5
cm
Hajime si lascia
cadere all’indietro, sussultando quando la nuca colpisce il
bordo del
materasso. Con un sospiro si massaggia il collo dolorante, per poi
puntellarsi
sui talloni e issarsi fino ad appoggiare le spalle contro il letto
– come avrebbe
dovuto essere anche prima, se solo non avesse calcolato male la
distanza. Se
solo fosse stato cinque centimetri più alto.
Si toglie la matita
consumata da dietro l’orecchio, lanciandola sul tavolino in
mezzo ai libri. Fa
troppo caldo per studiare, troppo caldo per sedersi dove si
è sempre seduto
Oikawa e mimare tutti i suoi movimenti costruiti apposta per farsi
guardare – e
poi fallire, rischiando di spezzarsi l’osso del collo,
perché dopotutto lui non
è Oikawa. E fa troppo caldo per compiere quei gesti
consapevolmente e poi
arrossire d’imbarazzo e di frustrazione, e finire per avere ancora
più caldo.
“Sei un palo
in
culo anche quando non ci sei,” borbotta dopo aver lasciato
defluire tutto il
sangue in eccesso dalle orecchie.
Trovare
l’energia
per trascinarsi di nuovo sui libri vale più di
un’ora di studio, soprattutto
perché non c’è modo di imparare ossa e
muscoli e articolazioni senza ripensare
a tutto ciò che non riesce a lasciarsi indietro. Scegliere
di frequentare l’università
a Sendai è stata una decisione faticosa – diavolo,
Oikawa gli ha tenuto il muso
per tre settimane – ma scoprire che è stata anche
inutile gli ha tolto il sonno
per diverso tempo. E Hajime mentirebbe se dicesse che non gli capita
più di
svegliarsi di soprassalto nel cuore della notte, solo per catapultarsi
alla
finestra e controllare che la luce della sua camera
sia davvero spenta,
o che non si intravedano i riflessi pulsanti di uno schermo su cui sta
andando
ossessivamente in replay una partita di pallavolo.
Perché, a
quanto
pare, non ha dimenticato niente.
Non ha chiuso
nessun capitolo.
Non si è
lasciato
alle spalle quella sensazione da cui ha cercato così tanto
di scappare. E che,
ora che lo sta di nuovo tormentando, accoglie con un sentimento che si
rifiuta
di riconoscere come sollievo.
Hajime raddrizza la
schiena e, dopo aver raccolto la matita, la punta con determinazione
proprio
sul disegno del legamento crociato anteriore. Deve studiare, si dice.
E, anche
se dovrà mettersi in testa tutta l’anatomia del
ginocchio senza riuscire a
scacciare Oikawa dai suoi pensieri, lo farà senza lamentarsi
– si accontenterà
di sfruttarlo per memorizzare tutto più in fretta.
“Il
legamento
collaterale mediale—”
Hajime si
interrompe con stizza, inspirando bruscamente dal naso mentre punta con
ostinazione lo sguardo sul disegno. Il cellulare che ha appoggiato
sulla coscia
ha iniziato a vibrare; una volta, due volte, tre volte. La speranza che
si
tratti di un messaggio si scioglie, come la sua pazienza nel caldo
estivo, e
Hajime risponde senza nemmeno darsi pena di guardare lo schermo.
“Pronto?”
sbotta
con aria di sfida, come a suggerire a chiunque lo stia disturbando che
farebbe
meglio ad avere un buon motivo per interrompere quel barlume di
concentrazione
ottenuto con tanta fatica.
“Iwa-chan,
sei sempre così scorbutico!”
Ah. Oikawa.
Hajime forza un
sospiro dal naso, mentre i suoi occhi si chiudono con rassegnazione e
la sua
mano lascia cadere la matita, che rimbalza sulla pagina con un baffo
grigio
prima di rotolare nella piega del libro. Non c’è
davvero pace, pensa, mentre
stringe nel pugno la stoffa della maglietta – ma no, lo
stomaco non smette di
vorticare.
“Mi viene
naturale
quando parlo con te.”
Oikawa ride,
allegro e troppo rumoroso, e Hajime si ritrova a scuotere il capo, la
pazienza
d’un tratto più sottile – è
così facile capire quando finge, non importa quante
centinaia di chilometri ci siano tra di loro.
“Che
cattivo,”
risponde Oikawa, e la sua cantilena lamentosa è la stessa di
sempre, anche se
non aggiunge altro.
Per un attimo
nessuno dei due sembra avere qualcosa da dire, e Hajime si scopre
sollevato: il
silenzio tra di loro è ancora rilassato come sempre, anche
se insolito e forse
un po’ più prolungato. Chissà cosa sta
facendo, si domanda.
“Be’?”
lo incalza
dopo qualche istante, quando la situazione inizia ad assumere una
sfumatura imbarazzante.
“Hai chiamato solo per farmi perdere tempo?”
