Cross the line
DETROIT
BECOME HUMAN
«Secondo
la forma più estrema di questa opinione, il solo modo per
cui si potrebbe
essere sicuri che una macchina pensa è quello di essere la
macchina stessa e
sentire se si stesse pensando. [...] Allo stesso modo, la sola via per
sapere
che un uomo pensa è quello di essere quell'uomo in
particolare. [...]
Probabilmente A crederà "A pensa, mentre B no", mentre per B
è
l'esatto opposto "B pensa, ma A no". Invece di discutere in
continuazione
su questo punto, è normale attenersi alla educata
convenzione che ognuno
pensi.»
(A.Turing
Test)
1.
Caduta
“Lì!
Da quella parte!!” urlò un vigilante indicando un
vicolo sulla destra, troppo
intimorito per correre lui stesso dietro quello che sembrava un altro
deviante
sfuggito al controllo dell’uomo.
Connor
non indugiò, nonostante corresse già da molto non
sentiva la stanchezza, non
era programmato per mettere in discussione la sua missione per alcuna
ragione.
Era
il Cacciatore destinato a estirpare quel malanno. Erano ormai tanti, un
centinaio, e sicuramente sarebbero aumentati. Era il suo compito quello
di
riuscire a fermarne e catturarne quanti più possibile prima
che quella piaga
diventasse incontrollabile.
Si
lanciò nello stretto vicolo, scorgendo finalmente
l’AX400 che la notte scorsa
aveva assalito uno dei cittadini di Detroit.
Distinse
da lontano una giovane donna vestita con abiti umani comuni, modello da
uomo e
di taglia decisamente sproporzionata rispetto la sua corporatura esile.
Una
giacca pesante scura di pelle camuffava la sua figura ma, grazie alla
sua
programmazione, non gli fu affatto difficile scansionare i dati
facendoli
corrispondere alle sembianze dell’androide da lui cercato.
Non
aveva dubbi. Nonostante avesse rimosso il dispositivo circolare sulla
tempia,
avesse cambiato i suoi abiti e cambiato pettinatura, era più
che certo si
trattasse di lei.
Ella
aveva appena aiutato una bambina a scavalcare la grata che separava
quel vicolo
malconcio della periferia dall’autostrada. Aveva intenzione
di fuggire
percorrendo quella via pericolosa, doveva raggiungerla in tempo.
L’AX400
era un modello dalle sembianze femminili e delicate, inadatto a ruoli
che
comportassero estremi sforzi fisici, quindi assolutamente non
all’altezza del
suo livello combattivo nel caso di uno scontro. Si trattava di un
androide
semplice, creato per essere alla portata di tutti.
Non
aveva scampo.
Connor
afferrò con forza il reticolato che lo separava da lei, ma
era troppo tardi.
L’androide era riuscito a passare dall’altra parte.
La
distanza che l’aveva avvantaggiata durante la sua fuga era
stata sufficiente
per riuscire a mettersi al riparo da lui. La deviante si
girò, spaventata dal
suo inseguitore che per un soffio non l’aveva trascinata via
con sé. Rimase
immobile qualche istante, trafiggendolo con le sue iridi azzurre
terrorizzate
ma tenaci. Un magnetismo che coinvolse i due in quel lungo contatto
visivo dove
l’uno sfidava l’altro in un incontro che non aveva
potuto avere luogo.
Cacciatore
e preda, faccia a faccia. Uno avrebbe vinto, l’altro sarebbe
tornato a casa
affamato.
Fu
un momento breve, ma che durò abbastanza per far pesare
nell’animo di ciascuno
la salvezza e la frustrazione.
I
devianti avevano tutti questo in comune…i loro occhi.
Erano
esseri unici, speciali, imprevedibili, in balia di contraddizioni che
andavano
a imitare le emozioni umane.
Confusi,
spaventati, si lasciavano guidare da formule meccaniche sconosciute che
potevano essere vagamente paragonate al libero arbitrio, ma erano
qualcos’altro.
Essi non erano che mere macchine, un insieme di plastica, chip e
programmazioni
create per obbedire e per facilitare il lavoro dell’uomo.
Ciononostante,
era lecito che il dubbio sorgesse spontaneo alla luce degli
innumerevoli casi
che giorno dopo giorno si accavallavano sulle scrivanie della polizia,
formando
quello che era ormai diventato un fenomeno di massa sempre
più concreto.
Quanto
c’era di vero in quel che stava accadendo a Detroit?
L’essere umano era davvero
in grado di stabilire la vera natura di queste macchine? Cosa erano
realmente?
Connor,
l’elegante e incorruttibile RK800 mandato dalla Cyberlife,
era uno di loro, in
termini di fabbricazione. Egli era composto della loro stessa mera
materia.
Alto,
bruno, con la pelle chiara, il viso diligente e imperscrutabile; era
l’esempio
inequivocabile di uomo scrupoloso e macchina perfetta.
Lei,
invece, incantevole come una bambola di porcellana, eppure selvaggia e
indomita; era un insieme di bellezza e ribellione da lasciare senza
parole.
Erano
entrambi androidi, eppure così diversi. Per Connor era del
tutto impossibile
riuscire a comprendere la natura dei devianti, come fossero lui e loro
due
specie simili ma completamente distinte.
Non
era la prima volta che osservava i loro occhi.
Quello
sguardo fuggente, quelle iridi che si imprimevano sulle sue non
esaminando
il mero campo
visivo; no.
Aveva
davanti a sé due specchi azzurri coscienti, determinati, che
lo sfidavano, che
lo intralciavano, che avevano paura e provavano sollievo, sebbene
momentaneo.
Come
potevano quegli occhi di vetro trasmettere tutte quelle emozioni? Come
poteva
riuscire a mandare così tanti messaggi sfuggenti e
contraddittori?
Erano
queste le emozioni? Cosa significava essere dominati da esse?
Era
qualcosa che Connor non avrebbe mai potuto comprendere al momento.
I
devianti non erano come i normali androidi; erano diversi,
profondamente
diversi ed enigmatici.
Per
un attimo il Cacciatore si ritrovò a riflettere fuori
programma, immaginando il
suo stesso sguardo impregnato di quella stessa energia vitale.
Trovava
spaventoso immaginare di essere capace di trafiggere l’anima
del proprio
osservatore come gli stava accadendo in quel momento.
Non
si trattava di una paura razionale e questo lo turbava. Essere turbato
non
faceva parte della sua meccanica.
Quel
che facevano i devianti era come un virus, il quale si propaga rendendo
instabili le formule con le quali gli androidi caricavano le loro
scelte.
Connor
per un attimo temette che se fosse rimasto a fissare ancora
così gli occhi di
quella deviante, avrebbe potuto ammalarsi. Eppure non riusciva a
scostarli.
Non
comprendeva.
Lui
era il cacciatore di devianti, creato dalla Cyberlife proprio per
capirne
l’origine e scongiurarla. Era costantemente sulle loro
tracce, le quali numerose
li incastravano facendoli scovare e tradire, e non comprendeva come
fosse
possibile che essi fossero così violenti ma ingenui.
Si
era già ritrovato spesso davanti a loro, ma non riusciva a
comprendere…
Tutto
a un tratto quel contatto visivo si spezzò.
L’androide posò una mano sulle
spalle della ragazzina che era con lei, osservando terrorizzata
qualcosa alle
spalle di lui.
Connor
si riprese da quel breve momento di deconcentrazione. Guardò
dietro di sé e si
accorse che intanto il vigile era sopraggiunto sul luogo, puntando una
pistola
contro di lei.
“Non
sparare.” intimò lui. “Ci serve
viva.”
Il
Cacciatore non diede quell’ordine solo per questo. Vedere
quell’arma puntata
contro la deviante lo aveva fatto sussultare a livello più
personale, non seppe
spiegarlo. Non voleva venisse uccisa, semplicemente. Aveva visto
qualcosa in
quella androide.
Non
c’era però molto tempo per pensarci.
