Qualcuno
mi ha messo
davanti un bicchiere sporco. Le mie dita lo stringono assenti e la
mia mano inizia a disegnare dei cerchi lenti, strisciando sulla
superficie rovinata del tavolo. È un mio vecchio vezzo.
Gioco sempre
un po' con i miei drink, prima di consumarli. Il liquido trasparente
che il barista mi ha servito inizia a ondeggiare, increspandosi in
minuscole onde regolari che si infrangono contro la barriera effimera
del vetro. È un movimento quasi ipnotico e i miei occhi lo
seguono
vacui, senza un vero interesse.
Sono
seduta in questo
buco sotterraneo a bere vodka calda, mentre tutto intorno a me decine
di corpi sconosciuti si contorcono e guizzano al ritmo martellante
della musica vomitata da altoparlanti che non riesco a vedere. Io non
la sopporto, la vodka. Eppure la bevo lo stesso, piccoli sorsi
regolari che mi incendiano la lingua e la gola senza che io colga il
gusto di quello che sto ingoiando. Ma chi se ne frega. Non sono qui
per l'alcol o per godere di questa massa di umanità
pulsante,
brulicante come una nidiata di vermi e affamata di piaceri facili e
di oblio a poco prezzo. Non sono in cerca di sesso, né di
droghe che
possano rendermi meno consapevole della nostra condizione abietta:
no, sono qui il Nemesis è il luogo che
più di ogni altro
riesce ad alimentare in me la rabbia, soffiando nuovo ossigeno sulle
braci mai spente del rancore e della vendetta. Perché in
questo
posto io vedo il simbolo di quello che siamo diventati: ratti timidi
che da vent'anni si nascondono nel ventre polveroso della terra,
troppo spaventati per salire in superficie e reclamare il nostro
posto sotto i raggi caldi dei due soli gemelli che illuminano questa
terra. Noi viviamo rintanati nelle tenebre eterne, mentre loro,
lassù, godono delle bellezze che questo mondo ha da offrire.
Non
sono in molti,
quelli che osano alzare il capo. Le persone che ci governano e che
dovrebbero avere cura di noi non hanno davvero la forza di affrontare
la situazione. O forse non ne hanno l'interesse... chissà.
"Ehilà!"
mi
apostrofa una voce che ho imparato a conoscere bene. "Indovina
cos'ho scoperto?"
Non
trattengo un
sospiro irritato mentre mi volto per guardare in faccia l'uomo che si
sta avvicinando a me, contorcendosi come un'anguilla per evitare di
scontrarsi con uno dei tanti ballerini che affollano il locale.
È
incredibilmente alto, il che, immagino, gli garantisce un certo
vantaggio. Noto che i suoi capelli rossi sono acconciati in una
pettinatura ancora più bizzarra del solito: se ha deciso di
curare
tanto il proprio aspetto fisico, è indubbiamente
perché prevede di
dover dare il meglio di sé, questa sera.
"Ti
aspettavo più
di mezz'ora fa" gli faccio notare, posando il bicchiere sul
tavolo con uno tonfo secco.
Il
sorriso scompare dal
suo volto allungato, dominato da un naso troppo grosso. "E dai,
Medea!" esclama in tono lamentoso.
Medea.
Come mi
viene facile, rispondere a questo nome. Solo di tanto in tanto
ricordo il tempo in cui non ero Medea, ma Medina, una ragazzetta
bruna con le gambe da cerbiatta e i capelli che profumavano di olio
di mandorla. Succede soprattutto quando mi trovo impegnata in una
conversazione di poco conto e la mia mente si sente libera di vagare,
libera dalla morsa che che mi stringe perennemente l'anima.
Dimenticando
rapidamente il mio sgarbo, Ian afferra uno sgabello di ferro scuro
dal tavolo di fianco al mio e lo trascina di fronte a me,
lasciandovisi poi cadere sopra con uno sbuffo teatrale. "Mi
offri qualcosa da bere?" mi chiede, rivolgendomi quel suo
sorriso storto che gli deforma i tratti del volto in modo quasi
grottesco.
Per
tutta risposta,
agito una mano come per scacciare una mosca invisibile. "I soldi
ce li hai" replico seccamente. "Non siamo qui per
conversare del più e del meno: se hai qualcosa da dirmi,
fallo
subito e poi levati dalle palle per un altro po'."
