Futuro incerto
Le
fotografie relative al ballo avevano scatenato in John sia rabbia, per
il comportamento di Wilkins, sia ricordi divertenti e rimpianti.
Malgrado Paul non avesse mai rimproverato al figlio di avere rovinato
il ballo né gli avesse mai rinfacciato di non avervi
partecipato, anzi avesse compreso e approvato il suo comportamento,
John non poteva non pensare che il papà fosse dispiaciuto per
non avere mantenuto la promessa fatta alla madre.
Una leggera folata di vento
scostò la tenda bianca, facendole accarezzare il volto stanco di
John, che alzò lo sguardo e lo fissò sul marito, sempre
intento a lavorare sulle arnie. Sherlock era capace di trascorrere ore
a prendersi cura delle sue api. Era una cosa che lo rilassava e che gli
permetteva di allontanare la mente dal pensiero dell’imminente
morte del marito. John provò una fitta al cuore. Avrebbe dato
qualsiasi cosa per evitare a Sherlock il dolore per la sua dipartita,
ma era già stato tutto scritto nel libro del destino. Sapevano
quanto tempo fosse rimasto a John da vivere dal giorno della nascita di
Rosie. Nessuno poteva fare qualcosa per cambiare il futuro
dell’Omega. John non aveva rimpianti. Aveva vissuto una vita
piena e appagante. Non avrebbe cambiato nulla. Non tutti potevano
affermarlo con altrettanta sicurezza.
Il medico
sospirò e riprese a guardare
le fotografie dell’album. Lasciò passare quelle relative
alla fine della loro adolescenza, con i compagni delle superiori e i
primi passi nella vita indipendente. Dell’università e
dell’esercito. Si soffermò, invece, su un’immagine
che ritraeva John e Sherlock. Era la loro prima fotografia insieme ed
era la testimonianza del loro primo incontro ufficiale. Sia Sherlock
sia John erano seduti a una scrivania e stavano firmando
l’accordo matrimoniale.
Futuro incerto
Era dall’alba che una
pioggerella fastidiosa bagnava Londra, rendendola grigia e triste. Da
quando era stato congedato dall’esercito ed era tornato a vivere
nella capitale inglese, sembrava che il sole si fosse rifiutato di
scaldare la città adagiata sulle sponde del Tamigi. John Watson
era stato ferito a una spalla, quando la sua squadra era caduta in una
imboscata durante una missione di soccorso. Il medico Omega aveva
rischiato di morire, ma gli era andata bene. Meglio che a David
Harrods, morto per un colpo sparato da un cecchino, che lo aveva
raggiunto in piena fronte. Meglio che a Oscar Ballard, che era stato
colpito alla spina dorsale e che ora giaceva immobile su un letto
d’ospedale. Meglio che a Peter Orwell, che aveva perso una mano.
John non poteva lamentarsi. Era vivo. Nemmeno troppo danneggiato. I
suoi colleghi medici avevano stabilito che fosse in grado di procreare,
quindi poteva ancora trovare un Alfa che si accontentasse di sposare un
Omega claudicante e con una mano tremante, pur di avere una
discendenza. John sarebbe stato costretto a trasformarsi in quel tipo
di Omega debole e dipendente dal suo Alfa, che tanto aveva disprezzato
da ragazzo.
Sì.
John Watson era ancora vivo e poteva
lasciare ai posteri una propria discendenza. Non poteva lamentarsi,
perché altri non erano stati così fortunati. Però
John non si sentiva fortunato. John avrebbe preferito essere morto.
Il palazzo si trovava in una delle
zone più eleganti di Londra. Era antico, ma molto curato. Il
rinomato studio legale ne occupava il terzo e ultimo piano. Gli uffici
erano arredati in modo elegante e austero, ma i locali erano luminosi,
rendendo l’atmosfera meno opprimente. Una grande vetrata
permetteva di ammirare il Palazzo di Westmister, da cui
l’edificio non era molto distante. John e Richard erano seduti
nella sala d’attesa. Padre e figlio non si parlavano, ognuno dei
due immerso nei propri pensieri.