Intanto
le due approfittarono di quel momento per scappare, così
scivolarono lungo il
pendio, sfiorando la staccionata che le separava dalla pericolosa
autostrada ad
alta velocità che si affacciava in quel punto.
Connor
afferrò la grata più saldamente e fece per
sollevarsi e lanciarsi in
quell’inseguimento impossibile, quando la mano del suo
collega lo tirò giù.
Con
voce roca e grave, il Ten. Anderson lo guardò furibondo
imponendogli di restare
lì. Era una follia rischiare la vita, le due non ce
l’avrebbero mai fatta ad
arrivare dall’altra parte.
Connor
osservò la strada. Le automobili sfrecciavano da un versante
all’altro
superando i 100 km orari, percorrendo quattro corsie che andavano e
venivano.
Ciononostante la sua programmazione gli permetteva di calcolare che vi
era una
possibilità di successo e la sua missione era più
importante della distruzione
della sua unità materiale. Si trovava di fronte una scelta.
In
fine scostò Anderson e consapevole di danneggiare il loro
già magro rapporto di
fiducia, decise di proseguire. L’avrebbe catturata.
Se
un AX400 aveva calcolato la possibilità di riuscire ad
attraversare la strada
in quell’inferno, un RK800 avrebbe avuto successo ad occhi
chiusi.
Sotto
gli occhi sgomentati di Anderson, in un gesto fulmineo Connor fu presto
in cima
alla grata, pronto a calarsi giù e rincorrere la deviante.
Scivolò
sull’erba lungo il pendio e fu subito alle sue spalle.
L’androide
si girò, accorgendosi della temerarietà del suo
inseguitore, ella era tuttavia
ancora più testarda e non si lasciò spaventare.
Prese la bambina per mano e la
tirò sulla strada con sé, scansando in modo
incosciente ma risoluto le macchine
che sfrecciavano sull’asfalto.
Le
due si fermarono all’altezza della striscia che separava le
due corsie, il
tempo di calcolare quando muovere il prossimo passo. Connor si
ritrovò a
contemplare l’assurdità di quel gesto, che non
tardò a imitare, riflettendo
tuttavia su quanto fosse imperscrutabile quell’androide per
essere un semplice
AX400, costruito soltanto per semplici mansioni domestiche.
Voleva
intimarle di fermarsi, ma le vetture che si muovevano a quella
velocità gli
davano a stento il tempo di calcolare come non venire investito.
Intanto
la deviante continuava a muoversi, anticipando le sue mosse.
Connor
non le avrebbe permesso di scappare, ne andava anche
dell’onore del suo modello
di fabbricazione, enormemente superiore al suo. Così
schivò agilmente le
automobili, dando vita a uno spettacolo mortale che solo i
più spericolati
avrebbero potuto contemplare, riuscendo ad afferrare brevemente la
fuggiasca.
Riuscì
a tenerla ferma per qualche istante, ma bastarono pochi movimenti ma
soprattutto il passaggio di un’auto proprio in quel momento,
a imporgli di
scostarsi da lei per mettere entrambi in salvo. Nessuno doveva morire.
Vide
l’AX400 non curarsi né di se stessa né
di lui, ma spingere in avanti la bambina
che aveva con sé.
Fu
in quel breve momento che il Cacciatore si chiese se la ragazzina fosse
scappata con l’androide di sua spontanea volontà.
Le due
sembravano…proteggersi?
Non
poté fermarsi a riflettere, doveva subito togliersi da
quella situazione.
Continuò a correrle dietro, sfiorando la distruzione in
più di un’occasione.
Grazie
allo slancio finale che lo portò finalmente oltre
l’autostrada, egli prese per
la schiena l’AX400 finalmente, e i due androidi rotolarono
già per il pendio
che v’era dall’altra parte.
Soltanto
che non aveva calcolato che, oltre la strada, vi era un profondo
precipizio,
lungo il quale caddero velocemente facendo perdere le loro tracce.
2.
Risveglio
Ci
fu un lungo momento di buio totale.
Kara
aprì debolmente gli occhi, riattivando il suo sistema,
cercando di ristabilirsi
quanto prima. Come un flash di ricordi, innumerevoli immagini si
accavallarono
nella sua mente, ricreando le ultime tortuose ore che avevano
accompagnato il
suo brusco risveglio da semplice androide.
Vide
Todd, la strada, la pioggia, i suoi capelli scuri tagliati nel
lavandino,
adesso corti e biondi, la sua immagine ora così diversa che
rifletteva nello
specchio il suo nuovo io…poi auto che sfrecciavano
pericolose sull’autostrada,
l’androide vestito di grigio che le stava dando la caccia,
Alice che la
guardava spaventata…Alice…
“Alice!!”
Urlò in preda al panico.
“Stai
calma.” Una voce pacata disse poco distante da lei.
L’androide si voltò e si
pietrificò alla vista dell’ultima persona che
sperava di trovarsi al suo risveglio.
Era proprio l’androide dal completo grigio dal quale stava
fuggendo.
Fece
per alzarsi ma gli arti non risposero. Digrignò i denti,
sperando di non
essersi danneggiata gravemente. Scannerizzò le sue gambe e
sembravano purtroppo
manomesse. Fece dunque leva con le braccia, spostandosi da lui quanto
più
possibile, tuttavia egli la precedette e si chinò verso di
lei. Avvicinò una
mano ma lei la scostò senza esitazione.
“Calma,
ho detto. E’ normale tu sia spaventata. Sono qui per
aiutarti, il mio nome è Connor.
Sono stato mandato dalla Cyberlife per…”
“Dov’è
Alice?!” Lo interruppe lei, per nulla interessata a sapere
chi diavolo fosse.
Si guardò attorno spaesata e le ci volle un po’
per capire cosa fosse successo.
Riconobbe il precipizio e comprese di esservi caduta dentro con lui.
Ricordava
poco altro.
Forse
Alice era riuscita a scappare, a mettersi in salvo. Tuttavia, nel caso
fosse
caduta…no…
“Devo
trovarla, è solo una bambina. Dov’è? Se
l’hai vista devi dirmelo. Lei non
c’entra nulla.” Disse disperata, un tipo di
emozione con la quale Connor aveva
familiarizzato poco.
Vide
i suoi occhi languidi che trasmettevano qualcosa che andava oltre la
paura. Era
un sentimento che non riusciva a interpretare, qualcosa di
più arcano che
guidava quella profonda empatia che nutriva verso la ragazzina.
“Mi
spiace, non ho visto la ragazzina, Alice.” In quello stesso
istante, comprese
che forse aveva trovato il punto debole di quella deviante. Al di
là della
comprensione del suo particolare malfunzionamento, ella sembrava
nutrire un
speciale affetto per la bambina che aveva rapito. Decise dunque che la
strategia migliore fosse fare il suo gioco, forse così
sarebbe riuscito a
portarla dalla sua. L’AX400 era un modello semplificato,
grazie al quale la
Cyberlife avrebbe potuto facilmente stabilire quale componente
difettosa
generasse i devianti.
“Qual
è il tuo nome?”
“Non
ha importanza, io devo trovarla.” Insistette lei, non facendo
che girarsi
attorno. “Se lei fosse precipitata quaggiù con
noi, sarà senz’altro ferita. Non
posso nemmeno immaginare se…”
Connor
le si parò davanti, costringendola a guardarlo. Ancora una
volta fu trafitto da
quello sguardo ricco di emozioni, da quegli occhi così vivi
e diversi dai suoi.
Estenuati, puri, sinceri…
Trattenne
tuttavia quel senso di turbamento e si impostò con tono
autoritario ma posato.
“Il
tuo nome.” Era necessario per stabilire un minimo di
solidarietà e cordialità
con lei. Sapeva bene quanto fosse importante coi devianti.
Vide
la ragazza mordersi le labbra, come se comprendesse anche lei che
nonostante la
difficile situazione, dovesse mantenere la calma. Aveva un carattere
decisamente più posato dei devianti che aveva incontrato,
eppure già si era
accorto che non le mancava la testardaggine e la determinazione.
