Premessa
storica: La
storia è ambientata nella XVIII dinastia, agli inizi del
1336 a.C. In questo periodo si era prossimi all'incoronazione
al trono di Tutankhamon, dopo un periodo di sconvolgimenti religiosi
che sotto l'egida di Akhenaton portarono al rifiuto di Amon,
rimpiazzato dall'allora sconosciuto Aton.
Tra i due regni vi fu
la brevissima sovranità di Smenkhkara, del quale non
è ancora chiaro il legame con il proprio predecessore, ma di
per certo fu sposato con Meritaten, figlia di Akhenaton.
La vicenda narrata
è realmente avvenuta, anche se non ci sono fonti certe su
quanto sia accaduto ai confini con l'Egitto, visto che ogni
testimonianza è stata cancellata.
Sesh è un
personaggio inventato: il suo nome in realtà significa
scriba, ma ho volutamente cercato un contrasto tra l'appellativo e la
carriera militare. Altri personaggi inventati sono Hemeb, Inandik
Khumarbi, il cui nome è quello di una divinità
protagonista di una serie di racconti hittiti inseriti nel cosiddetto
“Ciclo di Khumarbi”
Per il resto gli altri
protagonisti, più o meno rilevanti, sono realmente esistiti,
al pari delle ambientazioni descritte.
La città
iniziale d'ambientazione è Akhetaton (L'orizzonte di Aton)
che venne fondata dallo stesso Akhenaton per poi, alla sua morte,
subire un progressivo degrado. Attualmente il sito è
chiamato Tell El Amarna, da cui la denominazione del periodo storico
come Amarniano. Terminologia a fondo racconto.
L'abbraccio del sole
Primo capitolo
Alba
La stanza del palazzo di Akhetaton era inondata dalla luce del primo
mattino; traspariva da oltre i drappeggi in lino, mossi grazie alla
lieve brezza che rendeva quella città più viva
nella sua artificiosa esistenza - seppur braccata dall'abbraccio
soffocante della sterilità.
Il profumo dell'incenso accarezzò le pareti della grande
stanza, volteggiando attraverso le colonne papiriformi, sfiorando i
resti ormai spenti del braciere fino a infilarsi tra le coperte leggere
che avvolgevano i corpi dei due amanti. Dormivano, o fingevano di
farlo, intrecciati in un abbozzo di abbraccio mentre i piedi,
fuggiaschi, spuntavano da oltre l'accumulo poco decoroso di tessuti.
Sesh aprì un occhio; la prima cosa che vide fu la sinuosa
schiena di Meritaten: nuda, le scapole sporgenti per via del braccio
che pendeva stancamente oltre il bacino, fragile ma proprio per questo
amata. Prima che potesse muoversi lei si voltò,
così che i loro occhi si fissarono: uno specchio di iridi
scure, velate da un accenno di amore reso amaro dalle intemperie della
vita. I due amanti non avrebbero dovuto essere lì eppure,
stagione dopo stagione, raccolto dopo raccolto, continuavano a vedersi
nel silenzio della corte in lutto, protetti dalla finta ignoranza delle
guardie.
Andava bene anche così: se Sesh cercava un amore da
proteggere, Meritaten voleva semplicemente un abbraccio, sapendo di non
potersi concedere e concedere a sua volta altro. Era l'unica, la
superstite di un mondo destinato a sparire nella sabbia: gli ideali del
padre Akhenaton erano morti assieme a lui, cancellato dal mondo dei
faraoni con la stessa rabbia brutale provata nei confronti di Amon e
del suo clero corrotto.
Cos'altro restava a quella regina dalla corona di papiro se non un
palazzo sterile come il suo ventre? Era sola, in compagnia di un amante
istruito e coccolata da qualche lacrima lasciata saggiamente fuggire,
in memoria del defunto Smenkhkara.
Un ventenne troppo fragile per prendere le redini di un mondo destinato
all'oblio. Non l'aveva amato, né aveva avuto il tempo di
farlo: un matrimonio di salvaguardia per la corona e poi il sollievo
della dimenticanza. Così Meritaten era rimasta vedova:
assisteva sola al rifiuto di quanto il padre aveva costruito a costo di
grandi sacrifici, mentre lo zio imberbe saliva al trono, retto da un
gruppo di ipocriti che lei avrebbe voluto giustiziare.
“Ho fatto spedire la tavoletta da un messaggero
fidato.”
Sesh socchiuse gli occhi e trattenne il respiro. Quando li
riaprì la giovane ancora continuava a guardarlo,
impassibile, senza aspettare qualcosa di diverso da una critica.
