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UN ORRIBILE CAPPUCCINO
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Uno
“Quello
scatolone non va bene lì.
Mettilo là.”
Due
“Svuota
la lavastoviglie, visto
che non stai facendo niente.”
Tre
“Non
così. Te l’ho fatto vedere
tantissime volte! Quando imparerai?”
Quattro
“Spostati…”
Cinque
“Ma
cosa fai?”
Sei, sette e otto
“Bla,
bla, bla.”
Nove e dieci
Avevo
smesso di ascoltare da un
po’. Avevo sentito dire che se conti fino a dieci, ti passa
l’arrabbiatura. Chi
aveva detto questa stronzata? Non funzionava, non funzionava per niente.
“Vaffanculo!”
urlai slacciandomi
il grembiule e gettandolo sulla macchina del caffè, sopra a
tutte le tazzine
bianche, girate a testa in giù e con il manico rivolto verso
sinistra, così che
fosse più veloce prenderle mentre si montava la manopola con
il caffè macinato.
Avevo
imparato quelle istruzioni
prima ancora di imparare a parlare. I miei genitori avevano un bar, il
famosissimo ‘L’angolo
bar’ e io avevo
iniziato a passare lì i miei pomeriggi da quando avevo tre
mesi.
Cose
tipo il funzionamento della
macchina del caffè o come disporre i cilindri di caramelle
erano il pane con
cui ero cresciuto. Il vecchio ubriacone del tardo pomeriggio che sedeva
nell’angolo, la mamma con la figlia bionda che va a
ginnastica il giovedì,
l’impiegato che faceva colazione tutte le mattine alla stessa
ora ma il sabato più
tardi, tutti loro erano i miei amici.
Passare
da un lato all’altro del
bancone non mi era mai pesato, e quando ero più piccolo mi
piaceva aiutare, ma
poi… Poi, il diploma mai utilizzato, il ‘aiutaci
intanto che cerchi qualcos’altro’, e
l’altro ‘bhe, sei
fortunato ad avere comunque un posto, oggi non si trova lavoro
da nessuna parte’,
avevano ucciso
la mia voglia di cercare qualcosa altrove e mi ero accoccolato nel
lavoro più sicuro,
invece che cercare la mia
strada.
Così
mi ritrovavo a ventotto anni
a lavorare a stretto contatto con i miei e mio fratello Gabriele, io,
il
piccolo della famiglia, quello che veniva sempre per ultimo e a cui si
poteva criticare
tutto senza problemi perché ero quello che non sapeva fare
niente. Secondo
loro.
Lavorare con i proprio familiari provoca
più stress che un lavoro con
estranei.
Le
parole della psicologa mi
tornarono in mente. Oh. Grazie al cazzo. Davvero avevo bisogno di
pagare
settantacinque euro all’ora per sentirmi dire cose che sapevo
già?
Affondai
le mani nelle tasche
della felpa appena passai la porta d’ingresso del bar. Di
solito non bisticciavamo
davanti alla clientela, ma quella volta non ci avevo visto
più. Dopo una
giornata uguale alle altre, ma diversa nel mio animo, mi precipitai nel
crepuscolo
della sera lungo la strada.
Camminai
per quella che mi sembrò
un’eternità, l’umidità mi si
era appiccicata addosso e iniziavo a essere
stanco, così mi incamminai verso casa, ossia verso L’angolo bar, visto che il
nostro appartamento era nello stesso
stabile. Pensarci in quel momento, sembrava una cosa triste. No,
cavolo, non
sembrava, lo era. Era una cosa triste. Quando pioveva e
d’inverno, quando c’era
molto freddo, passavo dalle cantine andando al lavoro per non dover
neanche
uscire all’aperto. Era triste davvero.
Arrivato
davanti alla vetrina del
bar, notai subito la saracinesca giù e le luci spente.
Un’occhiata all’orologio
mi disse che erano le dieci passate. Guardai in alto, verso le finestre
di casa
mia. In cucina le luci erano accese e dei movimenti si percepivano
oltre le
tende. Quando vidi un’ombra avvicinarsi ai vetri, mi nascosi
contro il muro.