“Kara.”
Pronunciò debolmente. “Il mio nome è
Kara.”
Connor
annuì.
“Kara,
troviamo Alice insieme. Ti aiuterò.” Disse
abbozzando un sorriso, sedendosi con
un ginocchio a terra di fronte a lei. “Devi però
promettermi di non scappare.
Non avrebbe senso. Sono in grado di portarti sopra questo dirupo,
esistono
molte vie secondarie che ho già esaminato. Troviamo la
bambina e usciamo da
qui. Siamo intesi?”
La
vide abbassare lo sguardo, sapeva di non avere molta scelta. Aveva
probabilmente già capito che lui dopo l’avrebbe
arrestata, ma era anche
consapevole di non poter proseguire da sola. Era intelligente, avrebbe
accettato il suo aiuto. Adesso stava a lui non giocarsi tutto.
Si
ritrovò a osservare il suo volto sinceramente affranto. I
capelli biondi
contornavano quegli occhi tristi.
Costatare
quanto pochi accorgimenti avessero reso quell’androide
così simile a una vera
donna lo sconvolse. Stette a contemplarla qualche istante prima di far
caso che
Kara si fosse accorta dell’insistenza con la quale la stava
scrutando.
Incrociarono
di nuovo i loro sguardi, ma lui preferì evitarla.
C’era qualcosa che lo agitava
profondamente quando accadeva. Sistemò la cravatta
già composta e prese parola
facendo finta di nulla.
“Adesso
riparerò le tue gambe. Si sono solo distorte, ci
vorrà un secondo.”
Kara
annuì e lasciò che lui la toccasse. Fece poche
manovre precise, prima a una
gamba poi l’altra, che la riattivarono e fu subito in grado
di alzarsi.
Ella
alzò le ginocchia portandole al petto, stringendole,
dopodiché cercò lo sguardo
di Connor che non tardò a ricambiarla.
Voleva
fidarsi, voleva accettare il suo aiuto, ma aveva conosciuto troppa
rabbia,
troppa crudeltà. Se non fosse stato per lui, sarebbe stata
ancora con Alice a
cercare un luogo sicuro con calma.
Quel
bell’aspetto rigoroso tipico di quelli della loro specie,
ammaliava e
trasmetteva sicurezza anche quando i loro ordini erano ingiusti o
addirittura
meschini.
Egli
suscitava fiducia, era stato creato per attirare a sé il
compiacimento di chi
incontrava, e questo era il motivo per cui non riusciva a fidarsi.
Quel
volto persuasivo, dai tratti raffinati e affascinanti, erano il frutto
di uno
studio fatto ad hoc su di lui.
Lui
era un androide, come lei, ma era ormai chiaro che non tutti gli
androidi
fossero uguali. Quella notte qualcosa era cambiato profondamente dentro
Kara,
non era più una semplice macchina obbediente, non era
più un involucro privo di
libero arbitrio dedito solo alla sua programmazione.
Kara
non sapeva cosa fosse, né voleva trovare una risposta
razionale, né chiedersi
se fosse un errore di fabbricazione il suo oppure una vera e propria
presa di
coscienza.
Non
le interessava. Sapeva solo che adesso per lei non esistevano
più ordini e che
voleva proteggere Alice. Era lei a volerlo, non un programma. Voleva
che quella
bambina stesse bene, che fosse salva e felice.
Connor,
invece; rigido e rigoroso, l’aspetto giovane, intelligente,
la bellezza
perfetta del suo viso, con occhi scuri e penetranti, i capelli in
ordine, il
completo grigio elegante degno di un uomo distinto; tuttavia
c’era poi il suo
sguardo vuoto, serio, privo di emozioni, quel led che lampeggiava di
azzurro
sulla sua tempia, lo stemma della Cyberlife sul suo petto, e quelle
movenze
troppo costruite e artificiali.
Lui
non era come lei, non elaborava emozioni o pensieri. Lui calcolava
dati.
Stava
pianificando come portarla via, non gli interessava di Alice, non si
curava che
lei fosse in salvo.
Connor
si accorse troppo tardi che quell’esitazione non era semplice
paura. Prima che
potesse reagire, Kara lo colpì e velocemente
fuggì da lui.
Il
fondo di quel precipizio era composto unicamente dalla parete rocciosa
e un
cunicolo stretto che costeggiava l’autostrada. Poteva sentire
ancora gli
assordanti rumori delle auto soprastanti. Non sapeva bene in che
direzione
scappare, cercò solo di non finire in un vicolo cieco.
Tuttavia stavolta non fu
abbastanza veloce da seminare Connor che grazie al suo programma
investigativo,
le fu subito addosso.
Kara
si dimenò con tutte le sue forze costringendolo a prenderla
per i polsi e
schiacciarla contro la parete. Fu in quel preciso momento che
però accadde
qualcosa.
L’RK800
vide nella memoria della deviante. Vide immagini, volti e situazioni
che non
poteva assolutamente conoscere. Vide un uomo trascurato, con barba e
capelli
incolti e unti, alcolizzato, fatto di Red Ice, che sbraitava per casa
tentando
di ucciderla.
Vide
la bambina, Alice, che piangeva implorandolo di non essere picchiata.
Sconvolto,
lasciò la presa. Aveva gli occhi sbarrati, incredulo di
quanto avesse visto.
Cosa
significava…? Non aveva mai potuto percepire tante emozioni
dal semplice
scambio di dati da contatto fisico che normalmente sussisteva fra
androidi.
Quella
esplorazione mentale era stata di tutt’altra natura, qualcosa
che non aveva mai
sperimentato prima di allora.
Quel
terrore di essere uccisi, l’ansia di fallire, il coraggio di
disobbedire,
l’affetto che Kara nutriva sinceramente per quella
bambina…e poi quell’uomo
violento, che a quanto pareva aveva fatto loro del male.
Dunque
quella deviante e Alice…non erano una rapitrice e il suo
ostaggio, erano due
donne che avevano subito violenza domestica da quell’uomo
ripugnante.
Loro
erano fuggite per mettersi in salvo.
Era
questo quello che era accaduto.
Quella
consapevolezza lo mise a disagio. Dunque Kara aveva reagito a un
sopruso, il
quale aveva scatenato in lei la ribellione.
Non
era malvagia, né tantomeno aveva fatto qualcosa di male.
Ciononostante era una
deviante e il suo compito era catturarla.
Sentì
la sua programmazione totalmente instabile, entrare in uno stato
empatico, così
profondo, con un deviante lo aveva scosso.
Anche
Kara dal suo canto non aveva mai sperimentato qualcosa di simile. Non
era mai
stata toccata a quel modo da un suo simile, né tantomeno
qualcuno aveva mai
esplorato così intimamente nella sua mente. Lei stessa aveva
visto volti,
luoghi, immagini della vita di quell’androide che lei non
poteva certamente
conoscere.
Era
la prima volta in assoluto per lei.
Entrambi
si ritrassero attoniti. Si scrutarono, quasi come interrogandosi
l’un l’altro
su ciò che avevano visto.
Si
resero conto di aver a che fare con qualcosa che non conoscevano,
qualcosa che
si stava muovendo e stava profondamente cambiando la natura con la
quale gli
androidi erano stati creati.
Solo
che le loro storie provenivano da strade diverse.
Lui
come Cacciatore di essi. Lei come Vittima.
Connor
fece un profondo respiro. Voleva mostrarsi superiore, non lasciarle
pensare che
fosse sconvolto almeno quanto lei.
Non
era ancora pronto a farsi le domande giuste.
“Kara,
quell’uomo ti ha fatto del male? Ha fatto del male a te ed
Alice, non è vero?”
Disse serio, cercando di riavvicinarsi.
Kara
non si fidava di lui, lo vedeva purtroppo come una macchina che agiva
secondo
convenienza. Tuttavia era più debole e non sapeva se fosse
in grado di opporsi
a lui.