“Perché?” si limitò a
chiedere lui alzandosi piano a sedere, lasciando correre lo sguardo in
direzione del fondo del letto in legno, i cui piedi erano modellati per
formare ingannatrici quanto temibili zampe di leone. Non c'erano altari
con statuette degli dei: Meritaten in tutta la sua fragile superbia
aveva continuato ad aderire al culto di Aton, risultando l'unica vera
credente in una città approfittatrice.
“Lo sai.” concluse rapida, stringendo tra le mani
il lenzuolo leggero.
Sesh sospirò. Sapeva che quella donna senza famiglia e senza
alleati lottava sola, chiusa tra le stanze areate di un palazzo
decadente. Lottava per tenere intatte le fragili fondamenta create da
un padre definito pazzo e visionario da molti: era destinata a rimanere
sepolta sotto cumuli alti cubiti e cubiti, eppure continuava a
proteggere il proprio piccolo mondo.
E lui cos'avrebbe dovuto fare?
La guardò alzarsi per dirigersi verso il mobile intarsiato
proveniente dalla Nubia: si era seduta e con compostezza
iniziò a pettinare i folti capelli scuri, annodati dopo una
notte d'amore, mentre contemplava il proprio volto triste nel riflesso
di uno specchio in bronzo. Sesh accennò ad un sorriso pieno
di affetto, immaginando di poter captare i suoi pensieri con la
speranza di sentire amore in quei gesti: sia nello spargersi
unguento(*) profumato sulla pelle secca, sia nel tingersi gli occhi
scuri con il khol(*) per sentirsi più bella.
L'uomo si rivestì del suo gonnellino dalle molteplici pieghe
e giunse alle spalle dell'amata. Con le mani rese callose dagli
addestramenti militari cinse il collo fragile di lei, la quale
inarcò appena le spalle trattenendo il respiro, e
baciò una sola volta la pelle scura profumata di fresco; in
quell'attimo fuggente le annodò una collana in lapislazzuli
che sembrava sorgere dagli azzurri panni morbidi della veste, leggera
ma sufficiente per proteggere quel corpo minuto.
“Non mi rimproveri per ciò che ho
fatto?” chiese la giovane con un tono falsamente arrogante.
Sesh indietreggiò di qualche passo, lentamente, e
sfiorò con la punta delle dita una delle colonne scanalate,
toccando l'intonaco freddo che le decorava:
“Voi siete una principessa, io un soldato addetto alla vostra
sicurezza. Cosa posso fare se non amarvi?”
Uscì dalla grande stanza, inspirando un'ultima volta i
molteplici odori della prima mattinata che galleggiavano tra quelle
pareti: profumavano ancora dell'amore vissuto. Meritaten non rispose,
si limitò a vedere nei suoi stessi occhi la consapevolezza
che presto si sarebbe consumata definitamente: era identica a quelle
braci che – dopo aver bruciato in una vampa la propria vita
– si spegnevano, lasciando dietro di sé
nient'altro che fumo.
Sapeva che il suo amante, il suo fratello mancato, il confidente
più prezioso l'avrebbe tradita presto o tardi:
perché lui amava l'Egitto, la Terra Nera(*) per la quale
sarebbe morto – la Terra che lei stava regalando al nemico
pur di far sopravvivere un regno destinato all'oblio.
Hattusa(*) era una città che si ergeva tra gli speroni
rocciosi e le vallate montane; i suoi edifici –
religiosi, politici, amministrativi – si plasmavano in
funzione di quel terreno pretenzioso e così mancavano del
rigore geometrico tanto caro ai lontani Egizi.
Non c'era popolo tra quelle mura, bensì molteplici burocrati
e sacerdoti che passavano da un compito all'altro, tronfiamente
protetti da porte invalicabili che incutevano timore a chiunque osasse
avvicinarvisi: la porta del Leone, del Re e della Sfinge; i tre
protettori di un luogo austero, adibito alla vita di una corte dedita
all'impegno militare quanto a una rigida gerarchia amministrativa che
funzionava da secoli alla perfezione, res gestae(*) dopo res gestae,
impedendo che la memoria degli avvenimenti – più o
meno falsati – venisse cancellata.
Suppiluliuma non era persona da restare a lungo inattiva: mantenere
saldi i confini del regno non gli concedeva il lusso di soggiornare
troppo tempo a corte, d'altronde nemmeno gli interessava abusare di
sfarzi e riposi che lo avrebbero solo appesantito. I suoi pensieri
correvano già a Karkemish che presto o tardi sarebbe caduta
sotto il suo giogo.
