esoskin
(NOT) MANY NOTES AWAY
FROM YOU
“Life
was stringing me along
Then
you came and you cut me loose
Was
solo singing on my own
Now
I can't find the key without you
”
-symphony,
clean bandit-
Non si può
sfuggire al suono.
Certo, può farti
sentire meno solo,
circondato da presenze altre, ma può anche perseguitarti
quando non
vorresti far altro che fuggire senza dover più dover
ascoltare
niente: le voci degli altri, la voce dei tuoi pensieri oppure... la
musica.
Per un compositore come Leo
Tsukinaga,
persino il rumore dei passi può assumere il ritmo di una
melodia; o
il battito del proprio cuore; o il proprio respiro affannato.
Il cappuccio della felpa
estiva grigia
calato sul volto non bastava a proteggerlo da suoni e rumori, dalle
sinfonie casuali della vita e tutti questi, puntualmente, si
affollavano nella sua testa: una tortura continua, ora che tutto quel
che produceva non faceva che ricordargli che era tutta lì,
la sua
esistenza.
Si sentiva come se non
fosse mai stato
fatto di carne e sangue, quanto piuttosto di spartiti ed inchiostro;
persino in quel momento, in cui provava a negarsi (perché
sì,
impedirsi di scrivere musica equivaleva a negarsi,
del tutto) stringendo forte le mani in pugni tremanti delle tasche
dei suoi jeans leggeri, sentiva lo spasmodico bisogno di appuntare
questa o quella melodia; oppure quello strambo motivetto che sembrava
essere uscito dal martello pneumatico in fondo alla strada...
Inutilmente,
accelerò il passo. Aveva deciso di uscire per evitare di
sentire la
voce di suo padre che sbraitava o per ascoltare ancora la voce cauta
di Ruka – quelli erano i suoni che meno poteva sopportare al
momento.
Per la
prima volta
in vita sua, desiderò un mondo muto.
Eppure,
più il
passo si faceva veloce e disperato, più ogni suono sembrava
amplificarsi: e allora il cuore diventava un tamburo, il respiro una
cacofonia sperimentale che si aggiungeva alla caotica sinfonia di una
città nel pieno della sua ignara estate, con gli assoli dei
gabbiani
che gracchiavano.
“Lasciatemi
in
pace”.
In un
infantile e
disperato tentativo di proteggersi, Leo portò le mani alle
orecchie.
Ve le premette così forte che per un attimo ebbe il timore
di farsi
scoppiare il cranio. E intanto correva, correva a perdifiato
perché
nonostante anche il vento fosse un rumore, riusciva a mettere a
tacere quasi tutto il resto.
“State
zitti”.
Prima
di fermarsi,
sentì la necessità di allontanarsi il
più possibile dal
chiacchiericcio allegro delle vie più trafficate; fu un
vicolo a
ridosso tra due palazzi di modeste dimensioni ad attirare la sua
attenzione e, nella penombra delle pareti, si chiuse su se stesso,
come una bestia ferita in cerca di un riparo – lontano dalla
giungla dei suoni della realtà... più o meno.
Aveva voglia di
piangere, urlare, prendere a pugni qualcosa – ma anche
questo, suo
malgrado, avrebbe causato rumore, suoni, ritmi.
Come
poteva
continuare a vivere in quel modo, lottando contro tutto quello che
era? Che era sempre stato?
“Non
puoi”.
«BASTA!»
Un
urlo,
liberatorio. Un grido che aveva trattenuto per ore, giorni –
chi lo
sapeva più. Però, per un momento, fu abbastanza
per mettere a
tacere tutto quello che lo circondava: la sua voce disperata aveva
per un attimo cancellato ogni errore, ogni colpa, ogni dubbio. Un
breve sospiro di sollievo che permise solo alla musica, poi, di
risuonare più forte e sovrastare le sue paure.
Ed era
musica
davvero, stavolta; una musica che lo avvolse con la
familiarità
delle lenzuola del proprio letto e da cui Leo, colto di sorpresa, si
lasciò abbracciare, cullare in ricordi che aveva
disperatamente
cercato di gettare via. Era sua, quella musica: nonostante producesse
troppo per una sola persona, non dimenticava mai
ciò che
metteva nero su bianco, men che meno ciò che poi con tanta
cura
modellava e rendeva perfetta, come un moderno Geppetto con i suoi
numerosi Pinocchio.