Se
è turbato dalla mia
risposta brusca, non lo dà a vedere. Del resto, è
abituato a questo
mio modo di fare al limite della maleducazione. Credo che non gli
importi nulla di quello che dico o penso: se siamo qui, è
perché
pensiamo di poter trarre un vantaggio dalla reciproca collaborazione,
non certo perché vogliamo diventare amici.
"Carina
e
accomodante come sempre, eh, Comandante?" sghignazza infatti. Il
titolo con cui si rivolge a me, comandante, gronda
sarcasmo.
Sappiamo entrambi che non sono al comando di nulla di concreto: non
guido nessuna forza ufficiale che possa veramente fare qualcosa per
cambiare le nostre vite, ma solo una banda di sbandati troppo misera
per ottenere dei risultati degni di nota.
"Allora?"
lo
sprono, ignorando la sua provocazione. In fondo, so che si tratta di
una frecciatina bonaria: per quanto possa trovarlo sgradevole, Ian ha
spesso combattuto al mio fianco e si è sempre dimostrato un
soldato
leale.
Con
un gesto rapido,
lui si impossessa a del mio bicchiere e se lo porta alle labbra,
trangugiando in un solo sorso metà della vodka residua.
"Dunque",
esordisce, con una luce un po' folle che gli accende gli occhi
pallidi, "ti hanno detto chi sarà dei nostri, questa sera?"
Basta
quella semplice
domanda per mettermi sul chi va là: l'esperienza mi ha
insegnato a
diffidare dei vari soggetti che, di tanto in tanto, si presentano non
invitati alle nostre piccole riunioni periodiche. "Chi?"
chiedo, avvertendo i muscoli della schiena che si irrigidiscono poco
alla volta.
Lui
sorride e i canini
dorati che si è fatto piantare in bocca scintillano in modo
un po'
sinistro. "Il Signor Christopher Kay" replica. "Non è
meraviglioso che un illustre membro del Consiglio Cittadino abbia
deciso di dedicarci un po' del suo preziosissimo tempo?"
La
mia occhiata
dev'essere talmente eloquente che non c'è alcun bisogno che
io
espliciti a parole quello che penso del Signor Kay e delle persone
come lui: inutili burocrati che ci blandiscono con parole vuote,
promettendoci un cambiamento imminente che, però, non arriva
mai.
"Chi l'ha invitato?" chiedo, serrando i denti con rabbia.
Chiunque l'abbia fatto, mi deve delle spiegazioni.
Ian
si stringe nelle
spalle, un gesto ridicolamente infantile, considerata la sua stazza.
"Non ne ho idea" confessa, ben poco interessato
all'argomento. "A me l'ha detto il Corvo. Come abbia fatto lui a
saperlo, però..." e scrolla di nuovo le spalle, lasciando
sfumare la frase.
Ma
sì. In effetti, si
tratta di un particolare di poco conto. Se Christopher Kay vuole dire
la sua in occasione di quello che dovrebbe essere un incontro
privato, se non addirittura clandestino, io non sono nella posizione
di impedirglielo.
"Ti
va di
ballare?" La domanda di Ian, tanto inaspettata quanto balorda,
mi distrae per un istante dai miei pensieri. Ballare? Dice
sul
serio? Non ho mai mosso un singolo passo di danza in tutta la mia
vita – nemmeno prima, quando le cose
erano diverse - e non
intendo certo iniziare seguendo il suo gentile invito.
"No"
rispondo
semplicemente, una sillaba secca che non lascia spazio a dubbi o
proteste.
Lui
ride di nuovo, un
suono gorgogliante che si leva dalla profondità della gola e
sorpassa quasi singhiozzando la barriera dei denti e delle labbra.
Cosa diavolo avrà da ridere sempre, poi. Non sono molti i
motivi per
cui rallegrarsi e, in effetti, la risata di Ian è spesso
priva di
gioia autentica. Lui, però, ride lo stesso. Forse
è un idiota e
quello è il suo modo di affrontare la vita.