Tuttavia, quel giorno gli capitò di sedersi a lungo presso
la propria scrivania in prezioso legno e rileggere, coi suoi stessi
occhi, le colonne in cuneiforme(*) che tanto lo avevano stupito.
“Non mi era mai capitata una cosa simile!”
esclamò, grattandosi distrattamente una guancia scavata
dalla lunga e curata barba.
Inandik, il proprio segretario particolare addetto agli archivi reali,
alzò le spalle sulla difensiva e sforzandosi di non
sorridere commentò: “Lo so, mio signore, sembra
che gli Egizi abbiano il gusto per la provocazione.”
Suppiluliuma si alzò in piedi, portandosi le mani dietro la
schiena; dette un'ultima occhiata perplessa alla tavoletta e disse con
tono quasi solenne: “La dahamunzu(*) d'Egitto, Meritaten,
chiede che uno dei miei figli le venga dato in sposa
affinché regni sull'Egitto come Faraone –
guardò fuori dalla feritoia che dava verso la parte bassa
della città, spaziando poi sulle montagne circostanti,
infine aggiunse scuotendo la testa – se non avessi comprovato
l'autenticità del sigillo avrei pensato che Ishtar(*) ci
stesse confondendo con un sortilegio.”
Inandik intrecciò le mani asciutte e si umettò la
lingua per poi convenire:
“Sua Maestà, comprendo perfettamente la vostra
perplessità, io stesso sono sbalordito da tanto –
poi aggiunse, mostrando la diplomazia di cui era capace –
suggerisco di controllare la situazione. Se realmente i fatti
corrispondessero a realtà la questione non può
che volgere a vostro favore.”
Il sovrano assoluto degli Hittiti, conquistatore e guerriero che aveva
sottratto alleati come Biblo a un Egitto inattivo, condottiero in grado
di muovere eserciti preparati lungo tutta la zona Anatolica e la Siria,
comprendeva bene i vantaggi di una simile possibilità. Il
dominio sulle Due Terre, paese potente e prosperoso, senza dover
versare nemmeno una goccia di sangue dei propri uomini: un dono divino
imperdibile, se realmente fosse stato tale.
“Manderò Hattushatzi come ambasciatore. Vedremo se
la dahamunzu ha davvero intenzione di aprire le porte del proprio Regno
o se non sia altro che una subdola messinscena. In quel caso
pagherà caro l'affronto.”
Inspirò l'aria fredda trasportata attraverso le fessure del
palazzo costruito sull'acropoli e avvertì la presenza della
propria gente, la quale viveva nella semplicità che da
sempre l'aveva caratterizzata. Era un odore così buono,
pieno di vita, terribilmente seducente rispetto a quello del sangue e
dei cadaveri in putrefazione che durante la guerra tormentava le sue
narici.
La corte faraonica si sviluppava in lunghezza: l'accesso al trono era
sul lato corto, situato al fondo di quel lungo passaggio intervallato
lateralmente da alte colonne, le cui sommità riproducevano
rigogliosi ciuffi di papiro verdeggianti. Il soffitto si apriva
direttamente sul cielo azzurro, così che i raggi del sole
potevano accarezzare il pavimento in pietra calcarea, il cui bianco
baciato dalla luce diveniva accecante come il più luminoso
dei pettorali in oro del Sinai.
Quella stanza immensa era avvolta dal silenzio dell'attesa, resa
profumata dai coni lasciati sciogliere al caldo della giornata. Sesh
stava rigidamente in piedi lungo i margini della scalinata che
conduceva al soppalco dove, impassibile, sedeva Meritaten: non poteva
fregiarsi di corone né di scettri, era semplicemente una
donna nobile, accoccolata su di un trono senza pretese con in mano
esclusivamente la sua stessa combattività.
La giovane, abbigliata con eleganza da una tunica rossa e adornata da
pochi gioielli, ogni tanto lanciava un'occhiata all'anziano Ai, colui
che aveva assistito alla nascita del regno di Akhenaton e che ora,
silenzioso, guardava il proprio mondo sgretolarsi senza avere la forza
divina necessaria per reggere le macerie. Fingeva, dietro le rughe, di
avere il controllo di ogni cosa, quando ormai non aveva più
niente da poter controllare; allora aspettava: forse la morte, forse di
poter dire addio un'ultima volta a tutte le persone che lui, nella
sfortuna di essere vecchio, aveva visto scomparire per sempre.