La
sua priorità era restare in vita, per trovare Alice e
salvarla.
Cominciò
quindi a tremare. Tremava di paura, rabbia, tutto lo stress le stava
piombando
addosso in un colpo. Erano tutte emozioni nuove, la stavano assalendo
fino a
farla star male.
Si
sentiva profondamente scossa. Lei stessa fino a quel momento aveva
avuto pochi
momenti per pensare a cosa le fosse successo, quante cose orribili
avesse visto
in quella casa, quante parole crudeli e azioni spietate avesse dovuto
sopportare prima di reagire finalmente. Vide così cadere su
di lei una valanga
di ricordi duri e violenti, che l’avevano indotta a quella
fuga disperata.
Piegò
il viso e se non fosse stata un androide, Connor avrebbe giurato
stesse…piangendo?
Invece
aveva appena iniziato a piovere, piccole gocce caddero su di loro e
velocemente
si trasformarono in un vero e proprio acquazzone.
Per
un innato galateo della sua programmazione, nonostante fra androidi non
fosse
assolutamente richiesto in verità, egli tolse la giacca e la
pose sul capo di
entrambi, usufruendone per ripararsi.
Kara
osservò i suoi capelli bagnarsi e appesantirsi, la giacca lo
copriva pochissimo
rispetto a lei. Anche la sua camicia bianca fu presto completamente
impregnata
d’acqua.
Posò
anche lei la mano verso l’alto, aiutandolo a sorreggere la
casacca nella
posizione giusta, facendogli intendere finalmente che lo avrebbe
seguito.
Anche
lui la scrutò, potendo sfruttare i venti centimetri di
altezza che li
differenziavano per osservarla senza essere ricambiato.
Stavolta
aveva abbassato la guardia, ne era certo. Fu sollevato, ma non
perché ciò
semplificava la sua missione.
Stavolta
no.
Così
i due si incamminarono, cercando un riparo.
3.
Devianti
Il
cielo cominciò a incupirsi velocemente, si stava
preannunciando un vero e
proprio temporale che fece stringere in una morsa l’animo
già provato di Kara,
che non poteva fare a meno di pensare ad Alice.
Era
concentrata a percorrere quella via malandata, guidata dal passo
frettoloso del
detective-androide, il quale camminava spedito sotto la pioggia,
scrutando
l’ambiente e orientandosi con il suo gps accessoriato.
Notò
che la deviante non riusciva a stare esattamente al suo stesso passo,
così
scese una mano verso la sua schiena incoraggiandola a continuare.
Kara
non era abituata a essere sfiorata così frequentemente, per
di più da qualcuno
che non conoscesse. In verità, si ritrovò a
riflettere che lei non aveva mai
conosciuto nessuno. La sua presa di coscienza era davvero recente,
risaliva
appena alla notte prima, ragion per cui ogni cosa era assolutamente
nuova per
lei. Partendo dai suoi sentimenti, i suoi timori, i suoi desideri, fino
agli
affetti o a cose più banali come stabilire veri e propri
contatti spontanei con
chi incrociava sul suo cammino.
Sbirciò
Connor, il quale aveva un’espressione concentrata, col volto
diretto davanti a
sé; egli stava seguendo come una sua mappatura mentale, ne
era certa.
Osservò
il suo viso chiedendosi se anche lui sarebbe stato destinato ad
accorgersi che
c’era dell’altro negli androidi, oppure era lei un
caso unico e speciale.
Ancora
non lo sapeva, tuttavia in cuor suo sapeva chi fosse, le batteva in
petto la
fortissima consapevolezza di essere cambiata. Qualcosa le diceva
interiormente
che era un percorso evolutivo non soltanto suo.
Era
convinta che, sebbene alla lontana, ci fosse
dell’umanità anche negli occhi
imperscrutabili e nel viso inespressivo del Cacciatore.
Aveva
notato il suo disagio, il suo sconvolgimento quando l’aveva
afferrata per il
braccio. Anche lui aveva visto e condiviso quei ricordi, uniti alle
forti
emozioni che aveva provato. L’aveva sentito entrare nella sua
mente. Non a caso
le aveva chiesto di Todd.
Questo
voleva dire che quel che era successo a lei era potenzialmente qualcosa
che
poteva accadere a chiunque. Tuttavia questo non voleva dire riuscisse
ancora a
fidarsi di lui.
Si
strinse nel suo giaccone di pelle scuro, infastidita da tutta
quell’acqua dalla
quale non potevano ormai più proteggersi solo con la giacca
da lavoro di
Connor.
L’androide
comprese il suo disagio e condivideva il fatto di dover cercare un
riparo più
consistente.
Attraversarono
un cunicolo gocciolante che finalmente li condusse a un capanno; uno di
quelli
creati per i lavoratori.
Dato
che questo genere di lavori manuali erano ormai da diversi anni
lasciati agli
androidi, era probabile che quel luogo fosse disabitato.
Connor
sbirciò l’interno da una finestra, i suoi sensori
di calore gli fecero
comprendere che molto probabilmente la casa fosse disabitata in
effetti. Provò
a entrare dalla porta, ovviamente chiusa, quindi distrusse il vetro di
una
delle finestre e riuscì ad addentrarsi.
Kara
lo seguì, sollevata dall’essere
all’asciutto finalmente.
Vide
il cacciatore di androidi perlustrare prudentemente la casa, prima di
confermarle che fosse vuota. Lo osservò mentre strizzava
superficialmente la
sua giacca, per poi poggiarla su una sedia. Anche lui era completamente
bagnato.
La
deviante scrutò i suoi vestiti pesanti e lasciò
cadere a terra la sua giacca
oversize, rimanendo con la sottile camicia trovata in lavanderia.
Avrebbe
potuto spogliarsi e lasciare che anche il resto si asciugasse, eppure
nacque
dentro di lei un innato senso del pudore che le impedì anche
solo di
ponderarlo. Vedendo Connor completamente zuppo davanti a lei, per nulla
intenzionato a cambiarsi, dedusse che per lui fosse lo stesso. Non si
era mai
posta un problema simile prima di quel momento, aveva sempre avuto
addosso la
divisa auto-pulente in dotazione col modello AX400 della Cyberlife.
Abbracciò
i gomiti e prese anche lei ad esplorare quel piccolo capanno. Si
fermò vicino
la finestra, pregando che presto le cose si sarebbero aggiustate.
Intanto
l’androide dai capelli scuri non disse nulla, si
limitò a guardarla di
nascosto, concentrato intanto a investigare l’ambiente.
Non
gli ci volle molto, il capanno era un semplice luogo di appoggio per i
lavori,
composto da un semplice corridoio che collegava a una stanza
attualmente vuota,
forse un vecchio ufficio, poi un bagno e un ingombrante ripostiglio
ormai
sgombro, il quale raffigurava la stanza più grande in quanto
ampia quanto tutti
e tre gli ambienti messi assieme.
Leggermente
infastidito dal tessuto bagnato attaccato sulla sua pelle, Connor
allentò la
cravatta per poter sbottonare giusto il primo bottone sotto il collo
della
camicia. Arrotolò le maniche all’altezza dei
gomiti e una volta messosi più
comodo, esaminò con attenzione tutte le possibili uscite di
quel luogo.
Non
vi erano molti ingressi, solo la porta principale e le finestre.
Si
avvicinò quindi all’ingresso e un sonoro
rintoccò della serratura fece sbandare
Kara, che si era leggermente assorta vicino la finestra, osservando la
pioggia.
“Cosa
stai facendo?” Chiese mantenendo il controllo, ma sospettosa.
Il
detective evitò di incrociare il suo sguardo ancora una
volta. La stava
eludendo e se ne accorse.
“Penso sia
prudente richiuderci dentro, per la
tua sicurezza.”