Non volevo che mi vedessero. Non volevo ancora tornare in casa. Non mi
sentivo
pronto.
Il
trillo di una notifica sul
cellulare, mi fece tirar fuori il telefono dalla tasca e lo osservai:
era un
messaggio di mia madre, in cui mi chiedeva dove fossi finito. Sbuffai.
Se non
ero pronto a entrare in casa, non lo ero neanche per parlar con loro.
Mi sentivo
esausto. Non per la camminata e non era stanchezza fisica, ero stanco
dentro.
Mi sentivo stanco e vuoto, come se vivessi con un grosso peso
opprimente sulle
spalle. Chissà, forse era proprio così.
Mi
frugai in tasca e trovai le
chiavi dell’auto. Le rigirai fra le mani un po’ di
volte, prima di prendere la
decisione, poi non mi guardai più indietro. Spensi il
telefono prima di entrare
in macchina e accesi il motore, pompando il riscaldamento al massimo.
Rimasi
qualche minuto a godermi quel tepore e poi lo spensi. Era primavera
inoltrata
alla fin fine, non ce n’era bisogno, era solo
l’umidità che mi si era impressa
addosso che mi faceva sentire freddo. Lì in macchina non
c’era bisogno di
altro. Solo un po’ di riparo.
Cercai
di distrarmi guardando
quello che avevo in giro: sotto il tappetino c’erano un
volantino pubblicitario
e tre scontrini, sul sedile dietro, una vecchia giacca invernale, con
cui mi
coprii nonostante il clima mite e svariate carte, un libro e un
pacchetto di
fazzoletti nel cruscotto.
Guardai
ancora verso la finestra:
la luce in cucina era ancora accesa. Decisi di aspettare che andassero
tutti a
letto e poi sarei salito in casa. Passò mezz’ora e
neanche mi accorsi quando mi
si chiusero gli occhi e mi addormentai.
Fui
svegliato dal camion della raccolta
dei rifiuti che mi passò accanto e fece dondolare
l’auto da tanto andava forte.
Mi guardai intorno ancora un po’ imbambolato: c’era
poca luce, quindi immaginai
che fossero le cinque, massimo cinque e mezzo del mattino. Girai la
chiave e
illuminai il quadro. L’orologio digitale segnava le 05.17.
Guardai verso il
bar, che era ancora chiuso visto che aprivamo alle cinque e mezzo. Mi
sporsi
per guardare verso l’appartamento dei miei e vidi ancora la
luce in cucina.
Qualcuno si stava preparando per venire ad aprire il bar. Non so chi
fosse,
visto che quel giorno avrei dovuto aprire io.
Misi
in moto e feci partire
l’auto lungo la strada. Non volevo incontrare nessuno.
Nessuno dei miei.
Girovagai un po’ in cerca di, ironia della sorte, un bar
aperto a quell’ora, ma
non ne incontrai finché non finii dall’altra parte
della città.
Il
Piccolo bar sembrava un miraggio e
io avevo urgenza di andare in
bagno e anche lavarmi la faccia non mi sarebbe dispiaciuto troppo,
così non ci
pensai su due volte e parcheggiai. Chiusi la macchina e poi, a grandi
falcate,
attraversai la strada per raggiungere l’ingresso.
Quando
entrai, fui stupito subito
dalla musica: la radio in sottofondo era accesa, ma non proprio in
sottofondo,
anzi, il volume era piuttosto alto. Mia madre avrebbe avuto da ridire
se io
avessi alzato la radio così tanto. Scrollai le spalle e mi
avvicinai al
bancone.
Una
ragazza mora stava
trafficando con la macchina del caffè. Borbottava qualcosa
mentre, concentrata,
cercava di incastrare nel modo giusto la manopola con il
caffè macinato. Non mi
aveva visto, era chinata e io riuscivo a vederle appena le spalle e il
collo,
su cui si notava il disegno di un tatuaggio, lasciato scoperto dai
capelli.
Sentii nella mia mente mio padre dichiarare che la porta andava sempre
tenuta
d’occhio.
