essersi trovati di fronte la chiave del l'enigma, senza essere
però riusciti ad afferrarla.
Colui
che cammina si trova adesso in un vicolo nascosto tra due edifici
mastodontici. È una stradicciola posta perpendicolarmente
rispetto
alla via principale ed è protetta dal soffio costante del
vento: il
Baleo urla all'imbocco, ma non riesce a entrarvi. Il silenzio
è
pressoché assoluto, lì, e il viaggiatore si ferma
un istante, quasi
frastornato.
È
grazie a quel silenzio che sente un frusciare diverso, assai
più
lieve di quello del vento, un suono simile al tramestio di una
bestiola che scava tra la sabbia e i rami alla ricerca di cibo.
Questa, di bestiola, sembra frugare tra i rifiuti della
città,
perché il viandante ode un grattare metallico, come di
unghie che
raspano contro la fiancata di uno di quei bidoni in cui gli umani
gettano ciò che non usano più.
Non
è il vento a farlo muovere, ora, ma un istinto antico, una
specie di
curiosità che gli è raramente capitato di
provare. Con passo
incerto, con un piede che avanza zoppicando e con l'altro che
striscia sul terreno, il pellegrino si avvicina alla fonte del rumore
e vede che è davvero un animaletto, quello che lo sta
producendo.
È
piccolo, un mucchietto di ossa rattrappite tenute insieme da una
pelle sottile e glabra che forse un tempo era stata del colore
dell'ambra, ma che ora è stata resa grigia dalla sporcizia e
dalla
malattia. È un cucciolo d'uomo, deve avere cinque o sei anni
al
massimo. Colui che cammina vede che non gli resta molto da vivere:
non solo perché i segni del morbo che ha devastato la
città sono
evidenti sul suo volto - il sangue rappreso sotto al naso e sui lobi
delle orecchie, il respiro sibilante, il sudore che gli imperla la
fronte - ma anche perché il suo corpo fragile è
visibilmente
fiaccato dai morsi della fame e della sete. Quel bambino è
orfano, i
suoi genitori devono essere morti già da diversi giorni.
È solo al
mondo: è per questo che si trova lì, in mezzo a
una strada simile a
una fogna. Non c'è nessuno che l'abbia obbligato a rimanere
in casa.
Il
viaggiatore lo guarda, lo osserva, lo giudica: è stato lui a
ridurlo
così e adesso soppesa la propria opera, cercandovi un
difetto, un
dettaglio che lo aiuti a capire perché la fine di quel
bambino
coinciderà con la sua.
Il
piccolo uomo si accorge di della sua presenza e smette di scavare
all'interno del bidone ormai vuoto. Alza su di lui i suoi occhi
enormi, troppo grandi per quel volto scarno, così neri che
sembra
che abbiano inghiottito la notte. Lo guarda, e lo riconosce. Egli,
colui che cammina, un virus che ha vissuto su quel piccolo pianeta
per mille e mille secoli, un essere senza forma che ne ha assunta una
solo nella mente della stirpe aliena giunta in quella terra da poche
decine di anni, punta i suoi occhi acquosi e iniettati di sangue in
quelli di tenebra della creaturina aliena.
Per
quanto fragile e delicato, quel cucciolo non è
più debole dei
piccoli roditori dalla pelliccia dorata che ha abitato fino a pochi
decenni prima. Sin dalla sua origine, l'esistenza del pellegrino
è
stata appesa a un filo. La sua natura fluida e multiforme - o forse
del tutto priva di forma - non gli ha mai permesso di sopravvivere in
autonomia: ha sempre avuto bisogno di un ospite da abitare, qualcuno
o qualcosa a cui sottrarre non solo l'energia, ma anche l'essenza
stessa della vita. Si è sempre dovuto accontentare di
creature
effimere, la cui esistenza durava quanto un soffio di vento,
perché,
per qualche motivo, gli esseri più grandi e forti gli
resistevano e
non gli permettevano di adattarsi al loro organismo. Poi erano
arrivati gli esseri umani.
Negli
occhi cupi del bambino si accende una luce improvvisa e il
viaggiatore si chiede quanto capisca veramente quella bestiolina
aliena, fin dove arrivi la sua consapevolezza. È uno
scintillio
quasi crudele, quello che vede in quelle iridi scure, bruciante come
un grido di trionfo. Oh, il bambino morirà, così
come sono morti o
moriranno presto tutti i suoi simili che vivono in quella
città.