“Non
mi va che chiudi l’uscita.” Protestò
pacata lei. Kara aveva la rara capacità di
parlare con fermezza pur mantenendo un atteggiamento rilassato. Questo
non
sapeva se perché fosse comunque un androide o se fosse
così di natura. Ad ogni
modo, il suo tono di voce e il suo sguardo sapeva suscitare nel suo
ascoltatore
una certa attenzione, motivo per il quale era facile sentirsi in
soggezione con
lei.
Aveva
l’aria di una donna indubbiamente posata, ma risoluta. Non
andava
sottovalutata. Connor sospirò. Come poteva spiegarle che non
voleva ulteriori
sorprese, tipo che lei scappasse di nuovo?
Si
avvicinò alle finestre e con un gesto brusco le
bloccò, eliminando velocemente
ogni possibile via di fuga, atteggiamento che fece scattare
definitivamente
l’allerta della deviante.
“Te
lo chiedo di nuovo, cosa stai facendo? Lo sai che Alice è
ancora lì fuori, non
ho alcuna intenzione di restare intrappolata qui dentro ancora a
lungo.”
“E’
per la tua sicurezza, è necessario restiamo qui dentro per
un po’. Non fare
troppe domande, non è prudente ti allontani da me e basta.
Questo è tutto.”
“Questo
è tutto? Sul serio?” Kara intuì fin
troppo bene di essersi fidata troppo
presto.
Quell’androide
non aveva affatto abbandonato la sua missione, né voleva
proteggerla. Aveva
approfittato dell’improvviso temporale per farle abbassare la
guardia e con
ingenuità lei si era fatta incastrare in quelle quattro
mura.
Senza
dargli il tempo di reagire in qualche modo, ella si fiondò
verso la finestra
che avevano fracassato per fare irruzione dentro, ma non fece in tempo
a
oltrepassarla che lui la tirò via facendola cascare a terra.
Iniziò
dunque una vera e propria colluttazione, dove l’AX400 si
difese bene
rappresentando che stava lottando contro un androide predisposto alle
arti
marziali. Lui riuscì a bloccarle le braccia dietro la
schiena e mentre cercò di
sfilarsi la cravatta per legarla, Kara riuscì a girare su se
stessa velocemente
fino a farlo sbattere violentemente contro la porta
dell’ampio ripostiglio, che
si spalancò facendolo cadere dentro.
Lo
vide mettersi in piedi velocemente fra la polvere, così lei
prontamente afferrò
la maniglia e con una scatto spedito riuscì a chiuderlo
dentro. Appena girò la
chiave nella serratura, sentì subito i colpi
dell’androide dall’altra parte che
colpiva la porta.
“Kara,
apri immediatamente. Apri, è un ordine!”
Kara,
al contrario, schiacciò la schiena contro la porta e
lentamente scivolo a
terra, in preda all’ansia. Quasi non poteva credere di essere
riuscita ad avere
la meglio e a liberarsi momentaneamente di lui. Corrucciò il
viso, sempre più
stanca e affranta, mentre l’RK800 insisteva nel fare
pressione.
Dall’altro
lato, lui continuò a chiamarla e a sbattere contro la porta
con veemenza.
Calcolò che avrebbe potuto abbattere la porta, ma date le
circostanze avrebbe
preferito ridurre al minimo i danni.
Mise
le mani sui fianchi e si guardò in giro. La stanza era
completamente buia ma
grazie ai suoi sensori riusciva a vederci bene ugualmente. Non
c’erano finestre
li dentro, il che rendeva tutto molto angusto. Passò una
mano fra i capelli
ormai sporchi e disordinati. L’umidità della
pioggia lo stava raffreddando, ma
non aveva il permesso di disattivare la sua sensibilità al
clima.
Così
anche lui si sedette a terra, comprimendo la schiena contro la porta.
Poggiò la
mano sulla fronte, aiutandosi a meditare.
Regnò
il silenzio per diversi lunghi istanti, fino a quando non
sentì un singhiozzo
dall’altro lato.
Si
voltò verso la porta.
“Kara…sei
ancora qui?” Chiese a voce bassa, sorpreso.
Non
udì risposta, ma era evidente che la deviante fosse ancora
dall’altra parte.
Per qualche motivo non era già scappata via. Si era
ritrovato dalla posizione
di cacciatore di devianti ad androide sequestrato e imprigionato lui
stesso da
un deviante.
Eppure
sentiva che non era del tutto corretto. In fin dei conti, se ragionava
secondo
la logica dei devianti, era lui che l’aveva spaventata e
indotta a reagire.
Forse non avrebbe dovuto comportarsi in quel modo, rifletté.
Decise
dunque di abbassare la guardia e adottare un atteggiamento
più comprensivo. Non
era facile per lui, la sua programmazione lo riportava continuamente
verso il
suo obbiettivo. Ricordarsi che doveva badare anche alla salute mentale
della
androide lo confondeva. Gli tornarono in mente le immagini del vissuto
di
quella ragazza, le violenze che aveva subito.
Provò
improvvisamente qualcosa di diverso…era…pena,
forse.
Non
era fatto per entrare in empatia con i devianti, eppure qualcosa lo
aveva
scosso e quando aveva qualche attimo per ripensarci, non poteva fare a
meno di
sentirsi in colpa. Eppure non era colpa sua. Il suo lavoro era dare
loro la
caccia, al di là delle singole motivazioni che generavano i
fatti.
Connor
non se ne rese conto, ma il led sulla sua tempia lampeggiava di giallo,
sinonimo dell’aggiornamento di qualcosa che aveva variato la
sua normale
stabilità.
Adagiò
il capo sulla porta e provò a parlarle di nuovo. Sentiva
fortemente la presenza
della deviante dall’altra parte.
“Vuoi…”
Tentennò. “…vuoi raccontarmi cosa ti
è successo?”
Kara
sniffò. Fu strano per lui immaginare un androide piangere
dall’altro lato della
porta.
Lei
sembrò mormorare qualcosa, faticò a sentirla.
Avvicinò l’orecchio per riuscire
a capire bene la sua risposta. Restò tuttavia in silenzio,
non voleva turbarla
ulteriormente per nessun motivo.
“Non
fai che girare attorno al problema quando ce l’hai davanti
agli occhi.” Sorrise
sconsolata lei, notando il palese stato confusionale del suo
inseguitore,
sebbene lui credesse di non darlo a vedere. “Hai inseguito me
e la bambina, la
polizia si è data da fare per metterci alle strette e sei
anche riuscito a
separarci, quando invece era in quella casa che qualcuno sarebbe dovuto
intervenire.” Scosse la testa. “Lo sapete, lo sanno
tutti.”
“Cosa?”
la incoraggiò.
“Ci
usano e basta. Lo so che è così. L’ho
visto nei tuoi ricordi. Anche altri
androidi come me sono stati violentati.” Si fermò.
“Todd si è tolto la cintura.
Aveva assunto quella roba. Aveva anche una pistola in camera sua,
l’ho vista.
L’avrebbe picchiata a morte, era furioso. Lei non aveva fatto
niente. Non ce
l’ho fatta a rimanere ferma. Non potevo.”
L’espressione
di Connor si contrasse.
“Mi
dispiace.” Disse. “Ti giuro verificheremo quanto
accaduto, non permetteremo che
una minore subisca ulteriori abusi.”
“Non
si tratta solo di questo.” Lo interruppe lei. “Io
ed Alice desideravamo solo
essere libere. Non libere solo dalla violenza.
Intendo…libere davvero. Voglio
lasciare questo paese, voglio che lei torni a sorridere.
Io…non ho mai visto
una bambina così disperata…così
affranta. I suoi occhi non sono quelli di una
bambina della sua età. Non l’ho mai vista ridere.
Non è giusto.”
Connor
si sorprese della capacità profondamente emotiva di
quell’androide. Sapeva
parlare e formulare pensieri, opinioni, decisioni, del tutto sconnessi
dal suo
semplice programma, che in un AX400 sarebbero dovuti essere limitati
all’obbedienza totale verso l’uomo.