Ai era consapevole di quello che stava accadendo. Sapeva che Meritaten
aveva stupidamente venduto il proprio paese agli Hittiti –
barbari, incivili, privi delle conoscenze che avevano reso l'Egitto
patria degli dei e centro dell'universo conosciuto.
Ogni tanto guardava da oltre le sopracciglia cespugliose quella donna
di corporatura piccola e dal volto sciupato, nonostante la maschera del
trucco, e si stupiva di come riuscisse a portar avanti le proprie
battaglie, chiusa nel gineceo del palazzo nel quale suo malgrado
viveva. Non credeva che i suoi informatori fallissero così
miseramente: nessuno degli uomini che lavoravano per lui era riuscito a
intercettare il messaggio destinato ad Hattusa in tempo e ora le
conseguenze erano chiare a tutti.
Se gli Hittiti avessero scoperto che la richiesta era un semplice
malinteso non avrebbero esitato a invadere l'Egitto e piegarlo al loro
volere, come era avvenuto con gli Hyksos(*) tanti anni prima; altri
invasori, altre costrizioni che gli egiziani avrebbero dovuto
sopportare pagando numerosi morti, il cui sangue avrebbe macchiato
ancora le fertili acque del Nilo.
L'uomo portò lo sguardo in direzione dell'immensa entrata
che conduceva alla sala del trono, fuori dalla quale vi era
un'ulteriore luminosa anticamera dove ogni ospite – illustre
o meno che fosse – veniva fatto attendere, prima di poter
avere il privilegio di essere accolto dal sovrano delle Due Terre.
Quelle pareti, quel luogo illuminato dal Sole così venerato
fino a poco tempo fa, sembravano destinate a scomparire, erose dal
tempo e graffiate dalle sabbie del deserto che abbracciavano l'intera
Akhetaton; l'unica via di salvezza per l'Egitto era accettare il folle
compromesso di un marito Hittita, tanto scomodo quanto inopportuno.
“Ti rendi conto di quello che hai fatto?” chiese
sofferente, mentre il male ai denti lo tormentava implacabile.
Meritaten inarcò un sopracciglio e replicò:
“Mi rendo conto di aver salvato ciò che mio padre
aveva creato. Tu hai venduto il tuo credo, hai venduto Aton per
salvarti la vita: eppure non hai realizzato di essere già
morto... siamo tutti morti.”
Ai avrebbe voluto sedersi all'ombra di un sicomoro, appoggiare la
schiena dolorante alla sua corteccia odorosa e chiudere gli occhi per
dormire senza preoccupazioni. Sperava che così si sarebbe
assopito anche l'amore per l'Egitto, per quella famiglia che aveva
visto annientarsi senza poter fare niente, nello stesso modo in cui
veniva dimenticato il dolore ai denti e l'ansia dovuta a un futuro
incerto.
Eppure nonostante i suoi desideri era ancora lì, a reggere
suo malgrado le redini di un luogo destinato a sparire. Sempre per quel
folle e sciocco amore.
“Gli Hittiti non salveranno quanto resta di
Akhetaton.”
Lei smise di guardarlo e alzò la testa verso il cielo,
sorprendentemente privo di nuvole. Accennò ad un sorriso ed
ebbe la contraddittoria voglia di piangere:
“Lo so. Ma preferisco così, piuttosto che veder
morire tutto quello in cui credo per mano dei miei stessi compatrioti
codardi.”
Un raggio di sole la illuminò e Meritaten chiuse gli occhi.
Lasciò che Aton, padre e creatore, coccolasse l'unica figlia
che ancora lo amava; se avesse pianto le sue mani fatte di luce
avrebbero asciugato le lacrime, lasciando solo una traccia di sale
sulla pelle resa arida dalle intemperie.
D'altronde, era lei l'Amata di Aton.
Sesh attendeva silenzioso nella penombra dell'ampio cortile; di tanto
in tanto guardava lo specchio d'acqua della piscina e rimaneva
incantato a fissare i giochi di luce, i colori tenui delle ninfee e le
increspature plasmate dal vento, vive sotto i suoi tocchi invisibili.
“E' un luogo bellissimo, non è vero?”
Il soldato alzò gli occhi e vide che Ai gli si era
affiancato, contemplando a sua volta quella pozza circondata da un
prato curato. Sesh si limitò ad annuire e aspettò
che l'anziano uomo continuasse a parlare, dopo aver controllato che non
passasse nessuno.
“Tutto questo presto tardi sarà destinato a
scomparire. Anche il tuo amore per Meritaten subirà
l'identico destino di queste mura.”