Hajime allunga la
mano verso la matita e si mette a giocarci, pungolando di nuovo il
disegno del
ginocchio – colorando la rotula, accoltellando il crociato
posteriore con la mina
smussata. Forse non è vero niente, l’atmosfera
tranquilla di un tempo è stata
compromessa. Ed è colpa sua, Hajime lo sa. Ma doveva provare,
doveva...
“Ho
chiamato,”
risponde infine Oikawa, calcando le parole per mostrare il suo
disappunto, “per
darti un’ottima notizia. Indovina chi sta tornando a
casa?”
La stanza sembra
diventare liquida, le pagine fitte di lettere sul libro davanti a
sé si fondono,
e Hajime non riesce a trovare niente da dire. L’unica cosa
che sa è che non è
ancora pronto, che avrebbe preferito saperlo prima; e poi si manda al
diavolo, perché
è solo Oikawa, quindi quale dovrebbe essere il
problema?
Eppure, un problema
c’è. E Hajime non ha idea di come sia finita la
telefonata, di cosa si dicano
ancora, di quali convenevoli e soprattutto di quali insulti riesca a
mettere
insieme per risultare credibile. Sa solo che, prima di rendersene
conto, si
ritrova a fissare lo schermo ancora illuminato del telefono, dove la
faccia da
schiaffi del suo migliore amico indica che la chiamata è
terminata.
E un attimo dopo
è
già in piedi, le ginocchia che tremano, non solo di rabbia
ma principalmente di
rabbia. Perché Oikawa è un pezzo di
merda, probabilmente il peggiore di
tutti.
*
Quando Oikawa apre
la porta, dopo un tempo quasi irragionevole, il suo sorriso per un
attimo
sembra colpevole, prima di rinsaldarsi nella sua versione
più seccante. Si
prende una buona manciata di secondi per osservare Hajime
dall’alto del suo
metro e ottantacinque – più il gradino
dell’ingresso. Osserva il suo fiatone,
la sua espressione furibonda, una mano stretta a pugno e
l’altra attorno al
telefono, e rimane in silenzio quel tanto che basta perché
Hajime capisca che
vorrebbe che fosse lui a cominciare.
Non è
così che
dovrebbe andare, Hajime lo sa, ma non si tira indietro.
“Tu...” sputa con
rabbia, sventolandogli lo schermo spento così vicino al naso
che Oikawa deve
arretrare di un passo. Il suo sorriso, però, non viene
scalfito. Rimane lì,
ostinato, falso, uno di quelli che Hajime spazzerebbe via in ogni modo
– uno di
quelli che lo tengono sveglio la notte, da quando ha capito che non
è con i
pugni che vorrebbe strapparglielo dalla faccia.
Oikawa sospira,
fingendo impazienza. “Forza, Iwa-chan—”
Ma Hajime non vuole
saperne delle sue moine, non adesso: avanza con decisione, troncando
sul
nascere quella che sarebbe di sicuro stata una vagonata di idiozie. Si
sfila le
scarpe senza mai distogliere lo sguardo, inchiodando Oikawa sul posto.
Non
aspetta che gli venga detto di entrare, non chiede
com’è andato il viaggio o se
c’è qualcuno in casa, non dà nessun
bentornato. Gli afferra con forza il collo
della maglia e poi rimane lì, così vicino da
farsi quasi male, ad aspettare
invano che la rabbia inizi a scemare.
“Mi chiami
con il
telefono di casa e hai il coraggio di dirmi che stai
tornando?”
La voce di Hajime
è
bassa, gli trema nel petto prima di raggiungere le sue labbra e
infrangersi
contro il volto di Oikawa – e poi rimbalzare ancora sulla sua
pelle, in un doloroso
promemoria della loro vicinanza. Gli fa girare la testa.
Così Hajime fa un
passo indietro e china il capo, nel tentativo di rimettere insieme i
suoi
pensieri.
Si concentra sui
dettagli – le fughe delle piastrelle, il motivo stupido e
infantile sui calzini
di Oikawa, il suo tutore bianco mollemente abbandonato alla caviglia,
le righe
rosse lasciate dal tutore sotto e sopra il ginocchio.
Il ginocchio.
Hajime è
quasi sicuro
di farcela; sente di aver già allentato un po’ la
presa sulla maglia di Oikawa,
sente di poter quasi sostenere una conversazione civile. Sente di
essere quasi
calmo. Ma poi gli basta collegare i tasselli, e va tutto al diavolo.
Perché
Oikawa stava
cercando di tenergli nascosto l’ennesimo infortunio
– come probabilmente lo ha
nascosto a tutti i suoi compagni di squadra di Tokyo. Se lo immagina
inventarsi
un impegno improrogabile, spingere in fuori il labbro inferiore mentre
china il
capo davanti al capitano e all’allenatore; se lo immagina
deglutire di nascosto
un antinfiammatorio con troppa acqua, bagnarsi il mento e la maglia e
poi
fuggire in stazione con una valigia piena di cose appallottolate
così in fretta
che quasi non si chiude. Se lo immagina lasciar andare il capo
all’indietro,
farlo rimbalzare appena sul sedile del treno, e sospirare in attesa che
l’effetto delle medicine inizi a dargli tregua.