Tossii
per annunciare la mia
presenza e lei si tirò su di colpo, spaventata.
“Oh, ciao” disse, mentre i
capelli le svolazzavano intorno al viso. Velocemente la inquadrai e
feci
scorrere lo sguardo fino al limite che mi consentiva il bancone:
indossava una
canottiera nera con una scollatura profonda e un golfino con delle
frange sui
lati, lasciato aperto. Al collo aveva un laccio da cui pendeva un
ciondolo
grosso quando un’arancia che le si era posato fra i seni.
Sorrise un po’
imbarazzata e, con ancora la manopola del caffè in mano, mi
chiese cosa volessi
ordinare.
Sentii
di nuovo i pensieri dei
miei suggerirmi che quello non era l’abbigliamento adatto per
stare dietro al
bancone e che una ragazza non dovrebbe stare sola a quell’ora
nel locale. Il
mio basso ventre, invece, mi fece immaginare mio fratello Gabriele che
faceva
apprezzamenti, da me condivisi, sulla ragazza.
No,
non dovevo pensarci. Mica ero
come lui. Però lei era veramente carina. La vidi mordersi il
labbro inferiore
e, per un attimo, ebbi la visione di un me stesso molto più
audace, che saltava
al di là del bancone e la stringeva fra le braccia.
Oddio.
Non ero mio fratello. E
non mi comportavo come lui. “Un cappuccino, per favore. Il
bagno?” chiesi
quindi. Lei mi indicò una porta e tornò a
guardare la macchina del caffè. Di
sicuro non correvo il rischio di tornare dal bagno e di dovermi bere un
cappuccino freddo, di quel passo.
Quando
tornai dal bagno, infatti,
lei non era ancora riuscita a fare il caffè. Sbuffai
mentalmente. Ma cosa ci
faceva lì se non era neanche capace di fare il
caffè? ‘Mettono spesso
delle ragazze molto carine ma incapaci per accalappiare
più clienti. Ma noi preferiamo un altro tipo di clientela,
no?’ Le parole
di mia madre riecheggiano nella mia mente. Per fortuna il bagno era
pulito e
tutto ciò che doveva essere al suo posto, lo era,
così, almeno su quello, non
mi venne in mente nessun altro dei rimproveri dei miei genitori.
Quando
lei mi sorrise passandomi
la tazza, neanche notai il liquido al suo interno, da tanto la stavo
osservando.
Cavolo, dovevo darmi una regolata. Non volevo essere un cliente di
quelli che
intendeva mia madre. Così mi allungai a prendere una bustina
di zucchero e la
versai direttamente nel mio cappuccino. Quando lo mescolai, lo osservai
meglio:
era poco più di un caffellatte. Dov’era la
schiuma? Mmm non andava molto bene.
Io adoravo la schiuma e il cappuccino doveva essere bollente. Me lo
preparavo
da solo e ci riuscivo alla perfezione, pensai, bevendo quella brodaglia
tiepida.
“Mi
dai anche un cornetto con la
marmellata per cortesia?” chiesi ancora. Sicuramente avrebbe
alzato il voto di
quella mia colazione infelice.
La
ragazza, scrutò all’interno
dell’espositore delle brioches e si morse di nuovo il labbro.
Oddio, qual era
il problema? Prese un tovagliolo e con la mano prese un cornetto.
Sapevo che
non era alla marmellata. Erano le stesse brioches che avevamo noi al
bar.
Quelle con sopra lo zucchero a velo erano con la crema, quelle con il
cacao in
polvere alla crema di cioccolato e quelle con la granella di zucchero
con la
marmellata.
Quando
me la passò in mano,
sospirai lentamente. Non si faceva così. Oddio quella
ragazza aveva mai
lavorato in un bar? Per un attimo pensai di contestare ad alta voce il
fatto
che non l’avesse appoggiato su un piattino e che fosse un
cornetto con la crema
pasticcera invece che quella che avevo chiesto io, ma mi trattenni. Non
volevo
discutere e non avevo ancora un altro posto dove andare. Guardai
distrattamente
l’orologio mentre sbocconcellavo la mia colazione. Erano le
sei e un quarto.