Rivolgendomi
un cenno
con la sua mano enorme, Ian gira sui tacchi e poi si lancia nel
turbinio dei corpi sudati che invadono tutta la parte del locale che
non è già occupata da sedie e tavolini,
lasciandomi nuovamente sola
con la mia vodka calda. Soppeso per qualche istante il bicchiere
sporco di ditate e di grasso vecchio, poi me lo svuoto in gola,
contraendo il viso in una smorfia mentre l'alcol lascia in me una
scia infuocata che si condensa nel centro del petto, appena sotto lo
sterno.
Per
i successivi venti,
trenta minuti, osservo le persone che ballano caoticamente davanti a
me, chiedendomi come possano sembrare felici,
soddisfatte di quello che hanno. Come può essere felice Ian,
che
pure si impegna in prima linea per riconquistare il diritto di
guardare il cielo?
Le
mie riflessioni
vengono interrotte bruscamente quando il barista, un uomo basso e con
il volto in gran parte nascosto da una barba incolta, si avvicina a
me e mi posa una mano sulla spalla. Non dice niente, ma con un dito
mi indica il gruppetto di persone che hanno appena varcato la soglia
e che io, assorta com'ero nel mio studio del campione di
umanità che
si agita davanti a me, non avevo visto arrivare. Vi scorgo il Corvo,
lì in mezzo, il volto pallido e inespressivo come sempre,
vedo
Angela e i suoi capelli rosa, la piccola Shanti e Cortés.
È proprio
quest'ultimo a rivolgermi un cenno di saluto e a indicarmi con il
capo la porticina quasi invisibile che conduce allo stanzino in cui
siamo soliti incontrarci.
Ian
si materializza al
mio fianco e poi passa oltre. Prima di seguirlo, mi soffermo qualche
istante a osservare il quinto componente del gruppo, quello che, per
quanto mi riguarda, non ha ragione di trovarsi qui. Christopher Kay
è
un uomo alto, dalla pelle scura come ebano, assolutamente troppo
giovane per ricoprire con saggezza la posizione che gli è
stata
assegnata: deve avere almeno dieci anni in meno di me, il che lo
rende quasi un ragazzino.
Quando
raggiungo lo
stanzino, sono già tutti seduti attorno al tavolo. I miei
compagni
hanno delle espressioni guardinghe, come se temessero la mia
reazione. Mentre afferro una delle sedie pieghevoli addossate alla
parete dipinta di un rosso cupo e mi faccio spazio tra Angela e Ian,
sento su di me gli occhi neri e liquidi di Christopher Kay. Quando si
accorge di avere la mia attenzione, il ragazzo allunga davanti a
sé
le gambe fasciate dai pantaloni militari neri e le sue labbra piene
si stirano in un sorriso pigro. "Vorrei ringraziarti per avermi
concesso di partecipare alla tua piccola riunione, Comandante"
mi dice con la sua voce calda e avvolgente.
"Io
non ti ho
concesso proprio niente" puntualizzo, sputando le parole insieme
a tutta l'irritazione e il disprezzo che provo nei suoi confronti.
"Hai fatto tutto da solo."
Il
sorriso sul suo
volto dai tratti regolari sembra raggelarsi per un istante, ma poi la
tensione quasi impercettibile che per un attimo ha increspato i suoi
lineamenti scompare. "Come vuoi" concede, lasciandosi
prontamente alle spalle i convenevoli. "Parliamo del motivo per
cui sono qui, allora."
"Mi
sembra una
buona idea" si intromette Ian, ma Kay pare non badargli, tenendo
invece gli occhi puntati su di me.
"So
che domani
avete in programma un'escursione in superficie, Comandante Suarez."
Pronuncia il mio cognome con estrema attenzione, lasciando che la "s"
e la "r" rotolino quasi con pigrizia sulla sua lingua.
Suppongo che voglia vedere che effetto mi fa sentire quel nome che
nessuno pronuncia più da tanto tempo.
"Esatto"
confermo in tono neutrale.
Lui
annuisce. "II
Signor Dekker mi ha riferito che domani intendete far visita alla
centralina elettrica tra la ventesima e la ventunesima strada,
è
corretto?"
Prima
di rispondere,
lancio un'occhiata tagliente al Corvo, chiedendomi cos'altro abbia
raccontato al ragazzo. Lui, però, mi fissa con aria
impassibile,
come se non si sentisse tenuto a fornirmi alcuna spiegazione.
