(where)
love lies
Non
riusciva a
crederci.
Anche
se il mare
infinito che lo circondava, la sabbia candida sotto le sue mani, il
sole cocente non erano che prove della sua immensa
stupidità
– no, non riusciva comunque a crederci.
Dice
si sollevò in
piedi, barcollando; i postumi della botta in testa che aveva preso
(almeno, lui se ne ricordava una sola) erano solo l'ulteriore prova,
e pure inconfutabile, che era davvero un imbecille.
«Ho
fatto un vero
casino, stavolta...»
Si
portò le mani
tra i capelli, mentre gli occhi percorrevano inquieti quel lembo
formato da terra dorata, una ventina di ciuffi di tronchi e palme e
qualche metro d'ombra. La prima conclusione era anche quella
definitiva: non poteva fuggire da lì. Insomma, era vero che
non era
stato particolarmente furbo da parte sua giocarsi a
dadi la
sua dannatissima nave, ma era anche vero che la sua stradannatissima
ciurma avrebbe potuto avere un po' più di pietà
per lui. Avrebbero
potuto abbandonarlo a Tortuga, oppure in qualche porticciolo senza
gloria... e invece no, avevano deciso che oltre a
meritare di
subire un ammutinamento in piena regola (… o forse no,
considerando
che ci aveva scommesso lui per primo sopra...), meritava anche di
crepare in mezzo al nulla, come uno stoccafisso.
A
pensarci bene,
forse non avevano tutti i torti.
Erano
passati tre
giorni, più o meno, dal suo risveglio.
Colto
da un
insolito spirito di iniziativa, Dice aveva diligentemente costruito
una parvenza di rifugio, usando quel poco che aveva a disposizione,
tra cui la sua camicia. Aveva anche tentato di sostentarsi con la
miseria di noci di cocco che l'atollo proponeva e qualche pesce che
era riuscito ad afferrare a mani nude, non senza imprecazioni ad ogni
dio esistente.
Ma
era evidente che
fosse solo questione di tempo, prima che ci lasciasse le penne: la
calura caraibica era quasi insostenibile durante il giorno e l'ombra
dove aveva improvvisato il suo giaciglio non lo proteggeva sempre.
Aveva tentato, per disperazione, di rimanere pure immerso per qualche
ora in acqua, ma niente da fare.
Gli
bruciava la
testa e non aveva neanche del rum con cui cercare, momentaneamente,
di dimenticare che la sua fine si avvicinava.
Anche
in quel
momento, stava galleggiando passivamente in acqua. Si lasciava
cullare dal mare, dalle sue correnti calde e subdolamente agitate,
forse sperando che uno squalo o chissà cos'altro ponesse
fine alle
sue pene.
Non
si era reso
conto di essersi allontanato dalla riva, a suon di rimanere inerme in
balia delle onde.
«È
un “relitto”,
quello che vedo?»
«Bah»
rispose
Dice, gli occhi chiusi perché l'emicrania data dal caldo lo
stava
massacrando. «Il relitto di uomo? Può essere,
può essere. Che
spirito poetico».
Fantastico,
adesso
aveva persino iniziato a sentire delle voci. Forse era segno che non
mancava molto alla sua dipartita.
«“Poetico”?
Oh, come i musicali componimenti in lingua umana, certo».
«Certo,
certo,
proprio quelli».
…
Un momento.
Dice
scattò,
ritrovandosi immediatamente a realizzare di essersi decisamente
allontanato un po' troppo dalla riva,
perché non riusciva più
a sentire il fondale sotto i suoi piedi, neanche sfiorarlo. Era una
fortuna che sapesse quanto meno nuotare, oppure sarebbe morto
affogato.
Il
motivo per cui
si era improvvisamente risvegliato dal suo torpore di
autocommiserazione era che la voce che gli aveva parlato era
completamente diversa dalla sua; inoltre, era abbastanza sicuro di
sapere che cosa “poetico” volesse dire –
ma come poteva esserci
un'altra persona nel bel mezzo dell'oceano, in
quelle acque
dimenticate da Dio?