Poi,
all'improvviso, una nota diversa – dissonante, quasi, un
suono
sconosciuto che tutto ad un tratto faceva parte di ciò che
lui aveva
creato. Un intruso, uno straniero che in qualche modo si intrecciava
tra le sue note perfette in un modo imprevisto, un ospite
inaspettato.
Le sue
gambe si
mossero da sole; la musica ormai lo guidava, sospingendolo, cercando
di convincerlo con affetto ad andare avanti, assieme al suo orgoglio
e alla sua curiosità che lo tenevano per mano.
Era un
ipocrita.
Ne ebbe
la più
assoluta certezza quando continuò a camminare nonostante
intorno a
lui andasse presentandosi tutto quello da cui, da mesi, stava
cercando di allontanarsi: gli stendardi blu, una piccola folla di
persone armata di glowstick, le luci del palco che, nonostante fosse
pieno giorno, illuminavano chi dominava non solo quello spazio ma,
metaforicamente, l'intera città.
Conosceva
quelle
sensazioni, facevano parte di lui – eppure non le aveva mai
vissute
dalla posizione che aveva adesso, dal popolo. L'impianto audio,
preparato con attenzione e dedizione, invadeva tutto
con il
ritmo incessante della musica che lui stesso aveva scritto,
riportando non solo le note, ma anche le voci di chi, quella musica,
sapeva assoggettarla: cavalieri splendenti dai movimenti fluidi e
precisi tenevano legate a sé tutte le persone che,
incantate,
agitavano a tempo quelle moderne bacchette di luce. A nessuno
importava del sole cocente che si abbatteva su di loro,
perché i
veri astri erano quelli sul palco.
Eccola
di nuovo,
quella nota diversa: la voce frizzante e sconosciuta, come un assolo
improvvisato di jazz che si libera del resto dell'orchestra, che
spiazza e fa scalpitare il pubblico.
C'era
un cavaliere
di troppo tra chi lui stesso, pochi mesi prima, aveva insignito: non
riusciva a vederlo con chiarezza, ma poteva distinguere solo una
figura snella, dai movimenti eleganti seppur un po' rigidi e capelli
rossi come le mele più mature e succose – lui, un
nuovo cavaliere
che Leo, il legittimo re in fuga, non aveva mai visto. Come un pezzo
sbagliato inserito in un puzzle incompleto.
Per un
attimo, il
rumore assordante del suo cuore coprì persino le note di
Fight for
Judge.
Confusione?
Rabbia?
Eccitazione? Qualunque cosa fosse, quell'intruso gli aveva fatto
ribollire il sangue nelle vene. Aveva, per un attimo, spazzato via la
paura del suono, del rumore e aveva piuttosto risvegliato il suo
orgoglio: che cosa combinava con quei movimenti ingessati? E
perché
tanta incertezza nelle sue parti soliste? Non riusciva a credere che
Sena, Naru e Ritsu avessero permesso ad un tale principiante di
calcare la scena al loro fianco con tanta evidente inadeguatezza.
Eppure...
Brillava.
Leo si
trovava troppo lontano per riuscire a cogliere il suo sguardo, ma
riusciva a sentire il modo in cui prepotentemente sfidava non solo il
suo pubblico, ma anche i suoi compagni: avido, cercava di colmare con
la sola forza della volontà; difficile capire se lo facesse
per sé
o per tenere alto il nome dei suoi compagni, ma in qualche momento vi
riusciva.
Era un
comandante
nato. Più di Izumi che, al suo fianco, deteneva la corona di
malavoglia, con ferite ancora aperte e che sembravano sanguinare
persino in quel momento (e il solo guardarlo, si rese conto, gli fece
desiderare di sparire tanti, troppi metri nel terreno); più
di
Arashi che, in tutta la sua affascinante presenza, danzava e cantava
con la consapevolezza di essere ancora solo (quando
avrebbe
imparato ad amarsi?) e, certamente, più di Ritsu che, sotto
il sole
di agosto, riusciva a comunque combattere strenuamente, con la
dignità di un cavaliere, ma più contro se stesso
che per il piacere
di chi li amava e sosteneva.