"Confermo" faccio, allora, senza aggiungere ulteriori
dettagli. Del resto, sono certa che il Signor Kay sappia benissimo
che è questo, quello che facciamo: piccoli sabotaggi, delle
azioni
di disturbo talmente poco rilevanti che difficilmente scatenano la
risposta di chi vive alla luce del sole. È raro che
riusciamo a fare
qualcosa di più incisivo: siamo tutti armati, sì,
ma più per
difesa personale, che per altro.
"Benissimo"
annuisce ancora Christopher Kay. "Vorrei chiedere la vostra
collaborazione per una faccenda che potrebbe aiutare a migliorare le
vite dei nostri concittadini. Devo chiedervi di rivedere leggermente
i vostri piani, ma vi assicuro che, se tutto andrà come
spero, i
risvolti saranno più che positivi."
"Cosa
significa
che dovremo rivedere i nostri piani?" lo interrogo.
Il
Signor Kay mi fissa
in silenzio per qualche istante, poi si sporge verso di me, posando
entrambi i gomiti sul tavolo che ci separa. "Siamo stati
invitati a un incontro con la Signora Laura Yates, Prefetto di
Alexandria. Ci sono delle trattative in corso, ma questa
sarà la
prima volta che ci incontreremo faccia a faccia. È solo un
piccolo
rendez-vous informale, ma io credo che possa essere
importante. Sono certo che potrebbe essere una prima pietra su cui
fondare poi dei rapporti migliori tra le nostre due città."
Inarco
le sopracciglia
in un'espressione scettica. "E dunque?" chiedo. Credo di
intuire dove vuole andare a parare, ma preferisco non fare ipotesi
che potrebbero rivelarsi infondate.
"E
dunque",
ripete Christopher Kay, chinandosi un po' per guardarmi negli occhi,
"sono qui per chiedervi di accompagnarmi fino al luogo
dell'incontro. In poche parole, voglio che voi diventiate la mia
scorta, almeno fino a domani sera: il Consiglio ha pensato che io
fossi la persona più adatta per affrontare il colloquio con
la
Signora Yates. Purtroppo non sono però nelle condizioni di
concedermi una scorta armata ufficiale, dal momento che la presenza
di soldati potrebbe essere considerata offensiva. È un
ragionamento
che posso capire, perfino condividere, ma non sono un idiota: non ho
nessuna intenzione di finire in un'imboscata... non senza prendere
qualche precauzione, quantomeno."
lan
scoppia a ridere.
"E credi che noi risulteremo meno offensivi agli
occhi
dei signori di Alexandria? Forse le nostre armi non sparano
proiettili, ma confetti e caramelle?"
Gli
occhi neri del
Signor Kay hanno uno scintillio minaccioso. "Confido nel fatto
che abbiate il buonsenso e l'intelligenza di non farvi vedere, a meno
che le circostanze non lo richiedano." Davanti al tono velenoso
con cui il ragazzo ha pronunciato quelle parole, lan solleva le mani
e annuisce. Poi Christopher Kay si rivolge direttamente a me. "Questo
significa che dovrete rinunciare al vostro proposito di far saltare
la centralina elettrica. Se l'incontro di domani andasse a buon fine,
è probabile che dovrò avvalermi dei vostri
servizi anche in futuro:
in questo caso, dovrete astenervi dal commettere vandalismi e
sabotaggi vari anche nei mesi a venire.
"No."
La
risposta esce dalle
mie labbra ancor prima che il mio cervello abbia il tempo di
processarla e il Signor Kay mi rivolge un'occhiata perplessa. "No?"
ripete, con solo una punta di minaccia nella voce.
Davanti
alla sua
incredulità, guadagno sicurezza. "Non abbiamo intenzione di
fare quello che chiedi. Non è questo, quello per cui
lottiamo."
Sulle
sue labbra piene,
quasi femminili, si dipinge un piccolo sorriso educato. "Non
lottate forse per la pace?" mi provoca. "Il vostro
obiettivo primario non è il benessere dei nostri
concittadini?"
"Noi
vogliamo solo
giustizia: è questo il nostro obiettivo" lo contraddico.
"E
rimettendo a
posto le cose non avreste giustizia?" mi incalza il ragazzo.