E poi immagina se
stesso appoggiato a una delle colonne della stazione, le mani in tasca,
il
caldo soffocante, le labbra che fremono mentre, cercando di non dare
nell’occhio, ripassa a bassa voce l’articolazione
della caviglia senza poter
controllare sui libri di non aver fatto errori. E poi Oikawa scende dal
treno –
gli antinfiammatori non sono infallibili – e Hajime immagina
il suo panico, nel
vederlo zoppicante, e corre a prendergli la valigia e a dargli uno
schiaffo
sulla nuca perché hai ricominciato ad
allenarti fino a notte fonda,
stronzo.
Ma niente di tutto
questo è successo, perché Oikawa gli ha mentito.
Gli ha mentito, e basta.
Hajime continua a ripeterselo, scuotendo il capo, ma quel bruciore,
come di uno
schiaffo, non va via. Quella sensazione che sente pungere dietro gli
occhi e la
gola, dietro lo sterno… non va via.
Quando alza lo
sguardo, gli occhi di Oikawa sono lì pronti ad aspettarlo,
rassegnati, e il suo
sorriso – quello stupido, infantile, odioso sorriso che
Hajime detesta perché
detesta che Oikawa abbia il coraggio di mentirgli ancora quando
è lampante che
Hajime lo conosca meglio di se stesso... quel sorriso non
c’è più.
“Da quando
sei
diventato un bugiardo?”
Oikawa alza il capo
di scatto, chiudendo le dita su entrambi i polsi di Hajime nel
tentativo
inutile di fargli mollare la presa. “Hai un bel coraggio a
venire qui a casa
mia a spargere insulti, Iwa-chan!” gli
dice con fare concitato,
scuotendo le mani e facendo ciondolare il capo di entrambi fino a
quando quasi
non si prendono a testate. “Avrei dovuto lasciarti qui fuori
a boccheggiare
come l’animale selvatico che sei!”
“Ah,
sì?” ribatte,
e la risposta quasi gli sfugge dalle labbra. “Meglio un
animale selvatico che
un bugiardo!” Poi divarica le gambe, cercando
stabilità, e con uno scossone al
collo della sua maglia richiama Oikawa all’ordine,
imponendogli di continuare a
parlare, di spiegare.
Oikawa gonfia le
guance, chiaramente contrariato sia dalla risposta che da quella tacita
imposizione, e Hajime si stupisce che non si sia messo a pestare i
piedi. O
forse, dopotutto, pestare i piedi gli fa male.
“Tua madre
era
proprio sotto la mia finestra mentre raccontava a qualcuno che stai
studiando
così tanto con quella tua testa piena di spuntoni che non
hai nemmeno più tempo
per fare jogging, e io semplicemente non volevo...”
“Oikawa.”
Oikawa tace e serra
le labbra in una linea sottile, consapevole di essersi tradito con il
suo zelo
di dettagli; gli occhi di Hajime si impigliano sul suo pomo
d’Adamo mentre lo
guarda deglutire rumorosamente tutte le scuse che con ogni
probabilità si è
preparato proprio su quel viaggio in treno. Hajime lascia la presa
quando le
dita di Oikawa iniziano a formicolare e a scottare a contatto con la
pelle, e
arretra quel tanto che basta perché i suoi talloni sentano
il vuoto del gradino
che ha oltrepassato poco prima, senza però lasciarsi cadere
di sotto.
“Quando sei
tornato?” vuole sapere. Vorrebbe sapere anche tante altre
cose, ma non è poi così
meno vigliacco, e non avrà mai il coraggio di chiederle.
“Ieri.”
Hajime sospira,
spingendo da parte Oikawa con una spallata leggera, che potrebbe anche
solo
sembrare un invito a seguirlo; forse lo è. Poi inizia a
incamminarsi su per le
scale, il silenzio teso – così diverso da quello
della telefonata di pochi
minuti prima – e l’aria elettrica. Quando butta
un’occhiata dietro di sé,
un’altra fitta gli trapassa la gola: Oikawa sta guardando le
scale come se
dovessero mangiarlo, e i suoi occhi d’un tratto lucidi e
incerti sembrano
essere in grado, da soli, di trasformarlo nel ragazzino di dodici anni
che è
stato.
Così Hajime
sospira
di nuovo e si volta, senza però scendere di un gradino.
Adesso è lui a guardare
Oikawa dall’alto, e una parte della sua mente ripensa con una
punta di
nostalgia a quando, nemmeno un anno prima, pregava ogni sera per quei
sette
millimetri che non sono mai arrivati. Voleva solo ridurre
l’abisso, non gli
sembrava di chiedere la luna – e invece
quell’abisso continua ad aumentare.