La
più grande
differenza tra la giovane recluta e i suoi compagni, era che il primo
amava immensamente quello che faceva: amava esibirsi, combattere e
farlo con chi aveva al suo fianco; gli altri sembravano chiusi in
comparti stagni, incapaci di raggiungersi davvero se il rosso non li
sfiorava prima. Era così evidente che Leo avvertì
dolore
all'altezza del petto – senso di colpa, forse? - mentre gli
occhi
affilati non riuscivano ad allontanarsi da quella figura neanche per
un attimo.
Così
simile a
quello che, una volta, era stato e che non avrebbe più
potuto
essere.
E per
quanto il
pensiero che quello non fosse che uno stolto ragazzino che nulla
conosceva di ciò che lo aspettava, il suo animo –
ipocrita,
bugiardo, invidioso – non anelava ad altro che a tornare in
quello
stato di grazia; su un palco, circondato dalla sua musica e da
chiunque potesse farlo sentire a casa. Il suo cuore poi, nonostante
tutto ancora sognatore e pieno di illusioni, sperava quasi che quel
ragazzo potesse costruirla, quella casa a cui fare ritorno. Che,
mattone dopo mattone, riuscisse a rendere di nuovo i Knights la
reggia che meritavano di essere, un castello accogliente dove
avrebbero potuto regnare in armonia, all'unisono.
Le
mani,
rigorosamente infilate nelle tasche dei pantaloni color sabbia,
adesso cominciavano a formicolare, scalpitanti: una sensazione che
Leo conosceva sin troppo bene – il bisogno di mettere in
musica le
idee che vorticavano apparentemente in modo caotico nella sua mente.
E più guardava quel ragazzo, più sentiva il
bisogno non solo di
scrivere, ma anche di metterlo alla prova, di farlo precipitare per
un momento da quella gloria che riusciva a strappare dalla sua musica
e fargli provare il sapore del fango che era destinato ai re
ripudiati, esiliati, fuggiti.
In
qualche modo,
sentiva il dovere di misurarsi contro un moccioso che quasi
inciampava nei suoi stessi piedi.
“Se
proprio vuoi
quella corona, dovrai strapparla dalle mie mani, novellino”.
*
Nei
suoi occhi,
quell'immagine era ancora impressa. Forse, egoisticamente, uno dei
motivi per cui aveva insistito così a lungo nel non
riconoscere
il vero nome di Tsukasa Suou era perché non aveva alcuna
intenzione
di distaccarsi dalle sensazioni che aveva provato quella volta.
Non che
non le
rivivesse giorno per giorno; persino lì, sdraiato
scompostamente sul
parquet della sala prove, poggiato sui gomiti mentre giocherellava
con il pennarello indelebile (lo stesso che Izumi gli aveva intimato
troppe volte di non usare, perché lasciava segni ovunque),
gli
bastava poggiare gli occhi sul ragazzo, preso ad ascoltare i consigli
di Arashi riguardo alcuni passi mentre si asciugava con la maglietta
un po' del sudore che colava lungo il volto paffuto, per provare di
nuovo quella voglia di alzarsi e mettersi alla prova.
Ma
questo non lo
avrebbe mai saputo.
Così
come non
avrebbe mai saputo con quale desiderio seguiva i suoi movimenti,
mentre tendeva la mano verso un immaginario pubblico, sostituito da
uno specchio, giudice impietoso; certo, quelle scomode sensazioni
avevano cominciato a risuonare nel suo corpo solo dopo che aveva
poggiato l'ascia di guerra e aveva di nuovo potuto tenere la sua
corona tra le mani, ma ormai erano così intrecciate a
ciò che sin
dal principio aveva provato per lui che ogni pensiero trascinava
l'altro con sé, in una lunga catena che si costringeva a
nascondere
come il più scabroso dei tesori.
Ad ogni
modo,
l'espressione di Tsukasa, che riusciva a cogliere solo grazie allo
specchio, la diceva lunga su come considerava la sua prestazione fino
a quel momento.
E Leo
adorava
quell'espressione.
«Non
è male,
così» cercò di rassicurarlo Arashi -
“non è male” che, nel
gergo della loro unit, significava precisamente “non
abbastanza”.
Il broncio di Tsukasa infatti, se possibile, si infittì.
«Un'altra
volta».