Eppure,
di fronte a
lui, stava un ragazzo. Era immerso, come lui, fino alle spalle, nude,
e pareva perfettamente a suo agio: aveva occhi grandi, di un verde
vibrante, come le sommità delle querce; i capelli di un
singolare
color castano, pallido persino quando inumidito dall'acqua,
ricadevano ondulati ai lati del suo volto, sottile, effimero, quasi
di un altro mondo tanto era bello.
Dice
rimase a
fissarlo con la bocca aperta forse un po' troppo a lungo
perché,
dopo un po', lo sconosciuto poggiò le proprie dita sotto il
suo
mento e lo aiutò a richiuderla col massimo dell'innocenza
(doveva
aver pensato che avesse la mandibola rotta) e Dice notò solo
in quel
momento che aveva non solo le spalle scoperte, ma—le mani
ricoperte
a tratti di una leggera sfilza di squame violacee, cangianti da una
tonalità più chiara ad una immediatamente
più scura, senza
gradazioni tra le due.
«Porc--»
si
ritrovò ad imprecare il marinaio, scattando indietro;
l'essere non
ne parve turbato, anzi: si limitò a guardarlo con fare
incuriosito,
quasi divertito da quell'improvviso movimento. In un battito di
ciglia, infatti, fu di nuovo vicino, troppo vicino e Dice, da bravo
pirata qual era, sapeva perfettamente perché.
Squali?
Macché
squali – sarebbe stato meglio morire tra le fauci di una
bestia
normale come uno squalo. Quello che aveva davanti era... una sirena.
O un sireno? Oppure un tritone? Beh, non conosceva le differenze, ma
sapeva perfettamente che erano esseri subdoli, magnifici quanto
letali, che prima incantavano le proprie vittime col canto e poi le
facevano sparire nelle profondità del mare. Affogate e
mangiate.
«Mh,
porco.
Riferito agli animali che vivono nella sporcizia, o a uomini dagli
istinti sessuali espliciti» dedusse, gli occhi ancora
incollati sul
suo volto.
Era
morto. Beh,
almeno morire per mano di una sirena rendeva un poco più
gloriosa la
sua misera fine, no? «Stai—stai lontano da
me!» esclamò, mentre
gesticolava nell'imbarazzante tentativo di tenerlo a distanza.
Beh,
forse il suo
istinto di sopravvivenza non era proprio d'accordo.
«Sei
stato tu ad
avvicinarti» gli rispose con semplicità la
creatura, girandogli
attorno con curiosità invadente. «Galleggiavi come
un pesce morto.
O come un relitto».
Poteva
dire di
essersi beccato la sirena meno incantevole esistente? Perché
era
altamente probabile.
«Tra
i due, sei tu
quello che mangia gli esseri umani, non io! Quindi, non ti
avvicinare!»
Gli
occhi smeraldo
della sirena si affilarono d'un tratto, quasi irritati da quella che,
era evidente, riteneva un'offesa bella e buona.
«Bugia»
sibilò,
prima di allontanarsi qualche metro. «Dici cose non vere. E
anche se
mangiassi gli umani, non prenderei un relitto».
Dice
non seppe bene
come, ma quell'affermazione lo fece sentire così in colpa
che, poco
dopo, non solo si lasciò avvicinare, ma addirittura
riaccompagnare a
riva; la sirena lo aveva infatti afferrato per un polso e, senza
preoccuparsi troppo e rischiando quindi di farlo affogare almeno un
paio di volte, lo aveva riportato lì dove il fondale non era
troppo
profondo, dove entrambi potevano toccare terra.
E
poi, senza
aggiungere nient'altro, la sirena sparì nell'azzurro
dell'acqua
cristallina.
Beh,
si era detto,
impossibile che si rifaccia vivo.
Nelle
ore che
seguirono quell'assurdo incontro, però, si era reso conto
che forse
avrebbe preferito essere mangiato vivo da una sirena antipatica che
ritrovarsi di nuovo su quel maledetto atollo, da solo. Ci
pensò
mentre sorseggiava le poche stille di acqua che ancora aveva con
sé,
ci rimuginò mentre si rigirava nel suo giaciglio scomodo e
freddo e
quando riaprì gli occhi al sole cocente, impietoso
torturatore.