“Perché
non me
l’hai detto?” domanda ancora, pur sapendo
già la risposta. La sua voce non ha
nessuna intenzione di smettere di tremare, ma non è
più per la rabbia – la
rabbia se n’è andata da un pezzo, rimpiazzata da
un groviglio indecifrabile che
gli chiude la gola.
Oikawa non risponde
neanche adesso. Gira il capo e mette il broncio, come tutte le volte in
cui si
rifiuta di ammettere qualcosa soltanto perché non vuole
accettare che Hajime
abbia ragione; come tutte le volte in cui non gli è
possibile fingere che quel
tutore sia solo una sicurezza mentale, o un modo per far abbassare la
guardia
all’avversario.
Hajime si domanda
quanti giorni ci metterà, stavolta, quel ginocchio a
sgonfiarsi. Si chiede
anche se Oikawa sarebbe stato disposto a trascinare la sua famiglia
nelle sue
bugie, pur di tenere lui all’oscuro di tutto, e purtroppo non
ha dubbi sulla
risposta. Si chiede anche se tornerà di nuovo a Tokyo, una
volta finito di
leccarsi le ferite; poi stringe un insulto tra i denti –
stavolta diretto a se
stesso.
Infine, sospira per
la terza volta e pian piano scende i gradini, fino ad arrivare di
fronte a
Oikawa.
Lo osserva da
vicino, le ciglia pesanti di lacrime trattenute, un accenno violaceo
sotto gli
occhi, la simmetria perfetta di quel viso che troppo spesso vorrebbe
prendere a
schiaffi. E il broncio, la sua smorfia da primadonna che l’ha
accompagnato per
vent’anni e che, prima di rendersene conto, ha causato la
rovina di tutto –
quella che gli ha fatto capire che avrebbe voluto sì farla
sparire, ma non più
con una testata.
Hajime si
inginocchia sotto lo sguardo stranito di Oikawa, se lo sente bruciare
sulla
fronte e poi sulle mani, mentre si siede su un tallone e gli sistema il
tutore
fino a farlo combaciare alla perfezione coi segni rossi che stanno
ormai sbiadendo.
Poi alza lo sguardo, incrociando i suoi occhi, e con tutta la
determinazione
che possiede ignora la posizione in cui si trova, e il calore che sente
inondargli le guance.
“Come diavolo ti
sei permesso di chiamarmi con il telefono di casa e dirmi che non eri
ancora
tornato? Mi credi davvero così stupido?”
Lo sguardo di
Oikawa rimane basso, intento, e quando Hajime realizza che le sue dita
stanno
indugiando sulla sua coscia, poco sotto all’orlo dei
pantaloncini, ormai quella
carezza non può più essere negata. Toccarsi non
è mai stato un problema –
spallate a bordo campo, wrestling sui letti e i divani, gli abbracci
dopo le
vittorie e dopo le sconfitte. Ma la distanza accumulata in questi mesi
porta i
nervi a fior di pelle, e Hajime capisce di avere le dita troppo callose
a
contrasto con la peluria chiara di Oikawa quando vede della pelle
d’oca
comparire attorno ai suoi polpastrelli. Così si alza
rapidamente, stringendo
gli occhi per evitare un capogiro, e si avvicina all’ingresso.
“Credevo,”
dice
Oikawa con voce piatta, a tratti venata di orgoglio ostinato,
“di avere
nascosto il numero... pensavo di farlo sembrare un telefono del
campus.”
Nonostante tutto,
quando Hajime lo guarda e vede la sua smorfia imbronciata, imbarazzata
per la
banalità di quell’errore, sente le sue labbra
incurvarsi in un sorriso. “Sei
davvero un idiota,” gli dice. “Andiamo.”
Oikawa aggrotta le
sopracciglia, ma infila comunque un paio di scarpe, cercando di
nascondere una
smorfia sofferente. “Dove mi porti, Iwa-chan?
Fa troppo caldo per uscire
in queste condizioni, la mia pelle ha bisogno di—”
“A casa mia,
idiota. I miei controller sono in salotto. A meno che tu non voglia
farti
portare su per le scale come la principessa col palo in culo che
sei.”
Oikawa singhiozza
una risata e Hajime gli dà le spalle in tutta fretta,
afferrando la maniglia
della porta come se ne andasse della sua vita. Non vuole vederlo ancora
più
vulnerabile, non vuole sentirsi responsabile per
quell’espressione – quella che
gli sconquassa il petto; quella di chi, dopo tanto resistere,
finalmente si
lascia andare.
Eppure allunga la
mano all’indietro, a tentoni, e si ferma solo quando trova
ciò che cerca.
Chiude le dita attorno al polso di Oikawa, sentendo il suo battito
appena
accennato nelle vene gonfie per il caldo, e lo strattona leggermente
verso di
sé.