Avido,
avido
principe – forse anche lo sguardo di Leo si era fatto troppo
avido,
perché un attimo dopo Tsukasa cercò i suoi occhi
nel riflesso nello
specchio e li trovò dove sperava di trovarli ma, al tempo
stesso,
dove non pensava di farlo.
Troppo
tardi per
distogliere lo sguardo.
«...
Qualcosa da
dire, leader?» chiese il rosso, con un
pizzico di irritato
imbarazzo.
«Nah»
mormorò
Leo inizialmente, prima di sollevarsi a sedere e, ignorando
lo
spartito di fronte a sé, incrociare le braccia con
fare
pensieroso. «Credo che questa coreografia non faccia per
te».
«...
Non esistono
coreografie fatte su misura in un gruppo di cinque persone»
fu il
commento affilato di Tsukasa, al punto che Arashi si lasciò
sfuggire
una mezza risata. Non era la prima volta che la loro regina assumeva
il ruolo di mediatore, tra loro.
«Credo
che il
nostro re intendesse che non tira fuori le tue potenzialità,
Tsukasa».
Leo, a
questo
punto, era ormai in piedi. Spiegarsi a gesti era molto più
semplice
che spiegarsi a parole e aveva, inoltre, meno implicazioni:
inspirò
dunque a fondo e, replicando i passi che i due avevano provato fino a
quel momento, rese i movimenti più secchi, duri, quasi
bruschi:
un'ultima piroetta sul posto ed ecco il braccio teso verso lo
specchio assumeva il gusto di un gesto non suadente, ma di potere
–
come se quella mano potesse comandare un intero esercito o potesse
far unire la più variegata delle folle.
«Ognuno
può farlo
a modo suo. Naru ha più grazia, Sena più presenza
scenica, Rittsu
ha più fascino...»
«E
io?» La
domanda di Tsukasa arrivò ben prima che Leo si rendesse
conto di
star camminando su un campo minato, con quell'elenco. Quasi non si
morse la lingua.
Doveva
rispondere a
quella domanda. Doveva farlo in quanto suo re, per quanto di scarsa
autorità. Ma come poteva dirgli che da solo aveva il potere
di
incantare chi di musica respirava sin da quando era nato? Come poteva
spiegargli, senza esporsi, che quando lui era sul palco riusciva a
mettere quasi a tacere ogni suono – che fosse la musica, che
fossero dubbi, brutti pensieri - e calamitare l'attenzione su di
sé?
Come poteva far sì non intuisse che, da quel giorno di
agosto, aveva
incatenato la sua attenzione al punto di spingerlo a tornare a
scuola, a tentare di distruggere ciò che amava per paura di
trovarsi
stretto ancora una volta in quella morsa meravigliosa?
«Il
tuo punto
forte, mh?» fece finta di pensarci su, più per
guadagnare tempo e
fermare quel fiume di parole che adesso fremeva, ancora, per mettere
in musica come altre decine di melodie che aveva scritto pensando a
lui che per un vero bisogno di riorganizzare le idee.
«Direi... la
fierezza».
«La
fierezza?»
«Hai
un modo di
gestire il palco che è solo tuo e questo lo si avverte sia
stando al
tuo fianco sotto i riflettori, che come parte del pubblico»,
“troppo, Tsukinaga, frena”,
«... è un'arma a doppio
taglio ovviamente, ma non devi intestardirti a seguire lo stile degli
altri. Quei passi li devi rendere tuoi, non copiare il modo in cui
Naru li rende».
Ne
seguì qualche
attimo di silenzio. Leo evitava solitamente di dare troppi consigli
ai suoi cavalieri (anche perché riuscivano, di solito, a
trovare da
soli il modo migliore di uscire dalle proprie crisi), ma con Tsukasa
in particolare era sempre estremamente cauto perché,
puntualmente,
riceveva degli sguardi più che eloquenti da chi li
circondava (ad
esempio, quello di Arashi in quel momento: con l'indice posto sotto
il mento, un sorriso fin troppo consapevole e un'espressione di chi,
lo si vedeva, tratteneva a stento un commento scomodo). La figura del
re eccentrico che non partecipava attivamente al gruppo gli fruttava
quindi persino più vantaggi di un suo eventuale
coinvolgimento e,
quelle poche volte in cui lasciava il suo trono fatto di carta, penna
e note, ecco che puntualmente se ne pentiva.