Avrei dovuto aspettare almeno le sette prima di tornare verso casa.
Sarei
riuscito a sgattaiolare in casa senza farmi vedere. Cosa avrei fatto
dopo,
ancora non lo sapevo.
Decisi
di sedermi e aspettare,
così cercai il giornale per ammazzare il tempo.
Dov’era il quotidiano locale?
Non riuscivo a vederlo. “Scusa, dov’è la
gazzetta?” Lei strabuzzò gli occhi e
mormorò un’imprecazione: se l’era
scordato. La cosa non mi stupì più di tanto.
Sbuffai ancora. Ma dove ero capitato?
Questa ragazza, per quanto carina, non era assolutamente in grado di
gestire un
bar! Non mi resi conto di avere tutti quegli atteggiamenti che
criticavo ai
miei familiari. Guardai di nuovo l’orologio. Pagai e decisi
di andare ad
aspettare da un’altra parte.
Mentre
uscivo entrò un ragazzo
che salutò ad alta voce. Lo osservai con la coda
dell’occhio, doveva essere uno
di quei clienti a giudicare dal
tono
della sua voce. Ma poco prima di varcare l’uscio lo sentii
dire: “Oh, scusami,
pensavo di trovare Giorgio” Come? Mi girai con la mano sulla
maniglia della
porta e rimasi fermo ad ascoltare.
“Giorgio
ha avuto un’emergenza.
Oggi lo sostituisco io. Mi scuso già perché
è la prima volta che vengo dietro
al bancone” la ragazza sorrise al tipo che era entrato
esattamente come aveva
sorriso a me poco prima. Ehi, ma non poteva sorridere così a
tutti! E invece sì, idiota,
è così che funziona! Cercai
di non sentirmi ferito, ma ero così nervoso che non uscii e
ascoltai tutto il
discorso dei due.
La
sera prima c’era stato un
incidente per cui Giorgio e Ivan, i gestori del bar, ora si trovavano
in
ospedale. Il tale Giorgio si scoprì essere il fratello della
ragazza che mi
aveva fatto quell’orribile cappuccino. Ecco perché
era così incapace:
semplicemente non l’aveva mai fatto.
Sorrisi
senza un vero perché. Ero
soltanto contento che lei non fosse stata messa lì come
attrazione, come diceva
mia madre.
Quando
il ragazzo al bancone
provò a dirle qualcuna di quelle frasi che usava anche mio
fratello con le
clienti non ci vidi più e uscii in strada. Mi avviai nervoso
verso l’auto e
l’aprii, ma prima di aprire la portiera vidi
sull’altro marciapiede un’edicola.
Rimasi fermo con la mano sulla maniglia, indeciso su cosa fare. Mi
voltai verso
il bar e vidi, attraverso la vetrata, il ragazzo di prima appoggiato al
bancone
che chiacchierava con la ragazza. Cavolo non sapevo neanche come si
chiamasse
lei, ma sicuramente lui era riuscito a scoprirlo. Doveva essere uno di quei clienti.
Decisi
lì per lì. Volevo
smetterla di pensare come i miei familiari. Non mi piaceva come si
comportavano
con me, quindi non dovevo assolutamente comportarmi così io
con gli altri. Un
altro sguardo all’edicola e poi al bar e richiusi la macchina.
Quando
riattraversai la strada
per tornare dalla ragazza con sottobraccio la gazzetta dello sport e
quella
locale, vidi entrare un gruppetto di cinque persone nel bar. Cavolo!
Lei sarebbe
riuscita a fare il caffè e riconoscere le brioches? Allungai
il passo ed entrai
anch’io subito dopo di loro.
Il
ragazzo era ancora al bancone,
quando si avvicinò il gruppetto. Vidi l’ansia sul
viso della ragazza quando
ordinarono cinque cose diverse, ma lei fu molto brava a non darlo a
vedere.
Appoggiai i giornali su uno dei tavolini, mi sfilai la felpa per
posarla su una
delle sedie e mi avviai dietro al bancone.