Faccio per rispondere, ma le parole mi muoiono in gola. C'è
qualcosa
che mi brucia all'altezza dello stomaco, un grido soffocato,
disperazione e dolore e sangue, paura e una rabbia feroce e senza
risposta. No, non è la giustizia che cerco io,
vorrei dire,
ma Christopher Kay mi precede. "Tu ti chiami Medina Suarez, non
è così?" mi chiede, di punto in bianco.
"È questo il
nome con cui sei registrata all'anagrafe. Eppure tutti qui ti
chiamano Medea: perché?"
La
domanda dovrebbe
sorprendermi, eppure non lo fa. Mi pare stranamente coerente con il
discorso che stavamo facendo fino a pochi istanti fa e
improvvisamente intuisco che quel ragazzo con troppo potere tra le
mani vede più lontano di quanto credessi. "Mio padre era un
amante della mitologia greca" spiego, cercando di ignorare il
peso degli sguardi che i miei compagni stanno riversando su di me.
"Questo nome è un modo per ricordarlo."
Il
Signor Kay annuisce.
"Tuo padre è morto tempo fa, vero, Comandante?"
Subito
incontro i suoi
occhi del colore della notte. "È stato ucciso durante la
guerra
civile. E lo stesso vale per il resto della mia famiglia."
Il
ragazzo sembra non
avere udito la mia risposta, immerso com'è nei suoi
pensieri. "È
un mito strano, quello di Medea. Non posso dire di essere un
appassionato di miti terrestri, ma, se non ricordo male, Medea era
l'amante di un eroe... Giasone, o forse era Ercole? E quando lui l'ha
lasciata per un'altra donna, lei si è vendicata donandole un
mantello avvelenato che l'ha uccisa tra atroci sofferenze.
Personaggio piuttosto sgradevole, per quanto mi riguarda."
È
Angela a venire in
mio soccorso, captando il mio disagio. "Tutto ciò
è molto
interessante, ma ho come l'impressione che stiamo andando un po'
fuori tema" ci fa notare, masticando rumorosamente una radice di
pianta del sale, una delle poche cose che riusciamo a coltivare con
agio alla luce delle nostre lampade artificiali.
"Niente
affatto"
la contraddice Kay. "Io ho l'impressione che il vostro
comandante non sia in cerca di giustizia,
bensì di vendetta,
che è una cosa ben diversa. È per questo che si
rifiuta di fare ciò
che le chiedo; ed è per questo che si è scelta
questo peculiare
nome di battaglia."
Quelle
parole mi
colpiscono come un pugno nello stomaco e un capogiro mi coglie per
una frazione di secondo. Perché ha ragione, naturalmente: io
voglio vendetta. Io voglio che chi ha
massacrato la mia
famiglia davanti ai miei occhi, lasciandomi in vita solo per sadica
compassione, soffra come ho sofferto io, espiando tutte le sue colpe.
Non l'ho mai ammesso ad alta voce, ma è questo desiderio che
mi ha
animata per tutti questi anni, spingendomi ad abbracciare le armi e a
impegnarmi in prima linea in questa guerriglia logorante che si
trascina lenta da quasi un decennio. Ma, al tempo stesso, Christopher
Kay si sbaglia: questa è giustizia.
Questa è la forma più
pura e istintiva di giustizia che possa esistere.
"Il
nome è solo
un modo per onorare la memoria di mio padre" mi limito a
ripetere. Se non esplicito il mio ragionamento, non è
perché me ne
vergogno o perché lo ritengo poco valido: semplicemente, non
credo
di dovermi giustificare davanti a un ragazzino che se ne sta qui di
fronte a me, tronfio e ignorante e del tutto incapace di vedere al di
là del proprio naso.
"Se
le cose stanno
così, sono certo che allora riconsidererai le tue posizioni
e
riconoscerai che la mia proposta è tutt'altro che sciocca"
insiste il Signor Kay. "L'unico modo per cambiare le cose e
tornare a vivere in superficie è cercare di instaurare dei
buoni
rapporti con la gente di Alexandria. Solo così potremo
sperare di
convivere pacificamente. Usando la violenza, non otterremo che altra
violenza: e, credimi, non siamo noi ad avere l'arsenale migliore."
