Appena
vide l’acqua, luccicante alla prima luce dell’alba,
Dante si precipitò ai bordi
del fiume, trangugiandone più che poté,
sentendosi improvvisamente rinvigorito,
come rinato.
La
giovane si sedette sulla riva, immergendo i piedi in acqua. Lo
osservò togliersi
delicatamente la corazza che gli proteggeva il petto, scoprendo un
ventre
possente quanto le spalle massicce. Si slacciò i saldali e
si tolse la cintura,
restando completamente denudato. Lo vide immergere le caviglie
nell’acqua
fresca, poi i polpacci, le natiche e infine la schiena bianca.
Esaminò
il suo modo di scrollarsi l’acqua di dosso, di immergere
completamente la testa
e lasciare che tante piccole gocce gli scivolassero tra le ciglia,
sulle
guance, raggiungendo le labbra piene.
Anche
se non lo avrebbe mai ammesso, avrebbe voluto succhiare quelle labbra
fino a
farle bruciare e accarezzare quei capelli rosso fuoco, tirarli,
annusarli e
stringerli fra le dita. Per la prima volta da quando erano giunti in
quel
posto, l’uomo si voltò a guardarla, avvicinandosi
lentamente.
Quando
fu abbastanza vicino, lei mosse i piedi nell’acqua,
schizzandolo e ridendo
quando l’uomo cercò di proteggersi inutilmente,
rischiando di annegare. Quando
si riprese, la ammonì: «Sei terribile,
bimbetta».
In
tutta risposta lei continuò veemente, costringendolo ad
allontanarsi. Poi la ragazza
si rabbuiò improvvisamente, sdraiandosi sul suolo, gli occhi
rivolti al firmamento
e i piedi ancora immersi nell’acqua. L’uomo,
incurante della sua nudità, si
distese accanto a lei.
Il
sole cominciava a illuminare il cielo e un nuovo giorno stava per
cominciare,
ricordando loro quanto la vita fosse effimera e talvolta angosciosa.
«Immagino
tu voglia tornare dalla tua famiglia» fu la ragazza a rompere
il silenzio, ma
solo per poco. L’uomo si mise a sedere, osservando
l’acqua in cui era stato
immerso fino a poco prima.
«Io
so come fare» disse la giovane, tirandosi in piedi,
guardandolo in volto. I
loro sguardi si incrociarono ancora e l’uomo poté
constatare quanto i suoi
lineamenti fossero delicati, la pelle color caramello splendeva alla
luce
dell’alba e degli splendidi capelli scuri ne risaltavano la
bellezza. «Ci
vediamo qui domani al tramonto» decretò, prima di
correre via sulla strada di
casa.
˜
Quando
Dante riaprì gli occhi si trovò di fronte una
scena inverosimile: la schiava gli
stava tamponando la guancia ferita con un panno, intingendolo in
dell’acqua
fresca.
I
loro volti si trovavano così vicini che Dante poteva sentire
il soffio sottile
del suo respiro sulla pelle. Seppur con un occhio malandato, da quella
distanza
la donna era ancora più attraente. I capelli lucenti le
ricadevano sulle
spalle, solleticando dolcemente il volto dell’uomo. Dante
allungò una mano e li
carezzò, stringendoli a sé, assaporandone la
morbidezza.
«E
tu avresti combattuto la guerra?» lo provocò lei
con un sorriso. La guancia gli
bruciava, ma non si lamentò. Quella era la prima vera volta
che la ragazza gli
rivolgeva la parola. La sua voce era melodica e calma, come una strana
sinfonia
nascosta nella memoria.
«Vieni da Sparta, vero?» chiese l’uomo
sollevandosi su un gomito. Lei si voltò,
intingendo nuovamente il panno nell’acqua. «Sei
molto brava» asserì, tastandosi
l’addome reduce dal pugno ricevuto qualche ora prima.
Lei
abbassò lo sguardo. «Perdonami»
sussurrò, «io pensavo che…».
Dante
la interruppe, prendendole il viso tra le mani. La vide arrossire
violentemente, la sua pelle scottava sotto i suoi palmi e gli occhi
brillavano
di una luce nuova e sconosciuta. Le carezzò la testa e
improvvisamente venne
pervaso da un intenso istinto protettivo. Lei posò lo
sguardo sul suo viso e
Dante sentì gli occhi riempirsi di lacrime.
«Bimbetta
mia…» sussurrò sfiorandole le guance.
Lei si strinse al petto dell’uomo, sentendo
le sue mani scivolarle dolcemente sul volto, sui capelli, sul collo,
lasciando
che i loro corpi si abbandonassero a quel pugno di ricordi che erano
riusciti a
salvare dalla polvere della memoria.