Forse, si dice,
possono lasciarsi andare in due.
*
La luce che filtra
dalle finestre è più calda adesso, e il tramonto
si riflette spietato su ogni
superficie lucida che incontra. La stanza è silenziosa,
tranne per pochi
insulti mugugnati da Oikawa, contro il sole, contro il controller che,
a suo
dire, non fa quello che vuole; contro lo stupido
gioco che
però lo sta assorbendo da quando sono arrivati. Contro
Hajime stesso, che
dovrebbe assumersi la responsabilità delle sue azioni e
smetterla di
manomettere i gamepad solo per impedirgli di battere tutti i suoi
record.
Eppure è
rilassato
– niente a che vedere con l’espressione ferita e
corrucciata di quando Hajime
si è precipitato in fretta e furia alla sua porta. Le sue
spalle sono
appoggiate al divano su cui Hajime è steso a pancia in
giù, il capo abbandonato
nella curva della sua schiena. Come al solito, come sempre.
Il suo sguardo di
sfida è rivolto allo schermo della tv, gli occhi socchiusi
dietro le lenti
degli occhiali, e di tanto in tanto punta il gamepad con un gesto che
vorrebbe
essere stizzito, ma riesce solo a risultare svogliato. Hajime si
ritrova spesso
a guardarlo, a volte sogghigna, a volte scuote il capo, a volte
entrambe le
cose. Gli occhi di Oikawa sono ancora un po’ rossi,
nonostante siano passate
più di due ore, e il tutore è nuovamente
abbandonato vicino alla caviglia. “Fa
caldo, Hajime,” si è giustificato, dopo essere
stato rimproverato per la quarta
volta. E non importa che, invece, il suo stupido testone bollente stia
mandando
a fuoco la schiena di Hajime – che però non si
azzarda a replicare perché, alla
fine, a lui va bene anche così.
Il silenzio,
adesso, è di nuovo privo di tensione.
C’è pace, nonostante Hajime senta vibrare
le ossa e i muscoli proprio lì dove è appoggiato
il capo di Oikawa – ignaro
della sofferenza che gli provoca, perché, dopotutto, di
sofferenza non ce ne
dovrebbe essere.
Il libro che Hajime
sta studiando è sempre lì, appoggiato al
bracciolo del divano, aperto sulla
stessa pagina da tutto il pomeriggio, da quella pagina che cercava di
studiare
anche prima di ricevere la telefonata di Oikawa. Si è
trovato spesso a guardare
la sezione del ginocchio con un sorriso campato per aria, senza in
realtà
leggere una parola, consapevole solo del peso sui suoi fianchi.
“Iwa-chan,
mi annoio!” sbotta Oikawa a un certo punto, la solita
cantilena che non si
inceppa nemmeno mentre segue il ritmo serrato del gioco con movimenti
rapidi
delle dita.
Hajime inarca un
sopracciglio. “Non si direbbe.”
Oikawa mette in
pausa, posando il controller sul tavolino; lo sguardo di Hajime cade su
una
piccola incisione, Tooru, proprio sotto
alla presa jack per le
cuffie. È così abituato a vederla, a sfiorarla
con il polpastrello per sentirne
la ruvidità, che a volte è strano rendersi conto
che non è sempre stata lì.
“Mi hai
fatto
incazzare a morte quando hai inciso il tuo nome su quel
coso,” ricorda,
trattenendo a stento un sussulto quando realizza di averlo detto ad
alta voce.
Oikawa scoppia in
una risata fragorosa, e Hajime si trova costretto a risucchiare
dell’aria tra i
denti per ignorare la capriola del suo stomaco. Dovrebbe davvero
smetterla di
pensare cose stupide – tipo come sia bella la sensazione che
gli danno i suoi
capelli che si intrufolano sotto l’orlo della maglia, o,
peggio, come potrei
semplicemente chiedere il trasferimento in qualche
università di Tokyo.
Così
sospira –
ormai ha perso il conto di quante volte l’abbia
già fatto – e lascia cadere la fronte
sul libro. Oikawa batte la mano sul tappeto, al suo fianco.
“Iwa-chan?”
Hajime alza il capo
di scatto, rischiando di strappare la pagina che per colpa del sudore
gli si è
appiccicata alla pelle, e lo guarda; prima la mano, poi il braccio e,
dopo aver
impiegato tutte le sue forze per non proseguire verso il ginocchio,
riesce
finalmente a incrociare il suo sguardo. È limpido, senza
difese; quello sguardo
che gli dice che Oikawa non lo sta chiamando vicino a sé per
inscenare uno dei
loro soliti teatrini.
“Devi alzare
la
testa, però.”