Così come sono morti i piccoli roditori dorati, uccisi non
dal
viandante, ma dagli uomini, che li hanno sterminati quando si sono
resi conto che quegli ospiti indesiderati avevano portato ad
Alexandria lui, colui che cammina. Il virus li ha conquistati con
facilità, perché quegli invasori giunti dallo
spazio non avevano
difese contro di lui. C'era stato un istante, durante i primi mesi
del contagio, in cui aveva creduto che quella razza aliena fosse una
benedizione, l'occasione per emanciparsi da una vita di polvere e
sabbia e innalzarsi verso un'esistenza più sicura e
confortevole.
Poi
gli uomini avevano iniziato a morire. Anche i roditori morivano, ma
per uno che soccombeva, altri dieci ne nascevano e lui, il
pellegrino, aveva sempre nuove creature a cui aggrapparsi. Gli umani
l'avevano colto di sorpresa. Non sostituivano i morti con nuovi nati
e i loro cuccioli - quei pochi che c'erano - crescevano troppo,
troppo lentamente. E si mischiavano l'uno all'altro, mangiavano e
lavoravano insieme, si radunavano in piccoli locali affollati. Nel
giro di due mesi, il viandante aveva conosciuto ognuno di loro. Nel
giro di altri due mesi, i piccoli roditori dorati erano stati
sterminati dal primo all'ultimo. Altri due mesi, e metà
della
popolazione di Alexandria era morta. Prima del volgere dell'anno,
l'ultimo umano della città chiuderà per sempre
gli occhi e
scomparirà da quella terra; e lo stesso farà lui,
il pellegrino.
Perché non c'è più nessuno che possa
portarlo fuori, lontano da
lì: gli uomini hanno scavato e ucciso, costruito e
sterilizzato. Si
sono asserragliati nelle loro tane di vetro e pietra e non ne sono
più usciti. Hanno eliminato dai confini della
città ogni forma
vivente, così che il virus che li ha uccisi non possa
propagarsi
oltre. Se quella città triste sarà la loro tomba,
lì giacerà per
sempre anche colui che cammina.
E
il bambino rannicchiato tra la polvere e i rifiuti lo sa. Sotto lo
sguardo attento del viaggiatore solitario, le labbra del cucciolo
d'uomo, secche e spaccate e sporche di sangue, si piegano in un
ghigno di dolore e vittoria. I suoi occhi neri, troppo grandi e
troppo profondi, si accendono della luce di una risata senza gioia:
il bambino ride e con lui ride tutta la sua stirpe di invasori,
celebrando il sacrificio di pochi in favore della salvezza di
molti.
Colui
che cammina incespica, piegato dal peso del preveggenza,
perché vede
che la terra che ha sempre chiamato sua presto apparterrà a
quella
razza infida e ingannevole. Quando lui non ci sarà
più, quando
Alexandria sarà del tutto disabitata, altri uomini verranno
dal
cielo per sostituire i morti. Altri sono già arrivati,
avvolti in
bianchi scudi artificiali, protetti da maschere mostruose e
impenetrabili: il vento gli ha detto che non si avvicineranno alla
città fino a quando non sarà tutto finito.
Assisteranno impassibili
alla morte dei loro simili e poi ne reclameranno il territorio,
riprendendo la loro opera di conquista lì dove l'avevano
interrotta
i loro predecessori.
Poi
il bambino si fa serio e torna a dedicarsi al bidone vuoto,
riprendendo a raschiarne il fondo alla ricerca di frammenti di cibo.
Sembra perdere ogni interesse nei confronti del viaggiatore, e allora
anche lui, il pellegrino, indietreggia. Del resto, il piccolo alieno
ha ragione: non ha senso affannarsi per comprendere e cercare di
cambiare qualcosa che non può comunque essere essere
cambiato.
Con
un ultimo sguardo vacuo a quel cucciolo pieno di polvere, il
viaggiatore riprende il suo vagare, muovendosi su gambe che sembrano
non avere più forza verso una meta che ancora non conosce,
ma che di
certo sarà l'ultima che raggiungerà nella sua
lunga esistenza.
Fuori,
nelle strade di Alexandria e nelle immensità dei cieli delle
piane
orientali, il vento continua a soffiare.
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