L'espressione
di
Tsukasa, almeno, suggeriva che la sua sorpresa era più
legata
all'aver ricevuto un consiglio da lui che al resto, piuttosto.
Nessuno sguardo perplesso, quanto piuttosto concentrato ad elaborare
ciò che il suo re aveva proclamato.
«Non
sembrerò
troppo rigido?» chiese, dopo averci riflettuto su.
Non
avrebbe dovuto
farsi coinvolgere ulteriormente, ma...
«Cos'è,
hai paura
che io possa aver ragione?» lo provocò con un
mezzo sorriso di
sfida.
Ed
eccoli, quegli
occhi di fiamme. Le screziature violacee si tinsero di un fuoco che
ogni volta faceva vibrare il suo animo più di qualunque
melodia; e
allora il cuore seguiva quelle vibrazioni, accelerava il suo ritmo in
un crescendo indesiderato, che gli intimava di unirsi a quel
componimento.
Alla
persona che la
lasciava scaturire.
«Narukami-senpai,
fai partire la musica» si limitò a mormorare il
più giovane,
preparandosi di fronte allo specchio. Sia Leo che Arashi si
allontanarono di qualche passo per lasciargli lo spazio di muoversi
come meglio preferiva: ed ecco che Tsukasa assumeva la posizione,
inspirava a fondo e a ritmo con la musica, dava sfogo alla sua
personalità.
I passi
erano, come
sempre, a tratti incerti – non era un idol perfetto, Tsukasa,
probabilmente non lo sarebbe mai stato ma in ogni movimento ora si
avvertiva lo sferragliare delle spade, in ogni gesto si coglieva un
frammento di quel futuro re che non sapeva ancora di essere. C'era
forza nei suoi movimenti ma anche misura, un garbo che solo i nobili
potevano impersonare con tanta naturalezza.
E
quella mano tesa
verso il pubblico immaginario, che chiudeva l'esibizione, assunse la
forma di un patto: una promessa ai suoi sudditi, che richiedeva
rispetto e fedeltà in cambio di compassione e
capacità di comando.
Leo si
accorse a
malapena che Arashi aveva appena spento il grande stereo con un
compiaciuto battito di mani, impegnato com'era a guardare, come un
indovino, tra i veli del tempo per scorgere il vero aspetto del suo
erede.
«Sei
stato
magnifico!» esclamò entusiasta il biondo, prima di
stringere in un
abbraccio pieno di orgoglio Tsukasa che, come sempre, immediatamente
lasciò cadere scudo e spada per tornare il ragazzo poco
più che
bambino quale era.
«Senpai,
non—I'm
not a kid!» esclamò infatti, il volto
pitturato di un imbarazzo
crescente. Per Leo, fu un bene che fosse così impegnato dal
tentativo di liberarsi della presa di Arashi, perché almeno
non ebbe
modo di accorgersi del suo sguardo.
Perché
ai suoi
occhi Tsukasa brillava di una doppia luce: quella del ragazzo
schietto, leale, pronto a combattere per i suoi ideali a costo di
sacrificarsi come un fantino qualunque e al tempo stesso quella del
giovane re che aspettava ancora di estrarre la propria spada magica
dalla roccia.
Non
sapeva quale
delle due luci lo attraesse di più. Sin da quando aveva
poggiato gli
occhi sulla sua figura, da lontano, ne era sempre stato ispirato; poi
la presenza di Tsukasa era diventata quasi invadente nella sua vita
(e non solo nella sua musica), al punto che temeva già il
momento
del distacco – ed ecco che il ricordo del suo esilio
quell'estate
andava fondendosi a tutte le sfaccettature che aveva conosciuto,
preso in giro ed apprezzato negli ultimi mesi. Un mosaico fatto di
pietre preziose e cristalli.
Leo
inspirò a
fondo, cercando di ricomporsi, poi scoppiò in una delle sue
fragorose risate: doveva mettere a tacere ogni scomoda voce nella sua
testa, almeno ancora per un po'.
«Visto?
Avevo
ragione! Sei ancora un novellino, dopotutto!»
«Leader!»
replicò indignato il giovane, finalmente libero dalla presa
di
Arashi (ah, quell'infantile desiderio di essere trattato come un
adulto...); con passo irritato, si avvicinò a lui quanto
bastava per
guardarlo con un certo indispettito imbarazzo e poi... si sciolse in
un sospiro che si tramutò in fretta in un sorriso.