«Avrei—dovuto
farmi mangiare!» imprecò ad alta voce, mentre
cercava di
acchiappare, per l'ennesima volta, i pesci a mani nude, immerso
nell'acqua fino alle ginocchia: ma quelli sfuggivano, maledetti,
più veloci della luce. O forse lui non era capace di
prenderli e
probabilmente nel giro di qualche giorno, forse settimana, sarebbe
morto di stenti.
«Io
non mangio
relitti».
Dice
sollevò lo
sguardo, non proprio sicuro di aver sentito bene; eppure, la sirena
era di nuovo lì, di fronte a lui, quasi divertito dallo
spettacolo
della sua inettitudine mentre esibiva con naturalezza parte della sua
coda di pesce, di un viola tenue, su cui il sole si posava
pigramente, lasciando che scintillasse.
«Ma
che--» si
lasciò sfuggire, ma stavolta non arretrò:
finché i suoi piedi
toccavano il terreno, poteva almeno avere possibilità di
scappare
sulla terraferma il più velocemente possibile. «Ti
sei affezionato,
per caso?!»
«Noia»
si limitò
a rispondere la creatura, prima di osservarlo a lungo – non
capiva
se gli piacesse giocare con la sua preda oppure davvero
cercasse semplicemente di ammazzare il tempo (e non lui).
«Perché
sei solo? Gli umani viaggiano in gruppo, sempre, soprattutto per
mare».
Dice
storse appena
la bocca. «Beh, gli umani sanno abbandonare i propri compagni
in
mezzo al mare, se ne hanno voglia».
«Oh,
sei odiato»
osservò con tono placido la sirena, prima di farsi
impercettibilmente più vicino.
«E
tu?» replicò
l'ex-capitano, irritato. «Che ci fa un mezzo pesce tutto solo
in
mezzo all'oceano a parlare con un umano?»
«Gentaro»
sibilò
l'altro, improvvisamente minaccioso. «Il mio nome
è Gentaro».
«E
il mio è Dice.
E non pensavo che le sirene comunicassero con gli umani».
«Ho
osservato e
imparato» mormorò, ovviando così alla
domanda che gli aveva posto
poco prima; perché, in effetti, un essere sì
pericoloso, ma solo,
rischiava davvero tanto, avvicinandosi alla riva. «E so che
dite
cose non vere su di noi».
«Stai
sprecando
fiato» lo interruppe subito, passandosi una mano tra i
capelli,
esasperato. «Anche se mi stessi simpatico e non è
questo il caso,
non potrei raccontare a nessuno che ho incontrato un sirenetto
chiacchierone e gentile, che non mi ha fatto diventare la sua
cena».
Gli
occhi di
Gentaro si illuminarono di una strana luce, che portava con
sé una
malinconia che evidentemente Dice non era in grado di comprendere.
«Neanche
tu mi
stai simpatico».
Nonostante
questo,
Gentaro tornò all'atollo ogni giorno. Si presentava
all'improvviso,
si teneva ad una distanza sempre via via più ridotta e lo
osservava,
ridendo di tanto in tanto della sua incapacità di cacciare,
delle
sue imprecazioni – in poche parole, delle sue disgrazie. E
per
quanto Dice trovasse la sua presenza a dir poco irritante, si rese
ben presto conto che non poteva e voleva rinunciarvi: avere Gentaro
lì bastava a tranquillizzarlo, a dargli un motivo per non
lasciarsi
morire in quel luogo dimenticato da Dio, sulla spiaggia. E lentamente
alle imprecazioni si sostituirono storie, aneddoti divertenti,
racconti di episodi sulla sua vita che blaterava ad alta voce
affinché la sirena lo ascoltasse. E Gentaro, ormai seduto
elegantemente sul fondale marino, immerso in acqua solo fino alla
vita, ne rideva e chiedeva di più, curioso come un bambino.
L'abilità
di
Gentaro nel parlare la sua lingua cresceva di giorno in giorno,
perché apprendeva dalle loro conversazioni con una
velocità
terrificante; intanto, lo aiutava a prendere i pesci quando Dice era
troppo nervoso o stanco per riuscirci da solo.