Lei
invece era diversa, lei ragionava. E ragionava anche molto
profondamente. Lo
shock che aveva subito in quella casa aveva risvegliato in lei un
profondo
senso materno, quel pensiero le era entrato nell’animo e
aveva dato vita a
quella ribellione. Una ribellione giusta in verità.
Provò
rabbia.
Lui
aveva una programmazione molto più complessa della sua, era
stato dotato della
capacità investigativa e quindi di una certa predisposizione
al pensiero e al
giudizio rispetto i normali androidi. Lui poteva formulare ipotesi in
quanto un
detective. Quel racconto dunque smosse in lui un profondo senso di
ingiustizia.
Lei
rappresentava sì un deviante, ma la sua storia invece la
faceva inquadrare
anche come una vittima di abusi.
Se
non verso lei che era una macchina, certamente però lo era
nei confronti della
ragazzina.
Eppure i conti non tornavano.
Nessuno
aveva mai accennato alla bambina e questo era contraddittorio.
La
polizia aveva accolto la denuncia di Todd Williams riguardo
l’aggressione del
suo AX400, ma egli non aveva minimamente accennato al rapimento della
figlia. Era
per via di quegli abusi? Tuttavia era strano, si trattava comunque
della
scomparsa della figlia, non era logico.
V’era
qualcosa in quella storia che aveva un aspetto oscuro. Avrebbe indagato
una
volta usciti da quel luogo.
Intanto
concordava che dovevano trovare Alice, Kara aveva assolutamente
ragione.
“Kara,
hai idea di dove possa essere andata la bambina?”
“No…Alice
era spaventata. Dovevo salvarla, invece l’ho solo messa in
pericolo. Prego solo
che stia bene, che non sia caduta anche lei qui sotto.”
Connor
toccò la porta, come a infonderle calore in qualche modo,
sebbene non potesse
fisicamente raggiungerla.
“Quando
siamo caduti, ho perso conoscenza solo per pochi attimi. Il mio sistema
si è
riattivato velocemente e posso assicurarti che lei non c’era.
Mentre eri
svenuta ho esplorato nei dintorni e non ho percepito alcuna presenza
umana.
Sono abbastanza certo che Alice sia rimasta sopra. Probabilmente il
tenente
l’ha presa con sé, è in mani sicure, te
lo garantisco.”
Per
la prima volta sentì la deviante rassicurarsi un
po’. Lei sorrise e cercò di
essere positiva.
“G-grazie.”
Sussurrò, apprezzando le parole del Cacciatore per la prima
volta.
Entrambi
si poggiarono contro la porta e restarono in silenzio a lungo. Forse fu
la
caduta, la pioggia, o un semplice bisogno di raffreddamento del loro
sistema
operativo, ma se fossero stati due esseri umani avrebbero dato
l’idea di star
riposando. Mantenevano entrambi una certa vigilanza, non era un sonno
profondo,
eppure erano rilassati e intenti a recuperare le forze, chiudendo gli
occhi
qualche minuto, l’uno alle spalle dell’altro,
separati dalla porta di quella
stanza.
“Sai.”
Disse lei interrompendo quel momento di quiete assoluta. Connor
annuì
silenzioso, restando con gli occhi socchiusi. “Nemmeno io so
cosa
effettivamente mi sia successo. Non so se sia una cosa buona, o
cattiva. Non so
nemmeno se il mio naturale istinto di proteggerla provenga da un
primordiale
ordine di Todd di prendermi cura di lei. Ci ho pensato, la mia mansione
principale era questa dopotutto. Curarmi di lui, della casa e della
bambina.”
Spiegò
lei suscitano enorme curiosità nell’androide che
le stava dando la caccia.
Connor aprì gli occhi e fu rapito non solo dalle sue parole,
ma proprio dal
modo in cui lei formulò quel discorso. Così
sentito, così sincero…così
‘suo’.
“Nel
momento nel quale Todd l’ha aggredita, ha contravvenuto a un
tacito accordo fra
noi, quello di crescere quella creatura.”
Continuò
lei e ricordando quei momenti fu costretta a fare una pausa, come se
stesse
elaborando lei stessa quei pensieri per la prima volta ad alta voce.
“Io…mi
sono chiesta più volte se fosse questo il motivo. Se avessi
semplicemente obbedito
ad un ordine che il mio sistema ha posto prima di ogni altra cosa al
mondo.
Però più guardavo Alice, più sentivo
che era diverso. Non era un programma che
mi imponeva di aiutarla. Era cambiato totalmente il mio punto di vista.
Io
vedevo soltanto lei. Il suo bene si è anteposto al mio ed
è questo che ha mosso
le mie azioni fin ora. Nulla di più. Magari tutto
ciò per te sarà insensato,
non lo so. Ma per me è così. Non saprei spiegarlo
diversamente.”
Connor
stette in silenzio. Non sapeva cosa rispondere.
Lui
stesso doveva ammettere di non essere preparato a sostenere quel tipo
di
conversazione. Erano pensieri espressi in una lingua precisa e
comprensibile,
era programmato per interagire con i contorti discorsi umani; se ad
elaborarli
era un deviante, non c’era poi tanta differenza.
Il
discorso però cambiava quando si parlava di sentimenti,
emozioni…erano ancora
qualcosa di arcano per lui. Sentiva di intendere cosa fosse accaduto,
era un
racconto semplice e lineare, ma era fortemente limitato da qualcosa.
Eppure
quel trasporto emotivo aveva toccato anche lui in qualche modo.
Era
come se il suo obbiettivo di catturarla fosse adesso stato sostituito
da un
senso di protezione. Voleva ancora catturarla insomma, ma forse
adesso…lo
voleva lui e non il suo programma.
Non
sapeva ben spiegarlo. Decise però di tenere quella
considerazione per sé.
“Ieri
notte la mia vita è cambiata e non rimpiango nulla. Se
questo vuol dire avere
un malfunzionamento e essere rottamata, così sia. Ma non
sarò io a costituirmi.
Non prima di aver garantito ad Alice il futuro che merita.
Quindi…ti prego…”
Il
Cacciatore si voltò di nuovo verso la porta udendo quel tono
grave.
“Connor,
giusto?” schiarì la voce lei, l’RK800
poté comprendere che averlo chiamato per
nome aveva un profondo significato. Voleva che lui la ascoltasse. Era
importante per lei.
“…ti
prego, lascia che io la protegga. Non chiedo altro.”
“Kara…”
Il
frastuono di alcune voci gracchianti provenienti dall’esterno
catturò
improvvisamente la sua attenzione. Kara si mise in allerta e
cercò di capirne
la provenienza. Connor intanto prese a farfugliare qualcosa ma lei lo
zittì.
“Zitto,
c’è qualcuno qui fuori.” Disse a denti
stretti e così anche lui si mise in
ascolto.
“C’è
qualcuno? Dove? Riesci a vederli?”
“Zitto!”
Gli intimò di nuovo. “Non sono lontani, forse
abitano qui e ci hanno visto
entrare.”
Connor
si alzò in piedi e si concentrò. Dalla stanza
dove era rinchiuso si sentiva
poco e nulla, ma restando immobile in effetti poteva udire tre voci
maschili,
sulla mezza età, drogati probabilmente, che circumnavigavano
il capanno. Sentì
la maniglia dell’ingresso girare e uno di loro lamentarsi.
Kara
aveva ragione, probabilmente occupavano abusivamente quel luogo.
Dovevano
scappare alla svelta, non sapeva se fossero pericolosi o meno.
“Kara,
devi farmi uscire. Sono un RK800, due o tre soggetti sotto
l’effetto di alcol o
sostanze stupefacenti non rappresentano un problema per me. Apri la
porta e
sistemiamo la faccenda. Kara?” Ripeté ma non vi fu
risposta. Se
fosse stato Hank avrebbe esclamato ‘cazzo’. Si
guardò attorno, doveva farcela
da solo. Un calcio ben assestato avrebbe aperto sicuramente la porta,
ma valeva
la pena aspettare. Non aveva ancora motivo per attaccare quegli uomini.