“Cosa
fai?” sussurrò la ragazza
un po’ spaventata. “Ti aiuto. I miei hanno un
bar” dissi mentre mi lavavo le
mani e le asciugavo come se fossi stato lì tutti i giorni
della mia vita. “Non
c’è biso…” provò a
ribattere lei, ma poi entrarono altre tre persone e non mi
ostacolò più.
“Faccio
io i caffè. Prepara un
vassoio e tira fuori il succo e le brioches che hanno
chiesto” dettai gli
ordini, spiegandole come riconoscere le brioches. Lei rimase per un
attimo
interdetta, ma subito dopo si riprese e iniziò a fare quello
che le avevo
detto. Venti minuti dopo il bar si svuotò. Se
n’era andato anche il ragazzo di
prima. Eravamo soli.
Lei
mi sorrise e mi disse:
“Grazie, Luca” Mi bloccai a sentire il mio nome.
Non glielo avevo detto. “Come
fai a sapere il mio nome?” Ma il suo telefono
vibrò e lei rispose quando lesse
sul dispay il nome del fratello.
“Ciao
Giorgio” disse, guardandomi
e allontanandosi un po’ da me. Rise. “No, non ho
ancora dato fuoco al bar. Ma
se me lo chiedi ancora una volta inizio a farci un pensierino. Come
stai? Che
hanno detto? Oh, ancora niente? E Ivan?” Quando si
allontanò ancora di più, non
riuscii più a sentire.
Guardai
il bancone e mi sentii un
po’ fuori posto, così tornai dall’altra
parte e armeggiai con il giornale, ma
senza mai perderla d’occhio. Non volevo andarmene, dovevo
assolutamente
scoprire come faceva a sapere il mio nome.
“Grazie,
dicevo” disse quando
terminò la chiamata. Non sapevo come chiederle del nome,
così dissi la prima
cosa che mi passò per la testa: “Tuo fratello sta
bene?” Lei sorrise ancora e
scosse la testa “Non gli hanno detto ancora niente, ma ieri
quando l’ho visto,
non stava molto bene, né lui né Ivan”
Oh, cavolo. Annuii senza saper cosa da
dire.
“Come
sai il mio nome?” le chiesi
dopo svariati minuti di silenzio in cui lei era tornata dietro al
bancone. Lei
fece una smorfia “Non ti ricordi di me, vero?”
Come? Ci conoscevamo? Cavolo,
no, non mi ricordavo di lei. Possibile che non mi ricordassi? Mmm
dubito che mi
sarei scordato una ragazza così, magari mi aveva confuso con
un altro. Però lei
effettivamente conosceva il mio nome.
Non
risposi e lei abbassò lo
sguardo. Capii che era in imbarazzo quando mi avvicinai
perché aveva le guance
rosse. “Prendevamo l’autobus insieme quando
andavamo a scuola” mi spiegò.
Davvero? La mia faccia doveva essere incredula, perché lei
continuò: “Io
frequentavo l’Istituto d’Arte vicino alla tua
scuola. Ero due anni dietro di te,
abbiamo preso lo stesso autobus per due anni…”
Merda. L’istituto d’arte era effettivamente
vicino alla scuola che frequentavo io, ma di lei… niente.
Cercai di ricordarmi
l’autobus, ma a quei tempi ero sempre con Tiziano, il mio
miglior amico e non è
che ci guardassimo tanto intorno. Cavolo, avremmo dovuto, pensai
guardandola.
“Mi
dispiace” dissi. Ed era la
verità. Mi dispiaceva davvero non averla notata. Lei scosse
le spalle e sorrise
ancora. Oddio. E ora?
“Non
preoccuparti” Alzò una
spalla come se fosse abituata a cose del genere e io fui ancora
più
dispiaciuto. “Potrei farmi perdonare” Lei
alzò un sopracciglio e io mi chiesi
ancora come avevo potuto essere così cieco “E
come?”
Sorrisi.
“Ti insegno a fare il
caffè!”
Lei
rise, non come prima al
telefono, rise quasi di gusto, dicendo: “Ho appena imparato a
fare il caffè.