Richard Watson era diventato vedovo
molto giovane e si era risposato, come facevano molti Alfa, da sempre.
Aveva formato una nuova famiglia, con una Omega, da cui aveva avuto due
figli, due gemelli. John era entrato nell’esercito il giorno dopo
il secondo matrimonio del padre. Il giovane Omega sapeva che Richard
non poteva rimanere vincolato alla memoria del marito morto per il
resto della sua vita. Paul stesso non lo avrebbe mai voluto. John
aveva, però, compreso che la nuova compagna del padre si sentiva
in competizione con il fantasma del primo marito e che la sua presenza
non era particolarmente gradita. Geraldine Keller era una donna di
trentacinque anni, quando lei e Richard si erano sposati. Era
considerata una Omega vecchia, ma era già stata sposata, senza
avere generato figli. Dopo cinque anni di inutili tentativi, il primo
marito aveva preteso l’annullamento del matrimonio, accusando
l’Omega di essere sterile. Malgrado le analisi cliniche avessero
dimostrato che il marito si sbagliava, l’Alfa era riuscito a
ottenere ciò che voleva, sposando un’altra Omega dopo
pochi giorni dalla fine del primo matrimonio. Quando a Richard era
stata proposta l’unione con Geraldine, aveva accettato di
sposarla per rispettare la legge sulla procreazione. Non gli importava
avere altri figli. Gli sembrava giusto aiutare una Omega che era stata
denigrata e ripudiata da chi avrebbe dovuto prendersi cura di lei.
Geraldine e Richard erano legati da un sentimento di stima e rispetto
reciproci, ma nulla di paragonabile all’amore che l’Alfa
aveva provato per Paul.
Non volendo essere un perenne
memento del primo coniuge o della incapacità della donna di
avere figli, John aveva deciso di vivere la propria vita in modo
indipendente dalla nuova famiglia del padre. Era entrato
nell’esercito e partito per l’estero. Dopo alcuni mesi, il
secondo matrimonio di Richard era stato allietato dalla nascita dei
gemelli, Cole e Clara, entrambi Alfa. John aveva conosciuto i suoi
fratellastri e intratteneva cordiali rapporti con il padre e la sua
seconda famiglia, ma non li frequentava troppo, anche dopo il rientro
in patria. L’Omega aveva deciso di vivere in un alloggio gestito
dall’esercito, che ospitava i militari congedati, in attesa che
trovassero un compagno.
John era stato dimesso
dall’ospedale da circa un mese e stava facendo ancora terapia,
sia fisica sia psicologica, quando aveva ricevuto una lettera dal
prestigioso studio legale Shatner, Steward, Brooks & Soci in cui
era ufficialmente formulata una proposta di matrimonio. L’Omega
ne era rimasto molto sorpreso, perché non aveva ancora
presentato domanda per essere inserito nel programma di ricerca per un
compagno. Forse John avrebbe cestinato l’invito, ma in indirizzo
c’era anche il padre, che fu felicissimo di sapere che il figlio
aveva trovato qualcuno interessato a lui, malgrado non fosse il
più integro degli Omega.
Richard aveva insistito per essere
presente. Era pur sempre il padre di John e non avrebbe mai lasciato
solo il figlio ad affrontare un Alfa di cui non sapeva nulla. Voleva
essere sicuro che chiunque egli fosse, si prendesse buona cura del suo
primogenito e che fosse degno di lui.
John era stato costretto ad
accettare di sposare un Alfa perché era tutto ciò che
poteva fare, come Omega. L’unico modo che aveva per essere ancora
utile al suo paese, era mettere al mondo i figli di un perfetto
sconosciuto. John si era chiesto chi e come potesse essere il suo
futuro marito. Se si era rivolto a uno studio legale, doveva essere
stato costretto al matrimonio quanto lui. La legge prevedeva che,
arrivati ai ventisette anni senza avere trovato un compagno e/o avere
generato almeno un erede, Alfa e Omega fossero costretti a contrarre
matrimonio. La specie doveva essere salvaguardata, a qualsiasi costo.