«Grazie del tuo
aiuto. Vederti in azione mi ricorda sempre quanto posso imparare da
te».
E
stavolta, a
cadere, fu la maschera di Leo. Si sgretolò in mille pezzi
–
avrebbe preferito che, testardamente, non ammettesse di aver tratto
giovamento dal suo consiglio, che ignorasse quella minuscola vittoria
del suo re. Come faceva, adesso, a raccogliere quelle briciole di
apparenza per tornare ad essere l'eccentrico ed inaffidabile genio
compositore?
“Dannato
ragazzino...”
«Non imparare troppo, Kasa, avere già un Leo
Tsukinaga è più che abbastanza. Dico bene,
Re?»
Il
salvataggio di
Izumi fu provvidenziale, seppur con un tempismo leggermente tardivo;
era comparso sulla porta della sala prove proprio in quel momento e,
onestamente, Leo preferiva non sapere per quanto fosse rimasto ad
assistere a quel teatrino, in cui lui era rimasto a fissare Tsukasa
Suou senza sapere bene cosa dire o fare, ogni suono annullato dalle
parole che il giovane aveva pronunciato e dal ritmo assordante che
avevano scatenato nel suo cuore.
La cosa più assurda? Non si era
soffermato a pensare a quale accordo avrebbe potuto ricavare dal suo
battito cardiaco; non aveva pensato a mettere in musica il suono del
suo cuore che si gonfiava un po' di orgoglio e un po' di un altro
sentimento – qualcosa a cui non voleva dare un nome,
perché
avrebbe avuto tante, troppe implicazioni per cui non era pronto.
Quei
secondi
guadagnati da Izumi gli permisero di raccogliere in fretta e furia la
sua maschera (quel che ne rimaneva), indossarla in modo un po'
frettoloso e, dopo una seconda risata fragorosa ed insistente,
incrociò le braccia con aria fin troppo piena di
sé.
«Se
ci fosse un
altro me, avremmo già composto tutta la musica esistente,
Sena!
Sarebbe ingiusto nei confronti di tutti gli altri, ah!»
concluse,
col tono più fastidioso ed alto che potesse concepire.
Con
l'arrivo di
Izumi e poco dopo quello di Ritsu, la sala prove si fece troppo
animata per permettere a chiunque di pensare a quella farsa svelata e
Leo ebbe finalmente l'occasione per gettarsi di nuovo sul pavimento a
comporre, al riparo nella sua trincea di spartiti. Sempre
più spesso
cadeva vittima delle parole di quel ragazzino impudente –
sapeva,
oltretutto, di essere ormai più debole ai suoi gesti
familiari che
non ai colpi del suo talento grezzo.
Ma quei
sentimenti
che ribollivano dentro di lui, al punto che ogni tanto rischiavano di
esplodere, non avrebbero avuto meglio sulla sua riconoscenza; dopo il
Judgement, Leo si era ripromesso che nel poco tempo che aveva a
disposizione prima del diploma non solo avrebbe fatto brillare i
Knights, ma avrebbe affilato la spada di Tsukasa fino all'ultimo
secondo per lasciare tra le sue mani il destino del loro castello,
che faticosamente andavano ricostruendo tutti insieme.
La
corona che
pendeva dalla sua testa, instabile, minacciando di cadere ogni
tanto, richiedeva un erede; ma lasciargliela sin da subito sarebbe
stato da irresponsabili ed egoisti, quindi lo avrebbe lasciato
crescere tra le note che scriveva, mettendolo alla prova
continuamente, cercando di ottenere sempre il massimo da lui.
Sarebbe
stato,
dietro le mentite spoglie del re, il suo azzardato ed improvvisato
Merlino. Un colpo di bacchetta (di orchestra) in qua e là
per
prepararlo a regnare sulla sua futura Inghilterra.
Chissà
ancora
quanta musica avrebbe scritto per i suoi cavalieri, una volta uscito
da quelle mura. Chissà, poi, quante altre volte avrebbe
chiuso gli
occhi e pensato a quel principiante che danzava più con il
suo ego e
la sua testardaggine che con le sue capacità.
Chissà
con quante
note ancora lo avrebbe inseguito tra i suoi spartiti, più
che nella
vita reale.
Sempre
a qualche
nota di distanza da lui.
|