Uno
strano fascino
avvolgeva la creatura, che cominciava ai suoi occhi a sembrare sempre
più umano e sempre meno una sirena.
«Gentaro,
ma
perché sei sempre solo?»
Alla
domanda, non
aveva mai avuto voglia di rispondere. Fissava, coi suoi occhi verdi e
malinconici, un'orizzonte che pareva improvvisamente insopportabile.
«Dicono
che
racconto bugie» rispose sorprendentemente una sera, mentre il
sole
si inabissava nel rosso del tramonto. Non lo guardava, certo, ma era
forse la prima volta che parlava di sé.
“Bugia”
era una
parola che Gentaro ripeteva di continuo e Dice non riusciva a capire
se ne trovasse piacevole il suono oppure vi fosse legato in qualche
modo.
«E
perché?»
«Un
umano mi ha
salvato, tempo fa. Si è preso cura di me. Mi ha insegnato
molte
cose».
Dice
avvertì una
punta di fastidio all'altezza del petto e un saporaccio crearsi nella
sua bocca, come se l'idea, da sola, fosse bastata a non fargli
digerire la cena, ovvero: un pesce che Gentaro aveva acchiappato e
cocco.
«E
i tuoi amici
non ti credono? E perché?»
«Odiano
gli umani
e gli umani odiano noi. Abbiamo paura gli uni degli altri
perché
siamo diversi».
Dice
sbatté le
palpebre, sorpreso da quell'affermazione. Ricordò con quale
tono
offeso gli avesse replicato quando lo aveva accusato di volerlo
mangiare e, in parte, si sentì colpevole.
«Per
questo ti sei
avvicinato a me? Volevi essere sicuro di non sbagliarti?»
I
loro sguardi si
incrociarono e a lungo: Gentaro sembrava sorpreso da
quell'osservazione, ma Dice non era sicuro che fosse perché
aveva
indovinato – pareva, piuttosto, che neanche lui sapesse
perché
aveva deciso di rimanere nei paraggi, a favorire della sua compagnia.
Nel diverso, forse, entrambi avevano trovato qualcosa che li
distogliesse dalle proprie miserie, che ammutolivano di fronte alla
voce e alla presenza dell'altro.
«Volevo...
che non
fosse una bugia». Agitò appena la coda squamata a
pelo dell'acqua,
poi si spinse con le mani verso l'alto, per tuffarsi in acqua.
«Dormi, Dice. Sarà freddo, stanotte».
Non
fu solo freddo,
quanto umido.
Dice
ebbe sogni
agitati ma dormiva troppo pesantemente per svegliarsi; non ricordava
con certezza, ma era sicuro di aver sognato Gentaro, i suoi occhi che
nel buio della notte quasi brillavano di una luce paurosa, che
sorrideva appena scoprendo canini che non aveva mai visto. Che calava
su lui con cautela, col silenzio del più perfetto dei
predatori e lo
assaggiava, con labbra e lingua.
Poi
sognò di
trovarsi inabissato in acque agitate, salate. Di essere trascinato e
disperso nelle correnti dell'oceano, troppo vasto perché vi
trovasse
un appiglio.
Perso
per sempre.
Quando
si svegliò,
sembrava che il mondo dondolasse.
Ma
letteralmente:
non solo il suo corpo, ma tutto ciò che lo circondava
pigramente
ciondolava un po' a destra e un po' a sinistra. Inoltre...
Non
era più sul
suo atollo. Era sdraiato su di una brandina, in una stanza fatta
completamente in legno. Era coperto da delle lenzuola di stoffa vera
e non da quella robaccia improvvisata fatta di palme che aveva messo
insieme da solo. Aveva vestiti puliti, una pezza bagnata sulla
fronte.
Era
in una cabina
di una nave, all'asciutto.
Aveva
dolori
ovunque, anche; qualunque cosa fosse successa, sembrava avesse avuto
un eccesso di febbre. Sentiva il corpo pesante, la testa confusa.
Cosa
era successo?