Le guance di Oikawa
si colorano appena, come se avesse realizzato solo adesso di aver
passato il
pomeriggio appoggiato alla sua schiena – come se avesse
realizzato solo adesso
di averci passato tutta l’adolescenza – e
obbedisce. Così Hajime si issa sulle
braccia e, con l’aiuto delle ginocchia, solleva in qualche
modo il suo corpo
addormentato. Gli fanno male i fianchi, e prima di potersi fermare
porta una
mano a sostenerli, per aiutarsi a non crollare di nuovo a pancia in
giù.
“Scusa.”
La voce di Oikawa
proviene da qualche parte sotto di lui, camuffata dalla mano che ha
portato al
viso. Sembra sinceramente dispiaciuto, e Hajime cerca di non aggrottare
le
sopracciglia perché, davvero, chi è
quell’alieno e cosa ne ha fatto del suo
solito, sgradevole e vanitoso migliore amico?
“Scemo,”
gli dice
quindi, “se mi avessi dato fastidio di avrei detto di
spostarti.”
“Forse mi
avresti
cacciato a calci,” ammette Oikawa, mentre piega verso
l’alto un angolo della
bocca e s'impegna per riprendere le redini della sua maschera di
sfacciataggine.
“Oppure in questi mesi senza di me ti sei
rammollito.”
“Ehi.”
Ad Hajime
basta quell’ammonimento pacato per metterlo in guardia,
mentre si lascia cadere
al suo fianco con uno sbuffo e gli dà una spallata leggera
– come a
dirgli, eccomi, sono qui.
Hajime appoggia le
ginocchia contro il tavolino, spingendo appena il gamepad ancora
abbandonato, e
si sistema con calma senza voltarsi verso Oikawa neanche una volta.
Forse è
troppo vicino, si dice. Forse dovrebbe spostarsi, alzarsi per andare a
prendere
qualcos’altro da bere, usare la scusa di recuperare un
secondo controller
perché magari Oikawa lo ha chiamato lì con lui
perché non vuole più giocare da
solo.
Oppure, invece di
passare il pomeriggio a studiare – invece
di scappare – per
non dover rischiare di affrontare quel vortice di sensazioni a cui non
vuole
dare un nome, avrebbe potuto parlare con lui. Chiedergli di Tokyo,
della
squadra, della città, delle ragazze che, di sicuro, lo
seguono ancora come
un’ombra. Giusto per farsi del male, chiedergli qualsiasi
cosa.
Chiedergli
quando sarebbe tornato indietro.
Il suo treno di
pensieri sconnessi viene interrotto dal fruscio acuto dei pantaloncini
sintetici di Oikawa contro i suoi mentre, con movimenti misurati, come
se
sentisse le articolazioni fatte di vetro, raccoglie le ginocchia al
petto.
“Cos’hai imparato oggi, Iwa-chan?”
Hajime socchiude
gli occhi, voltando il capo di scatto verso di lui. “Che sei
uno stronzo.”
“Hajime!”
Non è raro
che
Oikawa lo chiami per nome, si dice, accade qualche volta –
quando vuole farlo
sentire in colpa, quando vuole convincerlo ed è a corto di
opzioni, quando sono
soli su quel divano e improvvisamente tornano indietro di dieci anni. E
Hajime
non può cascarci, si dice, non può lasciare che
il suo cuore si metta a correre
per una cosa che dovrebbe essere normale.
“Hai
ragione,” gli
risponde quindi, “questo l’ho imparato una vita
fa.”
Allora Oikawa
gonfia le guance, voltando il capo dalla parte opposta e lasciandosi
sfuggire
un gemito frustrato quando un raggio di sole gli sferza in pieno il
viso –
perché, diamine, il tramonto ha
sabotato la sua sceneggiata. Le
spalle di Hajime sono scosse da una risata silenziosa e, per richiamare
la sua
attenzione, si appoggia a lui con una spallata leggera.
“Perché
vuoi sapere
cos’ho imparato?” gli chiede quindi, scettico.
Oikawa torna a
guardarlo, scostandosi un ciuffo dagli occhi con movimenti studiati,
ben
calibrati da anni di allenamento. “Mi hai lasciato da solo
tutto il giorno, mi
sembra il minimo che tu mi renda partecipe di queste cose che, secondo
le tue
dubbie capacità di giudizio, sono più importanti
e interessanti di me.”
Hajime sente
l’espressione del suo viso scivolare giù dalle
guance come acqua, mentre fissa
Oikawa con la maschera più impassibile che riesce a mettere
insieme e si
domanda dove siano finiti i suoi occhi sinceri di un attimo fa, quelli
che
sembravano mendicare un po’ di compagnia. Forse è
meglio così, si dice, forse
dovrebbe imparare a sfruttare tutta quella spocchia per ripristinare la
guardia.
Ma dopotutto, se
fosse così facile – o se volesse davvero farlo,
gli dice una voce nella sua
testa che, no, non sembra affatto
quella di Hanamaki –
l’avrebbe già fatto da un bel pezzo.
