A Gentleman’s
interest.
Ancora quei maledetti schiamazzi.
Ogni notte, con grande "fastidio" delle guardie, quella prigione
si trasformava in un covo di lussuria e perdizione, nonché principale causa delle
emicranie che, ormai, erano diventate fin troppo abituali per Crocodile.
Quel luogo era un puttanaio. Nessuno faceva alcuna distinzione
fra la propria mano e quella di un compagno di cella – poi, per i più carucci,
di ben più bell’aspetto che i soliti grassoni o ragazzi dai visi sfigurati,
ogni tanto se ne occupava una guardia in cerca di divertimento.
Ah, le guardie, così lige al dovere che, all’occorrenza, non
perdevano mai la possibilità di umiliare, ripetutamente, le persone dietro le
sbarre.
Crocodile, però, aveva due
fortune, che lo aiutavano a estraniarsi dalle rogne notturne: non condivideva
la cella con nessuno, e questo voleva dire non doversi preoccupare di contatti
indesiderati; la seconda fortuna, invece, era il suo moncherino. Lui, ormai alla
soglia dei suoi 42 anni, era decisamente un bel bocconcino per persone infime e
subdole come alcune delle guardie, quei giovanotti che giocavano a fare i
soldatini buoni come angeli, ma segretamente più dannati anche del peggiore dei
pirati.
Il moro ricordava molto bene i suoi primi giorni in quel
posto, quando persino guardie di altri piani si erano accalcate di fronte alla
sua cella per osservarlo, per ammirarlo quasi come fosse un raro esemplare di
una specie in via di estinzione. Alcuni trovavano affascinante quella cicatrice
che gli deturpava il viso, e Crocodile stesso aveva
sentito qualcuno bisbigliare come sarebbe stato ripassare quel lembo di terra
rovinato con le proprie dita, sentire come si snodava su quel viso inespressivo
– scoprire se potesse fare male.
Altri, invece, si concentravano sulla sua stazza. Quelle spalle
ampie, quei muscoli che tendevano la sua maglia da carcerato, assieme a quelle
gambe che parevano quelle di un atleta, piuttosto che di un uomo che aveva
passato la maggior parte del tempo alla scrivania – ah, Crocodile,
a detta di tutti era davvero un bell’uomo, ma, purtroppo, quell’uncino enorme
terrorizzava tutti. O, meglio: ciò che nascondeva, quell’abominevole moncherino
era ciò che fungeva da repellente.
Che schifo, mio dio, sarebbe stato vedere ciò che c’era
sotto quel rivestimento sgargiante che nascondeva qualcosa di ben più orripilante
che di una semplice cicatrice.
Per questo, e anche per lo scontroso comportamento di Crocodile, le guardie evitavano di infastidirlo – non passavano
nemmeno dalla sua cella durante quelle ore in cui i prigionieri sembravano essere
preda del desiderio e della lussuria. Certo, erano pur sempre curiosi di vedere
cosa l’uomo facesse, se la sua faccia restasse impassibile, anche perché, da
quella cella, non si udivano mai le catene delle manette cigolare nella notta;
allo stesso modo, non vi si udiva nemmeno un gemito provenire da quella tana
sempre cupa e silenziosa.
Quando qualcuno passava di lì, giusto per accertarsi che l’uomo
non fosse morto, ad accoglierlo c’era solo un orribile tanfo di fumo, originato
da quei maledetti sigari, nonché unica e sola richiesta fatta da Sir Crocodile da quando si trovata lì. L’uomo, infatti, restava
lì, rintanato in un angolo, illuminato dalla flebile luce proveniente dal suo
sigaro.
Quell’uomo stava lì. Sempre, senza fiatare. Quell’unica mano
buona non cercava mai di sgusciare all’interno dei propri pantaloni, anzi,
restava inerme a sorreggere quel sigaro che ricordava a tutti, fin troppo
vividamente, che pezzo grosso fosse Crocodile. L’uomo
non fumava sigari banali o di poco conto, e ogni volta che doveva richiederne
una scorta, la sua richiesta era sempre la stessa: Montecristo No. 2, un tipo
fin troppo pregiato per un prigioniero.
Per farla breve, tutto ciò che sembrava gli interessasse era
osservare il via vai lungo il suo corridoio, fumare quelle banconote sotto
forma di sigaro e sperare che quelle ore notturne, scandite da gemiti e urla
sconnesse, da risate macabre e i commenti di chi si divertiva semplicemente a
guardare.
Crocodile, semplicemente, non era
interessato.
Eppure, un giorno, una guardia rammenta, l’espressione sul
viso di Crocodile era parsa diversa.
Si era trattato di un giorno particolarmente tedioso e
uggioso, che aveva portato con sé un uccellaccio fin troppo rosa e rumoroso.
Fino a poco prima dell’arrivo del suddetto uccello del
malaugurio, Crocodile era rimasto appoggiato contro
le sbarre, osservando le persone che passavano, sbirciando nelle altre celle,
fino a quando l’inusuale visitatore non ebbe fatto il suo ingresso in scena.
Se quella guardia non fosse stata talmente abituata a
studiare quell’annoiato prigioniero, sarebbe stato impossibile notare come Crocodile si fosse sollevato da quella posizione svogliata
al solo udire quei passi scanditi da un tacco che precede la punta sul
pavimenti in pietra, troppo pesante per essere di una donna; non avrebbe mai
notato come Crocodile avesse spalancato di poco gli
occhi nell’osservare quella pelliccia appariscente incorniciare una figura
colossale che, lentamente, si faceva avanti sguaiatamente; non avrebbe mai
notato gli angoli della sua bocca curvarsi verso l’alto, ma in maniera molto
diversa dal solito sorrisetto sadico.
Non avrebbe mai notato quanto a Crocodile
bastasse un dialogo ben impostato, fatto di razionalità e fatti per avere tutta
la sua più completa attenzione.
Ma forse, questo dipendeva anche da chi fosse il suo
interlocutore.