Mostrami le altre cose, tipo come montare il latte. Ho visto come hai
guardato
il cappuccino, prima…” E arricciò il
naso, in un modo molto grazioso.
Nelle
ore successive insegnai a
Carlotta, così si chiamava, tutto quello che avevo imparato
nella mia infanzia.
Lei si rivelò una brava allieva tanto da riuscire a passare
indenne al pranzo,
dove il bar si riempì di impiegati e lavoratori. Verso le
tre, con il bar
vuoto, lei si sedette a uno dei tavolini e sospirò, stanca.
“Sei
stata brava” dissi,
posandole davanti un piattino con un toast.
“Oh,
grazie. Non so cosa avrei
fatto senza di te!” disse prima di dare un morso al panino.
Risi. Da quanto
tempo non mi divertivo così in un bar? Le avevo spiegato
come regolare la
rotella del vapore dell’acqua e come pulire facilmente la
manopola del caffè,
insieme a tantissime altre cose che neanche mi accorgevo di fare.
“Cosa
fai domani?” mi chiese.
Oddio, domani? Il suo telefono vibrò ancora e lei rispose
ancora. Quando capii
che parlava con il fratello e che aveva abbassato la voce, mi alzai e
andai
verso il tavolo su cui avevo lasciato la felpa. Feci finta di frugare
nelle
tasche e cercai di lasciarle un po’ di spazio.
Quando
la chiamata finì, il suo
viso era terreo. “Che è successo?”
chiedo, tornando vicino.
“Si
è fratturato la clavicola. E
Ivan si è rotto un braccio e una gamba” i suoi
occhi erano spalancati. “Ma…
stanno bene?” Lei annuì, ancora un po’
spaesata.
“Sì,
ma sembra che ne abbia per
almeno due mesi… E Ivan fa fatica a
muoversi…” si guardò intorno. Lo feci
anch’io. Chi si sarebbe occupato del bar? Se fosse rimasto
chiuso anche solo
per due mesi, avrebbero perso gran parte della clientela.
Mi
sedetti di fronte a lei e la
guardai. Non le chiesi niente, ma lei mi rispose lo stesso, continuando
a
guardare il bancone: “Mi ha chiesto di occuparmi del bar
finché non trovano
qualcun altro. Io potrei anche farlo, ma mi hai visto: non sono
capace…”
Le
girai il viso verso di me e
dissi: “I prossimi due mesi sono libero”.
Lei
sorrise, un sorriso solo per
me, stavolta.
***
Due
mesi dopo ero pronto a
conoscere Giorgio. Avevo scoperto qualcosa da quello che mi avevano
raccontato
alcuni clienti fissi e Ivan, che all’inizio veniva a vedere
come ce la cavavamo
e ora era tornato quasi a tempo pieno, ma ero ancora curioso. Avevo
accettato
il lavoro al Piccolo bar, che,
anche
se non famoso o grande come quello dei miei, era veramente carino e ci
stavo
bene.
I
miei non l’avevano presa
benissimo, all’inizio, ma poi avevano capito. Non avevo
intenzione di stare lì
per sempre, ma l’idea di aiutare veramente qualcuno che
avesse bisogno, mi
piaceva. E mi piaceva Carlotta. Le ore che passavo insieme a lei
volavano e
neanche mi accorgevo dello scorrere del tempo. Non mi sembrava neanche
di
lavorare.
Quando
sentii la porta aprirsi
alzai lo sguardo e andai incontro a Carlotta e a suo fratello.
“Ciao, sei il
tipo che ha insegnato a mia sorella a fare il
caffè?” Giorgio mi porse la mano
sorridendomi. Gliela strinsi e annuii, girandomi poi verso Carlotta.
Lei mi
sorrise. Il mio sorriso, quello per
me.
“Ti
ha detto così?” gli chiesi.
“No,
lei mi ha detto ‘Il tipo
strafigo che prendeva l’autobus con me’, e ha anche
aggiunto che sei ancora uno
strafigo” rispose lui, strizzando un occhio e ridendo.
“Giorgio!”
Il viso rosso e
scandalizzato di Carlotta mi scaldarono il cuore e sorrisi
anch’io.
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