“Ho
imparato,” cede
quindi con un sospiro, mentre abbassa gli occhi sul ginocchio di
Oikawa, “delle
cose interessanti, che però sono anche fastidiose
perché mi ricordano te.”
Oikawa si illumina,
mugugnando qualcosa di incomprensibile con fare canzonatorio.
“Ecco perché non
riuscivi a staccare gli occhi da quel libro, Iwa-chan!”
Le guance di Hajime
si colorano appena, e non può fare a meno di domandarsi se
Oikawa abbia anche
solo una vaga idea di quanto sia andato vicino alla verità.
“Ti ammazzo,
Oikawa, non fare il marpione con me!”
“Certo che
no, Iwa-chan,
non mi piace sprecare le mie energie.”
Hajime incassa
quella risposta inaspettata, dal sapore quasi crudele, con un sussulto
che
spera passi inosservato, nonostante sappia che uno dei talenti di
Oikawa è
proprio quello di non perdersi mai nessun dettaglio. Non ha nemmeno
idea di
come rispondere, realizza, così volta il capo per incrociare
gli occhi di
Oikawa sperando, in qualche modo, di ripartire da lì. La sua
espressione è
terribilmente disonesta, ma Hajime non si lascia trascinare
nell’ennesima
schermaglia – questa volta, vuole essere egoista.
Posa
l’indice al
centro del ginocchio di Oikawa, piano abbastanza da avere la certezza
di non
fargli male. “Ho imparato che qui c’è la
rotula,” inizia, disegnando un cerchio
leggero.
Oikawa
rabbrividisce, e porta una mano a stringere l’orlo dei
pantaloncini. Il suo
gomito pungola appena le costole di Hajime, e la consapevolezza di
essere così
vicini lo colpisce ancora con violenza. La sua determinazione vacilla,
e
vorrebbe solo aggrapparsi a quel ginocchio per avere la sicurezza che
non verrà
spazzato via dal vortice che gli sta sabotando il cervello.
“Poi?”
Oikawa lo
incita ad andare avanti.
Hajime inspira
profondamente, cercando di riportare alla memoria l’immagine
sul suo libro.
“Qui,” continua, tracciando con il pollice e il
medio due linee verso l’alto,
attorno al cerchio che ha appena disegnato e poi poco più in
su, “ci sono i
condili femorali.”
Oikawa annuisce
distrattamente, le nocche pallide per la forza con cui stringe il pugno
–
Hajime si accorge solo adesso che si tratta dei vecchi pantaloncini
bianchi con
cui si allenavano a scuola, e il disastro nella sua testa non fa che
peggiorare.
In qualche modo,
però, riesce a far scivolare di nuovo l’indice
verso il basso.
“Lì
c’è il
crociato?” chiede Oikawa, la voce improvvisamente alta e
acuta, la domanda troppo
entusiasta, le nocche troppo bianche, la schiena troppo rigida.
L’aria
troppo
densa.
“Il crociato
anteriore,” lo corregge Hajime, ma la voce gli viene meno. I
capelli di Oikawa
gli solleticano la fronte, appiccicandosi appena. Come si sono trovati
così
vicini?
Oikawa sospira in
modo esagerato, forse nel tentativo di smorzare la tensione.
“Quanti crociati
mi posso infortunare prima di perdere la borsa di studio?”
chiede quindi,
riesumando il suo tono lamentoso preferito.
Ecco, ecco. Hajime
sospira di sollievo. Con quel tono sa cosa fare, si dice; sa come
comportarsi,
cosa ribattere, quanto alzare la guardia, quanto oltre spingersi con
gli
insulti – come nascondere i suoi sentimenti.
“Oh,
Oikawa,”
ribatte con fare teatrale, posando la mano sul suo ginocchio in un
gesto quasi
compassionevole. “Ci sono così tante cose che ti
puoi infortunare, qui dentro.”
Il gemito di Oikawa
è acuto, sofferente, e poi inizia a scuotere il capo. Hajime
ridacchia ma
subito si blocca, la gola tesa, la mano che formicola, quando realizza
che
quell’atmosfera non ha niente a che vedere con le situazioni
a cui è abituato.
C’è qualcosa di diverso, forse è lui a
esserlo, e non ha idea di come fare per
tornare quello di prima senza che Oikawa si renda conto che qualcosa
è
cambiato.
“Allora?”
lo
richiama all’ordine, spezzando il silenzio.
“Cos’altro mi posso rompere?”
Hajime si morde la
lingua, fermando l’impulso di ringraziare Oikawa per
l’impegno così palese che
sta mettendo in quella situazione. Se non fosse per lui, si dice,
Hajime sarebbe
già scappato dall’altra parte del Pacifico, senza
peraltro sapere più di due
parole d’inglese.
Non si sofferma a
chiedersi perché Oikawa si stia sforzando così
tanto, non vuole pensare che sia
un modo per rifiutarlo – non lo fa e basta, perché
significherebbe che almeno
una volta si è immaginato l’altra possibilità,
e non è così.