Nel
momento in cui
provò a sollevarsi a sedere, la porta della nave si
aprì e rivelò
un ragazzino di modesta statura, i capelli di un rosa acceso, gli
occhi azzurri come il mar dei Caraibi. Eppure, era vestito di stoffe
pregiate e il cappello da capitano (decorato in modo vistoso ma
elegante) spiccava sul suo capo con naturalezza.
«Oooh,
il nostro
ospite d'onore si è svegliato! Come ci sentiamo, signor
relitto?»
Relitto?
“Gentaro!”
«Io—io
ero su un'isola e... come sono arrivato qui? Non posso... c'era
un'altra persona con me!»
Il
ragazzo gli
sorrise e, in un attimo, Dice vi scorse una malizia che lo fece
rabbrividire. L'estraneo saltellò, quasi, vicino a lui, fino
a
sedersi su quello che con tutta probabilità solitamente era
il suo
letto.
«Persona?
Questa
pare una bugia, signor ex-capitano Dice!»
Nonostante
non lo
stesse ammettendo di persona, era chiaro che il ragazzo conoscesse la
sirena che per giorni gli aveva tenuto compagnia. E se era davvero
così, allora...
«Gentaro
mi ha
portato qui, vero? Ma perché? E dov'è,
adesso?»
Possibile
che lo
avesse portato via da quell'isola così, all'improvviso,
senza dirgli
niente? E perché non gli aveva parlato di una nave nelle
vicinanze?
Questo capitano dall'aspetto di bambino era forse l'umano di cui gli
aveva parlato, quello che, tempo prima, lo aveva salvato?
“Perché
non me
l'ha detto?»
«Pin-pon!
Hai
indovinato. Gentaro ti ha portato qui, prima che la verità
diventasse una bugia» gli rispose cripticamente il ragazzo,
facendogli l'occhiolino. «Sono davvero pochi gli umani
disposti a
chiacchierare con le sirene, sai? Ma lo conosco da tempo e so che ha
buoni intenzioni. Quindi ti ha addormentato, credo... ? E poi ti ha
portato fin qui a nuoto. Non eri messo troppo bene, quando ti ho
fatto caricare sulla scialuppa ma ehi, sei vivo! Dovresti esserne
felice!»
Dice
rimase così,
senza parole e senza neanche sapere il nome dello sconosciuto, che
invece tutto sembrava conoscere di lui; lo guardava, curioso, con un
sorriso da malefico complottista sulle labbra – studiava la
sua
reazione, come se si aspettasse qualcosa di incredibile ed eclatante.
E
come avrebbe
dovuto reagire? Gentaro lo aveva forse avvelenato a sua insaputa e lo
aveva salvato, prima che un'illusione andasse in frantumi. Di quale
illusione il tizio parlasse, però, Dice non riusciva
assolutamente a
capirlo. Si riferiva forse alla convivenza tra umani e sirene? O...
“Io
non mangio
relitti.”
«...
Tu chi
diavolo sei?» fu l'unica cosa che riuscì a dire.
«Ramuda,
piacere!», e si tolse il cappello, chinando appena il capo.
«Benvenuto a bordo della Fling Posse!
Chissà...» e gli fece
l'occhiolino, consapevole di poter catturare il suo interesse con
facilità. «... se rimani con me, magari rivedrai
la tua sirena
chiacchierona!».
Note:
Questo prompt mi aveva mandato in vera e propria crisi. Ho scritto, a
suo tempo e a quattro mani, un'intera AU piratesca con degli OC miei e
di una mia amica, ma è passato così tanto tempo
che non sapevo più cosa inventarmi; insomma, chi gestire in
una AU strampalata come questa?
Un po' complice la mia attuale lettura di un saggio sui pirati
(sì, ho un problema), alla fine la mia scelta è
ricaduta sulla GenDice. Ammetto di avere un po' di dubbi circa la
riuscita di questa storiella, anche perché è la
primissima volta che li muovo e, per me, ogni nuovo personaggio che mi
ritrovo a scrivere è un salto nel vuoto.
Spero, in ogni caso, che vi piaccia! Mi spiace che sia un poco
inconcludente, ma volevo lasciare l'atmosfera di mistero irrisolto, di
verità nascoste e di "bugie d'amore" o dove "l'amore giace",
come dice il titolo.
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