Il
suo tono calmo,
ragionevole, rischia di farmi saltare i nervi. "E dove sta la
giustizia, in tutto ciò?" ringhio, sporgendomi verso di lui.
"Dopo l'Epidemia, loro sono arrivati dal cielo e
hanno
deciso che si sarebbero presi la città che i nostri
fratelli
avevano fondato. Noi eravamo su questo fottuto pianeta già
da dieci
anni, avevamo le nostre case, le nostre coltivazioni: con quale
diritto si sono presi quello che era nostro?"
"Questo
pianeta
non è né loro né nostro" mi fa notare
Kay. "Siamo tutti
ospiti, qui."
"Ma
sono stati
loro a perseguitarci! Sono stati loro a imporci quella quarantena
assurda!" mi ritrovo quasi a gridare. "Tu non eri neppure
nato, all'epoca, ma io c'ero: e anche Ian c'era, e pure
Cortés. Ce
li avevamo anche noi, i medici e gli scienziati, sai? Non eravamo
degli idioti: se siamo tornati ad Alexandria, era perché
sapevamo
che il morbo che ne aveva sterminato gli abitanti era scomparso. Loro
non volevano evitare una seconda epidemia: volevano soltanto
cacciarci dalla nostra città! E adesso non ci è
nemmeno più
concesso risalire in superficie e cercare una nuova terra in cui
vivere: ci cacciano come animali."
Il
ragazzo china il
capo per qualche secondo, riflettendo sulle mie parole. "Sono
stati commessi degli errori, in passato, e io non giustifico gli
assassini che hanno condotto quella che può essere a tutti
gli
effetti considerata una pulizia etnica" ammette, poi. "Ma
ora le cose sono cambiate anche in superficie. La gente là
sopra
vuole la pace, vuole rimediare..."
"Rimedieranno
solo
quando ci renderanno ciò che è nostro e se ne
andranno" lo
interrompo. "Noi abbiamo occupato questa terra per dieci anni e
loro..."
"...
e loro la
occupano da venti, Signora Suarez" mi fa notare il ragazzo.
C'è
un che di strano, adesso, sul suo volto: è qualcosa di
morbido e un
po' triste. È qualcosa che mi fa male e mi fa venire voglia
di
urlare, perché assomiglia tanto alla compassione.
"Non
mi interessa"
sbotto. "Ho avuto più tempo di te per meditare su questa
faccenda, ragazzo, e non sarai certo tu a farmi cambiare idea."
Per
me la questione è
chiusa qui, ma intorno a tavolo regna un silenzio di tomba.
Rendendomi conto solo in questo istante di quanto poco abbiano
parlato i miei compagni, mi guardo attorno e vedo che mi stanno
fissando con dei volti gravi.
"Medea",
sospira la piccola Shanti, "credo che dovresti ascoltare quello
che abbiamo da dire anche noi."
***
E
così, alla fine
abbiamo fatto come ha voluto lui. Mi sento tradita, non posso
negarlo: non so quali parole abbia usato per convincere i miei
compagni, quali lusinghe e quali minacce, ma ieri sera si sono
schierati compatti contro di me. Chi con apatia, come il Corvo, chi
con dispiacere, come Shanti e Cortés, chi con spavalda
allegria,
come Angela e Ian.
È
proprio il gigante
dai capelli rossi a serrarmi amichevolmente una spalla con una mano
enorme. "E dai, Comandante" mi sprona. "Non fare
quella faccia lì: non stiamo mica andando in guerra!"
Siamo
appostati in un
vicolo buio a metà strada tra il cuore e la periferia
estrema di
Alexandria: se alziamo gli occhi, però, vediamo il baluginio
delle
stelle e tanto basta per farci nascere nell'animo un senso di
grandiosa quiete.
Siamo
soli. Davanti a
noi si apre una strada ampia, illuminata dalla luce dei lampioni.
Pochi metri più in là rispetto allo sbocco del
vicolo in cui ci
troviamo, sulla sinistra, c'è un immenso palazzo dalla
facciata
scura, decorato con dei simboli istituzionali: tre stelle che fanno
da corona a un albero stilizzato. Pochi minuti fa, il Signor Kay
è
scomparso oltre la porta di metallo posta al centro della facciata,
scortato da due uomini in divisa: da quando se n'è andato,
tutto è
immobile e silenzioso. Il trasmettitore con cui dovrebbe avvertirci
in caso di pericolo non ha dato cenni di vita. La notte è
quieta,
eppure sento un'inspiegabile tensione stringermi lo stomaco, come il
presagio di qualcosa che sta per compiersi.
