Pennello
bianco
«Sicuro
di aver
preso tutto?»
Gli
occhi vispi di
Wei WuXian dapprima incrociarono i suoi e poi il cielo, in alto,
sopra di loro.
Era
nuvoloso, quel
giorno e Jiang Cheng pensò che fosse quasi di cattivo
auspicio.
Avevano
trovato
traffico, uscendo di casa quella mattina e, giunti trafelati al
binario giusto, avevano scoperto che il treno era in ritardo. Ora,
poi, aveva preso pure a tuonare minacciosamente in lontananza e
nessuno dei due aveva un ombrello, con sé.
«Sembri
tua madre.
Andrà bene, Jiang Cheng, so badare a me stesso».
Ecco,
di questo,
nello specifico, Jiang Cheng dubitava. E il suo disaccordo si
palesò
immediatamente sul volto, perché aggrottò
involontariamente le
sopracciglia in un'espressione diffidente.
«Oh,
andiamo! Hai
davvero così poca fiducia in me?» Jiang Cheng non
avrebbe saputo
dirlo, in realtà. Da una parte, sapeva che Wei WuXian sapeva
cavarsela in ogni situazione, ma dall'altra era anche perfettamente
consapevole della sua abilità nel creare caos ovunque
andava. E
l'idea di farlo frequentare l'università lontano dalla loro
casa,
dalla loro città... sì, lo impensieriva.
Soprattutto quando era
abituato a cercare di dissuaderlo dalle sue idee folli o cercare di
coprirgli le spalle quando era ormai troppo tardi.
«Dovrei
averne?»
Ma
non era solo
questo. Erano i sogni che lo perseguitavano da anni, seppur
sporadicamente, quelli che lo lasciavano sempre senza fiato, col
sudore sulla fronte, gli occhi colmi di lacrime e che non si era mai
saputo spiegare. Erano immagini slegate tra loro, barlumi di vita che
non gli appartenevano – eppure, in quegli incubi c'era sempre
Wei
WuXian: il suo sorriso da ragazzino, il suo abbraccio pieno di
affetto, il suo sguardo furbo. Poi, improvvisamente, c'era sangue
ovunque: sangue, morte, un grande vuoto dentro di sé. Ma Wei
WuXian
era ancora lì, al suo fianco, finché una
pennellata bianca non se
lo portava via, troppo lontano affinché potesse raggiungerlo.
E,
un attimo prima
di svegliarsi, si rendeva conto che una parte della sua anima, fuori
e dentro il sogno, lo odiava. E si detestava, per questo.
Erano
sempre gli
stessi incubi, a cui si era abituato col tempo – non
importava
quali strane storie cercasse di narrare la sua mente, lui sapeva qual
era la realtà: Wei WuXian era suo fratello adottivo, il suo
migliore
amico, il suo unico confidente; compagno di risse, di avventure e, in
parte, anche di studi.
Ma
da quando aveva
deciso a quale università andare, Jiang Cheng aveva come
avvertito
un fastidioso ticchettio farsi spazio nella sua testa, come se il
tempo a sua disposizione stesse venendo meno e così gli
incubi erano
tornati, con quella pennellata bianca che ogni volta
lo
strappava dal suo fianco.
Aveva
paura di non
avere più tempo. Avrebbe dovuto dirgli non di stare attento,
ma che
in qualsiasi momento sarebbe potuto tornare a casa. Che qualunque
cosa fosse accaduta, lui lo avrebbe accolto.
Che
gli voleva
bene.
Lo
sbuffare del
treno lo riscosse da quei pensieri, quasi mandandolo nel panico
–
era tardi. Era tardi e lui non aveva fatto niente perché, al
solito,
l'orgoglio glielo impediva. Era un masso sul petto di cui non
riusciva a liberarsi, neanche quando sentiva che era importante
dirglielo.
Una
volta
controllato il vagone sul biglietto numerato, lo aiutò a
caricare le
valigie. Sulla porta della carrozza, Wei WuXian gli sorrise –
un
sorriso luminoso, di quelli di cui solo lui era capace. Lo stesso
sorriso che lo abbagliava da quasi venti anni e che lo perseguitava
nel sonno.
«Allora
ci
vediamo, mh? E fai vedere allo zio quanto vali! Sono sicuro che
sarà
felice di averti dato fiducia». Gli tese il pugno, come
faceva
sempre e, come sempre, Jiang Cheng ricambiò il gesto.
«...
Mi farò
valere. Tu cerca di non fare casini».
«Me
l'hai già
detto, sì. Forse un milione di volte»
ridacchiò e, proprio quando
si avviava al proprio posto, nella cabina prenotata, quando ormai si
trovò alle strette, Jiang Cheng trovò il coraggio
di inghiottire il
suo orgoglio.
Fece
un passo sul
primo scalino di metallo del convoglio e si affacciò al suo
interno
– aveva paura di non farcela, che non lo sentisse
più. E allora
urlò.
«Ricorda
che hai
sempre un posto dove tornare!»
E
lo vide, Wei
WuXian, la maniglia della porta del vagone nell'unica mano libera,
voltarsi verso di lui con aria sorpresa – un'espressione che
da
sola bastò per far pentire Jiang Cheng di quanto aveva
appena fatto.
Ma proprio mentre imprecava a bassa voce contro se stesso e contro il
rossore che sentiva di dover combattere in fretta, proprio quando
decideva di balzare giù dal treno il più
velocemente possibile, le
braccia del fratello lo raggiunsero e lo strinsero, forte,
calorosamente.
«Lo
so» gli
sussurrò. «E io tornerò
sempre».
E
Jiang Cheng gli
credette. Lo abbracciò di rimando, stretto, per un'ultima
volta e se
anche quella pennellata bianca fosse giunta... sapevano entrambi che
niente avrebbe potuto distruggere quel legame tra loro.
Neanche
la loro
stupidità.
Note: Mo Dao Zu Shi è una
serie che amo e odio al tempo stesso e credo che questa storia possa
farne intuire il motivo. Nonostante tutto, però, mi ha
lasciato quanto meno la voglia di rivincita e di ripicca per i miei due
stupidi figli - aka, Wei WuXian e Jiang Cheng.
Credo che il loro
rapporto sia davvero uno dei più belli e dei più
conflittuali che abbia mai avuto sotto mano: la voglia di vedere felici
entrambi, seppur in modi diversi, magari, è quello che mi ha
spinto a scrivere questo primo, timido tentativo di sfogare la mia
frustrazione.
Perché anche
Jiang Cheng si merita una (1) gioia, oh.
|