Così prende
un
respiro e, consapevole di esserci ormai dentro fino al collo, fa
scivolare le
dita più sotto, nella piega del ginocchio di Oikawa. Non
può ignorare il suo
sussulto, il suo petto che si alza e si abbassa troppo in fretta e le
nocche
sempre più bianche che strattonano e torturano i
pantaloncini. Forse Oikawa non
si sta impegnando abbastanza; no, forse è Hajime che sta
esagerando, ma come
può fermarsi adesso? Dopotutto, sta solo facendo quello che
Oikawa gli ha
chiesto.
“Qui,”
riprende a
fatica dopo essersi fatto coraggio, mentre con i polpastrelli sfiora la
pelle
morbida, fresca e umida di sudore, “qui
c’è un sacco di roba che ti puoi
spaccare.”
Oikawa annuisce quasi
con approvazione, poi mugugna qualcosa e lascia cadere di botto il capo
sulla
spalla di Hajime. “Tipo?” chiede infine, ma la sua
voce è bassa, tremante,
incerta – forse ha smesso di provarci.
Hajime deglutisce a
vuoto, apre e chiude la bocca un paio di volte e, davvero, ci ha
passato il
pomeriggio su quel disegno, ma Oikawa è troppo vicino,
troppo—
“C’è
l’altro
crociato, il... quello posteriore.”
“E
poi?”
“Poi quello
mediale, quello laterale… i legamenti
collaterali…”
Oikawa volta il
capo e gli carezza la gola con il naso; il suo respiro caldo
s’infrange contro
la gola di Hajime, che serra la mascella per tenere tutto fermo, ma la
stanza
non smette di girare.
“Oikawa...”
“E sono
tutti lì?”
lo interrompe, le labbra che carezzano la pelle calda di Hajime, il suo
battito
impazzito, il sangue che corre e annebbia la vista e i pensieri.
“Lì
dove?” sente la
sua voce domandare, ma non è lui che ha detto alle sue
labbra di formare quelle
parole.
Oikawa inspira, e
poi espira, e Hajime viene travolto dal panico – forse
puzzo, si
dice, forse il bastardo sta per dirmi che puzzo come
un gorilla. Ma
non succede, Oikawa non dice niente e Hajime sente che le sue dita,
quelle
sotto il ginocchio, umide, tremanti, vengono toccate da qualcosa. I
suoi occhi
scattano verso il basso e il naso di Oikawa si scontra con la sua gola,
ma la
mano che stringeva i pantaloncini fino a farsi sbiancare le nocche
adesso non è
più lì, è scivolata tra le loro cosce
vicine e sta sfiorando le dita di Hajime
in una carezza incerta, a tentoni. Nascosta, quasi timida.
“Qui,
Hajime.”
Quelle sono le
ciglia, si dice Hajime. Oikawa apre e chiude e apre le palpebre e gli
sfiora
l’orecchio con le sue maledette ciglia lunghe –
Hajime le conosce, le ha
guardate fino a consumarle, ma non si sono mai consumate. A consumarsi
è sempre
stato lui, con la sua impazienza, la frustrazione, i suoi sette
millimetri che
certi giorni sembravano sette metri e poi sono diventati
trecentocinquanta
chilometri.
Non siamo
alieni, Oikawa, il ginocchio è lì e basta.
Eccola, la risposta
perfetta, quella che dovrebbe dire. La sua bocca, però, non
si muove, e Hajime
vorrebbe sbottare la sua frustrazione perché a quanto pare
la sua mente è
sempre pronta a ritornare sulla difensiva, a ripristinare lo status quo
e a
marcare il confine che, in tanti anni, Hajime ormai conosce meglio di
chiunque
altro. Perché dopotutto è stato lui a stabilirlo.
Ma forse la colpa adesso è
del suo corpo, si dice – quel corpo che il confine non lo
vede, perché Oikawa
ci è seduto sopra, schiacciandolo tra le loro gambe
appiccicose come a volerlo
rinnegare.
“Quando te
ne vai?”
chiede, ed eccola di nuovo la sua bocca, che parla senza il permesso
del
cervello.
Oikawa sbuffa nella
piega del suo collo, poi alza il capo e, usando la mano libera per
voltargli il
viso e obbligarlo a incrociare il suo sguardo, gli sorride in un modo
che
sembra quasi compiaciuto; come se quella domanda se la fosse aspettata,
come se
l’avesse coltivata – ed è
così che Hajime realizza che in realtà, prima di
oggi,
lui dell’espressione più sincera di Oikawa non ne
sapeva proprio niente.
“Te lo dico
solo se
mi baci.”
E
all’improvviso
quei trecentocinquanta chilometri tornano sette metri, poi cinque
centimetri,
poi sette millimetri. E poi. Zero.
*