Nemmeno
il tempo di
formulare il pensiero, che Shanti sussurra: "Arriva qualcuno!"
E ha ragione. Silenziosa come un cacciatore in cerca di prede,
un'automobile scura, con i fari spenti, si avvicina al vicolo in cui
siamo appostati, senza pero imboccarlo. Si ferma invece davanti alla
porta dietro la quale è sparito Kay e da essa scendono tre
persone.
Quando passano sotto il lampione posto davanti alla porta d'ingresso,
il sangue mi si ghiaccia nelle vene.
Accanto
a me, Shanti
trattiene il fiato e lan si volta verso di me, guardandomi
preoccupato. "No, Medea" mi dice. Non lo sento nemmeno. I
miei sensi sono tutti concentrati sul più anziano dei tre
uomini
fermi sotto il lampione. Non è esattamente come me lo
ricordavo, i
suoi capelli un tempo biondi sono ormai ingrigiti dal tempo, ma gli
occhi sono gli stessi. Me li ricordo bene, quegli occhi grigi come
coltelli. Riesco a vederli nonostante la distanza che ci separa,
nonostante le ombre della notte che distorcono le forme e i colori.
Quello è Simon Moi.
Mentre
le mie mani si
muovono come animate da volontà propria, i miei occhi
rivedono scene
di vent'anni fa. Rivedo il giardino, le poche piante che riuscivano a
crescere nel clima ostile di quel pianeta alieno. Rivedo mia madre,
accasciata a terra con mio fratello tra le braccia. C'è del
sangue,
sopra di loro, sangue sui loro volti, sul busto, sulle mani. Mio
fratello ha gli occhi chiusi, ma mia madre no. E poi rivedo
mio
padre, riverso sui tre gradini che separano il giardino dalla porta
d'ingresso. Cerca di tamponare una ferita aperta all'altezza dello
stomaco, ma le sue mani non possono nulla e il sangue scorre lento e
inarrestabile, portandosi via le sue forze e la sua vita. Non dice
nulla, non un lamento lascia le sue labbra, ma nei suoi occhi scuri e
buoni c'è un'unica richiesta: vendicaci.
E
io la leggo, nascosta
come sono nel capanno degli attrezzi. La leggo a tredici anni e la
leggo anche adesso, che di anni ne ho trentatré. E la legge
anche
lui, Simon Moi, che lo sa, che io sono lì, a pochi passi di
distanza, sepolta da attrezzi agricoli che nessuno userà
più.
Potrebbe coprire i pochi metri che ci separano, spalancare l'anta di
metallo e uccidermi esattamente come ha ucciso miei genitori e mio
fratello.
Però
non lo fa. Non
per compassione, non per pietà nei confronti di
un'adolescente che
non ha mai visto, ma per il gusto della sfida. La vedo bene,
l'eccitazione, in quegli occhi taglienti e freddi. Non ha voluto
uccidermi per non uccidere insieme a me la frenesia della caccia, il
gusto della sfida.
Ha
voluto tenersi per
il futuro un po' di quel piacere perverso che lo pervade quando punta
il fucile contro qualcuno, e oggi pagherà per quella
decisione. Oggi
sarò io, a coprire quei pochi metri che ci separano.
Sollevo
il mio fucile,
protetta dall'oscurità del vicolo, e prendo la mira. Il
Corvo piomba
su di me, le sue mani forti mi stringono i polsi. "Non farlo"
sibila, con un furore che non ho mai visto in lui, "Se spari,
manderai tutto all'aria. Non ci sarà alcuna tregua, se lo
uccidi."
Ma
non mi interessa. Me
lo scrollo di dosso, con una forza che nemmeno sospettavo di avere,
punto e premo il grilletto. Odo uno scoppio silenziato e là,
dall'altra parte della strada, Simon Moi cade a terra senza un
lamento né un'esclamazione di sorpresa.
Per
un attimo, nella
mia mente regna il silenzio, poi penso che l'ho fatto. Ho esaudito la
richiesta di mio padre.