˜
Camminarono
per tutta la notte e per tutto il giorno successivi, permettendosi
solamente
qualche breve pausa durante il viaggio. Quando finalmente videro
Corinto, il
sole stava calando sul mare, pronto a inghiottirlo. Quando capirono di
aver
raggiunto la destinazione ambita, si presero per mano e corsero per
tutta la
città, fino al porto, dove quella notte una nave diretta a
Corcira, più vicina
ad Atene che a Sparta, avrebbe portato clandestinamente il soldato
ateniese in
salvo, lontano dai nemici.
«Perlomeno
hai una possibilità di sopravvivere»
mormorò la ragazza osservando il trireme
in lontananza. «Se ti unirai a loro, nessuno ti
caccerà», proseguì con fermezza,
«non possono permettersi di rifiutare un paio di braccia in
più» terminò.
Il
sole tingeva l’acqua d’oro. Esausta, la giovane si
accovacciò a terra. Avevano
sete, erano affamati e avevano terminato tutte le provviste che era
riuscita a
portare con sé. L’uomo prese subito posto accanto
a lei.
«Dimmi
come posso ringraziarti» disse in tono serio, quasi come
un’ammonizione. La
ragazza alzò gli occhi verso il cielo, che appariva sempre
più scuro all’orizzonte.
L’ora della partenza si stava avvicinando.
«Noi
dovremmo essere nemici» disse in un sussurro. Poi, come
memore di qualcosa, si
tirò in piedi con uno scatto. «Trova la salvezza,
ateniese» si volse verso il
guerriero un’ultima volta, ma lui la fermò:
«Dimmi almeno il tuo nome».
«Gli
dei hanno voluto che mi chiamassi Zhalia» rispose la donna,
correndo via verso
la città, con ben altri piani in mente che tornare verso la
propria
madrepatria. Ciò che l’uomo ignorava era che non
avrebbe avuto affatto bisogno
di evitare di svelare la propria identità.
L’equipaggio del trireme sapeva bene
di chi si trattasse, ma aveva preteso, in cambio della sua
ospitalità
sull’imbarcazione, la vendita di una schiava. Quella schiava
era una ragazzina
spartana di buona famiglia, con il desiderio di poter prendere posto,
un
giorno, tra le fila di atleti allo Stadio di Olimpia.
˜
393
a.C.
Dante
riusciva a scorgere una decina di donne dalla postazione in cui si
trovava, in
cima alla collina. Poteva distinguere chiaramente i giudici,
rigorosamente
donne, sedute sull’esedra²,
attendendo l’inizio
della gara.
La
prima disciplina del pentathlon sarebbe stata la corsa, per questo
motivo le
atlete si erano radunate all’inizio della pista sterrata,
pronte a partire. Tra
di loro, la donna che lo aveva salvato, tempo prima, da una fine in
tutta
probabilità atroce, pronta ad esaudire il suo sogno
indossando il chitone³
e gli splendidi capelli corvini raccolti in una
fascia bianca.
Le
donne si misero in posizione e Dante la vide fluttuare
nell’aria, riportando
alla memoria in un istante il momento in cui la vide correre per la
prima volta,
prima che si allontanassero per sempre da Sparta, insieme, quando gli
chiese di
combattere e lui rifiutò per risparmiare le energie, quando
si incamminarono e
lei gli raccontò di come fosse fuggita prima di incontrare
il suo futuro sposo
quella stessa mattina, e lui si abbandonò di rimando ai
ricordi del mestiere
del padre, che, fiero del proprio figlio, batteva lo scalpello sul
legno
ricavandone dei veri capolavori.
Accoccolato
sull’erba verde e fresca, pensò che nonostante la
sua famiglia fosse morta a
causa della peste durante la guerra, l’aveva in parte
ritrovata in quella donna
spartana, su quell’isola che aveva imparato ad apprezzare fin
da quando ci mise
piede la prima volta.
La
storia dei due amanti sopravvisse nei secoli, divenendo così
popolare da
modificare per sempre il destino dell’isola in cui essi
videro sbocciare il proprio
amore, Zacinto, successivamente ribattezzata Zante,
dall’unione dei nomi dei
due sposi che tuttora riposano, stretti l’uno
all’altro, nel suo ventre più
profondo.
²
Esedra: piattaforma di pietra sulla quale sedevano i giudici durante i
Giochi
Olimpici nell’Antica Grecia.
³
Chitone: tunica di stoffa leggera senza maniche comunemente utilizzata
nell’Antica Grecia.
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