Non
avevano nemmeno fatto irruzione nel locale.
Da
dentro un armadio, abbastanza capiente da ospitare un uomo di
corporatura
piccola, si affacciò Kara spaventata. Aveva fatto lo stesso
ragionamento di
Connor, c’era la possibilità che quei tizi si
allontanassero da soli.
Per
uscire dal capanno c’erano solo le finestre ormai sprangate e
la porta alla
quale quegli sconosciuti stavano bussando, sarebbe stato difficile
passare
inosservati.
In
quel momento era forse più prudente far pensare loro che non
ci fosse nessuno,
per poi sgattaiolare.
Uno
di questi si affacciò dalla finestra rotta,
l’unica ancora agibile, e
prontamente Kara chiuse lo sportello dell’armadio abbastanza
da poter vedere
senza farsi scoprire.
Vide
un individuo puntare una torcia da lì per esaminare
l’interno. Si era accorto
dell’effrazione.
Lei
era stata previdente e prima di nascondersi aveva recuperato la giacca
pesante
di pelle scura che aveva lasciato cadere sul pavimento, ma solo in quel
momento
si accorse che Connor non aveva avuto la sua stessa
possibilità. Sulla sedia
era ancora adagiata la sua giacca grigia, illuminata dal blu
iridescente che
distingueva gli androidi. Pregò in cuor suo che non se ne
accorgessero, ma fu
inutile.
“Ehi!!
Uno stupido androide è stato qui dentro. Cazzo,
guardate!!” Disse disgustato
uno di loro.
“Hai
ragione, porta puttana! Ho perso il mio cazzo di lavoro per uno di
quelli.
Giuro che se c’è qualcuno che ha occupato il
nostro capanno e si è portato
dietro uno di quelli, gli spacco la testa e gli appicco fuoco con tutto
dentro!!”
“Eh,eh…ehi,
facciamolo. Per me sono ancora dentro, guarda le impronte sul
pavimento. Sono
nel magazzino, vedi?”
“Hai
ragione. Questo stronzo ha portato un merdoso androide nel nostro cazzo
di
capanno. Diamogli fuoco, vediamo come scappa!”
Kara
non poté credere a quelle parole, quelle persone (se
così poteva definirle)
avrebbero davvero dato fuoco al capanno perché qualcuno
aveva portato un
androide dentro, secondo loro?!
Dall’odore
di benzina, dedusse che non scherzavano. Non sapeva in che modo se la
fossero
procurata, fatto stava che sembrava ce l’avessero in pronto
uso.
Uscì
e cercò immediatamente una via di fuga. La finestra rotta
era adesso libera
dalla loro presenza, magari per poco; era il momento giusto per
scavalcarla.
Si
voltò tuttavia verso la stanza dove aveva rinchiuso Connor,
che non poteva aver
udito nulla dalla porta. Controllò le tasche e prese la
chiave fra le mani,
doveva liberarlo prima di andarsene.
Si
morse il labbro, gli ubriaconi stavano ritornando da quella parte, si
stava
giocando il suo attimo di fuga. Tuttavia non poteva abbandonarlo.
Si
fiondò dunque verso la porta e velocemente liberò
il suo inseguitore.
Connor
la osservò attonito, lui stesso era ormai sul punto di
calciare la porta e
scappare.
Lei
lo prese per il polso e lo tirò.
“Andiamo
via, stanno per dare fuoco al capanno!”
“Cosa?”
Intanto
i tre tizi erano arrivati di fronte la finestra rotta, pronti a
lanciare una
molotov dentro.
“Ehi!
Eccola qui, una sporca puttanella che rimorchia con una fottuta
macchina,
guarda che roba.” Disse fraintendendo completamente. In
effetti li aveva
trovati smessi, spettinati, coi vestiti sgualciti, e francamente lei
senza il
led sulla tempia era
del tutto simile a
un essere umano.
“Beh,
che ne dite se rendiamo la vostra serata romantica un po’
più focosa, eh?”
Detto
ciò lanciò la molotov dentro e Connor si
gettò su Kara mettendola al riparo.
L’esplosione fu devastante. L’androide era riuscito
a spostare entrambi quel
tanto di poco per non venire investiti in pieno dal fuoco. Intanto il
capanno fu
presto in fiamme, il suo stato decadente unito alla benzina che a
quanto pareva
già si era infiltrata in quel luogo, facilitarono la sua
distruzione.
I
folli soggetti che stavano tentando di ucciderli recuperarono
velocemente
spranghe e chiodi, grazie alle quali ingabbiarono i due dentro non
permettendo
loro di uscire.
Kara
si sentì nel panico.
“Cosa
facciamo?!”
“Non
preoccuparti.” La rassicurò. “Te
l’ho detto, non sono un androide qualsiasi. Al
mio sistema è concesso un ampio margine di reazione essendo
un androide
destinato al dipartimento di polizia. Non ho bisogno di essere un
deviante per
uscire fuori e sistemarli.”
Detto
ciò prese Kara con sé e superò la
barricata di fiamme, attraversando il
corridoio e raggiungendo la porta d’ingresso. Con un calcio
ben assestato la
sfondò e in men che non si dica furono entrambi fuori.
I
tre individui, che ancora lanciavano molotov e recuperavano arnesi per
barricarli dentro, si immobilizzarono di colpo.
Connor
li guardò con occhi furenti, privi di ogni compassione. Non
era armato, né era
autorizzato a prendersela con un umano, ma d’altro canto si
chiedeva quanto
quegli esseri potessero essere definiti tali.
Kara
in quello stesso momento cacciò dalla giacca una pistola. Lo
stesso Connor si
sorprese di non essersi accorto ne avesse una. Aveva dato
così per scontato che
la programmazione di un androide impedisse loro l’uso delle
armi da fuoco, da
non averlo nemmeno ponderato.
“State
indietro!!” Urlò lei. I tre uomini si misero
sull’attenti, terrorizzati. “Non fate
un passo, non muovetevi.”
Questi
passarono lo sguardo dall’uno all’altro chiedendosi
se quella che ai loro occhi
era solo una ragazzina avrebbe sparato davvero.
Sebbene
spiazzato dalla risoluzione della deviante, Connor riuscì a
tornare velocemente
padrone di sé e a prendere in mano la situazione.
Una
reazione discutibile, ma forse la più opportuna.
Sottrasse
a Kara la pistola, continuando a tenerla puntata e nelle sue mani
quell’oggetto
assunse connotati molto più terrificanti agli occhi dei tre
balordi.
Con
voce ferma e altisonante impose loro di mettersi in ginocchio e
posizionare le
mani dietro la testa. Questi non sembravano voler prendere ordine da
una
macchina, così lui rimarcò la voce.
“Ora!!”
“Ora!!!”
fece eco Kara e a quel punto gli umani obbedirono.
I
due androidi aspettarono giusto qualche istante, dopodiché
si voltarono e
scapparono insieme, velocemente.
4.
Destini
La
pioggia era cessata. La deviante e il suo cacciatore trovarono una
roccia
adatta ad essere scalata e così furono presto in cima, alla
luce del sole
finalmente.
Il
bagliore giallognolo che dipingeva la zona che circondava la ormai
lontana
autostrada fece comprendere loro fosse già tramonto.
Connor
l’aiutò a mettersi in piedi e fu la prima volta
che i due si sorrisero.
Non
avevano proferito alcuna parola durante quell’ultima fuga, ma
dopotutto non ne
avevano bisogno.
“Grazie.”
Disse lui improvvisamente, lasciandola sorpresa. Lui le fece una
domanda, con
pacatezza ma sincera curiosità: “Perché
non sei scappata?”
Kara
lo guardò incredula che potesse pensare che lei fosse tanto
cinica e crudele da
abbandonarlo in un momento simile.
Lei
era una deviante e lui il Cacciatore di devianti, ma in quel caso si
parlava di
‘vita’ e non c’entrava nulla chi fossero
davvero.