Sulle
prime non provo
nulla, ma so che tra un istante arriveranno il sollievo, il trionfo e
la gioia che sempre accompagnano il raggiungimento di un traguardo
inseguito a lungo. Prima che io possa realizzare appieno quello che
è
accaduto, però, prima che possa rendermi conto che
è veramente
finita, dall'altra parte della strada giunge uno schiocco e un
bagliore e una pioggia di proiettili cade su di noi.
Shanti
urla e si
accascia a terra, ripiegandosi con un gemito di dolore sulla gamba
ferita. Il Corvo impreca e si china su di lei, aiutandola a rialzarsi
e a reggersi in piedi. Per una frazione di secondo, restiamo tutti
immobili, incapaci di decidere se convenga fuggire o attaccare, poi
una nuova scarica di colpi prende la decisione al nostro posto.
Con
un grido di rabbia
e di disperazione, Ian, Angela e io ci gettiamo in avanti, mentre
Cortés esita ancora per un istante, indeciso se unirsi a noi
o se
restare nell'ombra con il Corvo e con Shanti, prendendosi cura di
loro.
Ai
due uomini che
accompagnavano Simon Moi si sono aggiunte altre persone, ombre scure
uscite dalle strade vicine. Saranno in nove o in dieci e, anche se
cerchiamo di colpirne quanti più possibile, sono comunque
troppi.
Uno o due corpi senza volto cadono a terra, ma poi Angela singhiozza
e crolla e resta immobile. Abbassando lo sguardo su di lei, vedo che
c'è un liquido scuro tra i suoi capelli rosa.
Non
c'è il tempo di
piangere, non c'è il tempo di bestemmiare, perché
lan si getta su
di me e mi mette al riparo da un proiettile che mi avrebbe certamente
colpita. "Stai attenta, Comandante" riesce comunque a
sorridere, disteso di traverso sopra alla mia schiena.
Provo
un inaspettato
moto di affetto nei suoi confronti, poi guardo davanti a me e
incrocio gli occhi della persona che ha cercato di uccidermi.
È una
donna piccola, minuta, con i capelli colorati d'azzurro come quelli
di un'adolescente ribelle. Alla luce del lampione che la illumina,
però, il suo viso non è quello di una ragazzina:
è un volto da
animale selvatico, con le labbra tirate in un ringhio e gli occhi
folli da rapace.
Mentre
siamo a terra,
la donna solleva di nuovo il fucile. Una frazione di secondo
più
tardi, il corpo di lan ha uno spasmo e io sento qualcosa di terribile
riempirmi i polmoni e il cuore. La ragazza dai capelli azzurri prende
di nuovo la mira, ma Cortés sbuca dal nulla e si getta su di
lei,
costringendola a lasciare il fucile e a difendersi.
Mi
rigiro su me stessa,
afferro le spalle di lan e lo spingo sulla schiena, avvicinandomi al
suo volto per avvertirne il respiro. "Ian" lo chiamo, con
una voce che nemmeno mi sembra la mia. "Ian, mi senti?"
Ma
lui non mi sente,
credo. Per un secondo infinito, i suoi occhi chiari incontrano i miei
come per dirmi qualcosa. Ed è così, che sono
testimone dell'istante
preciso in cui quegli occhi smettono per sempre di vedere.
Non
so cosa provo. Non
lo so, ma punto i piedi e mi metto sulle ginocchia, mi alzo e
imbraccio il fucile, alla ricerca della donna con gli occhi da
sparviero. Non la trovo, ma qualcuno trova me.
È
un dolore
lancinante, quello che mi attraversa il petto, il fianco, la spalla.
Tutto intorno a me, i fucili continuano a sparare. Non so contro chi,
non so se Cortés stia continuando a combattere,
né se il Corvo
abbia deciso di unirsi finalmente a lui. Io sono sola, sempre
più
sola con quel dolore che so che nessuna medicina potrà mai
guarire.
Poi,
lentamente,
arrivano la quiete, il silenzio e una spossatezza che mi pare quasi
una benedizione. Mentre i confini del mondo svaniscono, non penso
alla vendetta o al corpo di Simon Moi che cade a terra, ma solo alle
grida, agli occhi vuoti di lan e al sangue tra i capelli di Angela.
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