Esistevano agenzie e studi legali che si occupavano di accoppiare
questi Alfa e Omega solitari. Poteva capitare che questi matrimoni si
risolvessero in unioni felici. Era meno raro di quanto si pensasse.
Geraldine e Richard ne erano una prova. Bisognava essere fortunati,
certo. John, però, negli ultimi tempi, non si sentiva molto
fortunato. Inoltre, un Alfa suo coetaneo che non avesse trovato un
Omega da giovane, doveva sicuramente avere qualche difetto. Di aspetto?
Di carattere? Di passato burrascoso? Non certo di soldi, stando allo
studio legale, che avrebbe curato il loro contratto matrimoniale.
Una voce tranquilla e melodiosa
distrasse John dai propri pensieri. Lo sguardo dell’Omega cadde
su due uomini, in piedi davanti alla scrivania della segretaria addetta
all’accoglienza dei clienti. Erano sicuramente due Alfa.
L’aspetto fisico e il linguaggio del corpo non potevano certo
essere fraintesi. Non in quei due uomini. Alti quasi uguali, potevano
avere una decina di anni di differenza. Il più vecchio dei due
aveva i capelli scuri, con riflessi rossicci e indossava un abito
grigio a tre pezzi di fattura sartoriale. Sembrava che si fosse vestito
pochi secondi prima di entrare nello studio legale, perché
l’abito non aveva una piega. La mano destra stringeva un ombrello
nero, in modo svogliato. Il più giovane era alto e molto magro.
Era avvolto in un lungo cappotto nero, con il bavero alzato, sopra a
pantaloni e giacca anche loro neri e una camicia bianca con i primi due
bottoni aperti. Aveva una massa di capelli ricci e neri indisciplinati.
Guardava il cellulare in modo irritato, quasi gli avesse fatto un
qualche affronto, e ignorava caparbiamente il resto del mondo, come se
lui non fosse stato lì.
“Mycroft e Sherlock Holmes.
Abbiamo un appuntamento con l’avvocato Steward,” aveva
detto il più vecchio.
La segretaria era un’Alfa di
mezza età, con capelli corti e neri, che stavano mostrando i
primi fili grigi, ed era vestita elegantemente, con un tailleur blu
scuro. Controllò lo schermo del computer e destinò
all’uomo un sorriso cordiale: “Certo, signor Holmes, si
accomodi pure,” rispose, indicando con la mano quale corridoio
dovessero prendere per andare all’ufficio desiderato. I due
uomini si avviarono verso la loro destinazione. L’ingresso
tornò a essere vuoto e silenzioso. Trascorsero pochi minuti e il
telefono della segretaria squillò: “Sì, avvocato
Steward? … Sì, sono già arrivati. … Li
faccio accomodare,” riferì, riattaccando. Si alzò
con un movimento aggraziato e si diresse verso i Watson. Sempre con un
sorriso cordiale sulle labbra, si rivolse direttamente a John:
“Dottor Watson? Si può accomodare. L’avvocato
Steward la sta aspettando. Il suo ufficio è il secondo a destra,
nel corridoio a destra.”
John si alzò, appoggiando il
peso sul bastone che usava per camminare, ricambiando il sorriso:
“Grazie.” Padre e figlio si avviarono verso l’ufficio
in cui li attendeva il futuro di John.
Angolo dell’autrice
Pronti al primo incontro fra Sherlock e John? Spero di sì, perché vi attende domenica prossima, sempre qui.
So che i capitoli possono sembrare
un po’ brevi, ma io non amo i capitoli troppo lunghi. Portate
pazienza, ma data la mia veneranda età, leggere a lungo su un
supporto elettronico mi crea sempre qualche problema.
Grazie a chi stia leggendo la serie
e i singoli racconti. Grazie a chi stia segnando in qualche categoria i
racconti di questa serie un po' anomala.
Grazie a emerenziano per il commento all'ultimo capitolo di "Primo contatto".
Se qualcuno volesse lasciare un commento, sarebbe sempre benvenuto.
Alla prossima settimana.
Ciao!
|