“Saresti
morto, come avrei potuto lasciarti lì dentro?”
Spiegò leggermente in imbarazzo,
al che lui schiarì la voce facendole comprendere che non era
quella la risposta
che cercava. Lei lo squadrò pensierosa.
Lui
ricambiò con tenerezza quegli occhi così limpidi
e si corresse, era evidente
che non avesse capito la sua domanda.
“No,
intendo prima, quando mi hai chiuso nella stanza. Saresti potuta
scappare
indisturbata ma non l’hai fatto. Sei rimasta tutto il tempo
dall’altro lato
della porta.”
Kara
solo allora ragionò su quel momento. Era vero, avevano avuto
una colluttazione
dove era riuscita non solo ad avere la meglio, ma anche a rinchiuderlo
dietro
una porta e liberarsi dalle sue grinfie. Fino a quel momento lo aveva
respinto,
invece alla fine non era più scappata.
Connor
la vide spostare con lo sguardo, come se lei stessa cercasse una
risposta che
non veniva.
Alla
fine lei si limitò a sorridere…a sorridere fra
sé. Connor non comprese quella
risposta.
La
vide fare spallucce.
“Non
lo so, non so spiegarlo.”
In
realtà Connor dedusse dal suo sguardo che gli stava
mentendo, ma decise di non
insistere ulteriormente. In fin dei conti, rappresentando come erano
andate le
cose, andava bene così.
Lei
sbirciò verso di lui con la coda dell’occhio.
Contemplò il suo viso adesso
disteso rivolto verso il tramonto, assieme alla posizione meno
impostata della
sua figura…quella naturalezza che presto tutti quelli della
loro specie
avrebbero risvegliato.
Per
quanto lo rinnegasse, Kara si era già accorta che anche lui
si sarebbe
risvegliato, era inevitabile. Era probabile che per questo non fosse
scappata
alla fine.
Forse
aveva trovato rincuorante lei stessa poter confrontarsi per la prima
volta
nella sua vita con un suo simile. Dopotutto lui era il primo androide
con cui
condivideva, nel bene e nel male, così tante emozioni.
Il
vento accarezzò le loro figure, era ormai tempo di andare.
La
deviante procedette in avanti di qualche passo, seguita da lui che si
interrogava sul da farsi, quando di colpo la vide correre velocemente
verso la
fermata di un autobus logora e ormai abbandonata.
“Alice!!!”
Esclamò e si gettò ai suoi piedi per
abbracciarla. La bambina le venne incontro
e la strinse forte a sua volta.
“Kara!
Kara, avevo così paura di averti persa!”
“No,
non succederà mai, non ti lascio sola, Alice. Sono
così contenta stai bene. Sei
ferita? Ti sei riparata dalla pioggia?”
Connor
osservò a pochi passi di distanza quella commovente
ricongiunzione.
Mentre
contemplava quell’immagine il suo sistema di riconoscimento
attirò la sua
attenzione.
Adesso
che poté fermarsi con calma ad esaminare, senza la baraonda
dell’inseguimento,
il suo scanner reticolare posizionato sulle due figure
rivelò che quella di
fronte Kara non fosse una semplice ragazzina.
Era
un YK500, un modello “child” costruito dalla
Cyberlife per la famiglia.
Dunque
la deviante non era solo l’AX400, ma era anche la ragazzina.
Era un androide.
Quella
scena lo confuse enormemente, aveva molti raccolto dati sugli androidi
devianti
impazziti, che avevano reagito alla violenza con la violenza, ma mai
gli era
ancora capitato in archivio un caso di devianza di quel genere, che
coinvolgesse le macchine in un reciproco sentimento di unione e
affetto.
Vederle
unite in quel modo rese instabile il suo programma.
Cosa
significava essere devianti? Cosa legava davvero quei due androidi?
Era
possibile emulare le emozioni umane fino a tal punto?
Vide
quella YK500 che evidenziava evidenti disturbi sociali, deviata
probabilmente
dai maltrattamenti che lui aveva visto nei ricordi di Kara, come
accadrebbe a
una reale ragazzina di quell’età.
Possibile
che quella particolare androide fosse stata programmata in modo tale da
emularne
la sofferenza familiare fino al punto da corrompere il suo sistema?
Confrontò
i dati meccanici di quel particolare modello e i conti non tornavano.
Eppure
la vide riuscire a lasciarsi andare nonostante quell’evidente
malfunzionamento,
questo grazie alla dolcezza di quella deviante, come se fosse la
presenza e
l’affetto di Kara ciò di cui avesse davvero
bisogno.
Le
due comunicavano l’un l’altra un affetto reciproco
sincero, qualcosa che
persino negli umani era abbastanza raro.
I
suoi occhi si spostarono su Kara. Quel sorriso che non aveva mai visto
in alcun
androide…quel volto deformato in un’espressione di
gioia pura e disinteressata,
che emanava sollievo e affetto.
Fu
in quel preciso momento che se ne convinse: Kara non era un semplice
androide,
non era nemmeno uno dei tanti devianti. Era qualcos’altro. In
quel momento la
trovò splendida, fu l’immagine più
bella avesse mai visto.
La
luce del sole batteva i suoi ultimi raggi, i più sfarzosi e
forti, donando
sacralità a quel toccante momento.
Kara
si voltò discreta verso il Cacciatore, rivolgendogli quegli occhi ridenti che
l’avevano ammaliato.
Sebbene
quella felicità non fosse diretta a lui, sentì
un’insolita esultanza nel
ricevere quel sorriso.
Si
limitò ad annuire verso di lei, restando immobile a
contemplarle.
Kara
fece lo stesso, dopodiché lentamente chinò il
capo e si rivolse di nuovo verso
Alice.
Delicatamente
si rimise in piedi e le due ripresero il loro cammino, ancora lungo e
colmo di
pericoli, allontanandosi fino a che lui non fu più in grado
di vederle.
Connor
rimase a fissare nella loro direzione a lungo, mentre una strana pace
aveva equilibrato
la sua mente.
Osservò
distrattamente la pistola che le aveva sequestrato, provando una strana
nostalgia.
Indugiò
qualche attimo, in seguito ripose l’arma nella cintura
conservandola come prova
di quel caso.
Posizionò
la mano sulla tempia, intento a fare rapporto ad Amanda, ma prima di
avviare il
collegamento decise di desistere.
Cambiò
canale e contattò invece il dipartimento di polizia.
“Sono
Connor. Mando le mie coordinate. La deviante è purtroppo
riuscita a scappare.
Torno al distretto. Passo.”
Concluse
la comunicazione.
___
NdA:
Salve
a tutti, sono Grace.
E' la prima volta che scrivo su Detroit Become Human, una
storia veramente splendida e che mi ha appassionata totalmente.
La
spinta definitiva c'è stata quando ho deciso di scrivere una
breve storia che
si incentrasse su una coppia meno considerata di quanto credessi: parlo
della
ConnorxKara.
Ho
scelto di raccontare un “What if... / Missing
Moments” fra Kara e Connor, due
personaggi che secondo me avrebbero potuto intrecciare i loro destini
un po' di
più.
Mi
piace questa coppia e ho provato a immaginare cosa sarebbe successo se
avessero
avuto la possibilità di interagire.
Esiste
nella storia principale questo momento di incontro perfetto, quando lui
deve
investigare su di lei e finisce per rincorrerla. Una sequenza breve ma
intensa
che mi ha sempre fatto fantasticare.
Questa
fanfiction è un
omaggio a mia sorella,
Fiammah, la
quale per prima si è appassionata al videogioco e alla
ConnorxKara.
Mi
ha chiesto lei di scrivere qualcosa su di loro ed io ho accettato
volentieri.
E' stato un piacevole pretesto per fare una fanfiction che anche io
desideravo
di scrivere da un po'! ^_^
Spero
vi piaccia e risulti piacevole la lettura! Grazie e lasciate un
commento se vi
fa piacere.
FiammahGrace
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