“Amo lei, come amo l'Egitto.” rispose calmo.
Ai sorrise beffardo, corrugando le sopracciglia disordinate:
“Ma lei non ama l'Egitto. Tu dovrai scegliere quale amore far
vivere e quale estirpare: due piante non possono convivere nello stesso
vaso.”
Sesh si morse un labbro: all'improvviso gli sembrò di avere
un peso troppo grande sul capo, un peso che gli schiacciava i lisci
capelli neri e piegava inesorabilmente il collo. Quando si rivolse al
vizir lo fece quasi con un'esasperata arroganza che non poteva
realmente permettersi:
“Ormai voi avete accettato il nemico. L'ambasciatore
Hattushatzi è già ripartito con tra le mani
l'accordo di matrimonio: cosa potete fare adesso se non
attendere?”
L'anziano assottigliò gli occhi e replicò in un
sussurro appena udibile:
“Mi credi così stupido, Sesh?”
Il soldato rimase interdetto. Dilatò le narici ma non
rispose.
Ai gli si avvicinò di più, mentre la lunga
tunica, bianca come i radi ciuffi della propria nobile testa,
strusciava sul pavimento:
“Non entrerà nessun principe Ittita in Egitto.
Nessuno.”
Quelle parole, soffiate nell'aria, furono sufficienti per far
comprendere a Sesh che gli avvenimenti avrebbero preso una piega molto
diversa da quanto credeva. Ancora non sapeva se ciò
rappresentasse un bene o meno, ma di una cosa era certo: i desideri
disperati di Meritaten non sarebbero stati esauditi, erano destinati a
cancellarsi al pari di una goccia d'inchiostro diluita nel Nilo.
“Cosa devo fare?” chiese portandosi stancamente le
mani lungo i fianchi.
“Organizzerai una spedizione assieme ad altri uomini. Una
spedizione nella quale accidentalmente nessuno appartenente al
convoglio Hittita sopravviverà.”
Sesh lo fissò impassibile; non esternò il proprio
turbamento, nemmeno il proprio dolore:
“Tu mi vuoi morto, vero?”
“E' una possibilità da contemplare, la tua morte
– asserì Ai, altrettanto impassibile –
tuttavia è per la salvezza dell'Egitto. La corte non
riconoscerà nessuno di voi, né vi
verrà a salvare: agirete come un gruppo di predoni,
disconosciuti da tutti.”
“Tu non puoi sapere se io ami più l'Egitto o
Meritaten.” lo sfidò.
“Se tu amassi più Meritaten a quest'ora saresti a
consolare lei, non te stesso.” replicò con un
accenno beffardo.
Il giovane soldato non rispose, si concesse esclusivamente il lusso di
fermare il flusso dei propri pensieri. Sapeva che quella missione era
suicida: nessuno sarebbe intervenuto a salvare un gruppo di rinnegati,
che pure avrebbero arginato con le loro vite l'inondazione malevola
colpevole di distruggere l'Egitto.
Khemet, la Terra Nera, patria che lui tanto amava; i campi coltivati
dall'aratro dei contadini, i templi di pietre immortali, le piramidi
rivestite in calcare che aspiravano a raggiungere il cielo, le stuoie
collocate sui tetti delle case per dormirvi la notte. Ogni cosa
respirava di vita, nei percorsi ai margini del fiume e nelle
città polverose le cui bancarelle vendevano tutto
ciò che rappresentava le Due Terre: i datteri del Delta, la
birra conservata in giare immerse nella sabbia, i pesci pescati nel
Nilo benedetto da Api(*) e risparmiati dalla morsa implacabile di
ippopotami e coccodrilli.
Sesh sentì il proprio cuore battere forte; come un
innamorato che, pensando alla donna amata, desiderava baciarne il collo
affusolato, sfiorare i seni morbidi e infine annusare con amore furtivo
la pelle odorosa di mirra. Allo stesso modo avrebbe voluto toccare la
fertile terra del Nilo, il limo che si depositava dopo ogni piena
regalando la vita: immergere le dita in quel terreno nero, affondarle e
sperare che da quel tocco un giorno nascesse una pianta immortale.
“Tu sai che non resterò ucciso così
facilmente: farò di tutto per portare a termine la mia
missione ma tornerò ancora a lambire le sponde del
Nilo.”
“Questo sarà da vedere –
sussurrò con un cadenzato tono minaccioso, proseguendo
– dovrai ricordare però che Meritaten
per te non esisterà più: è stata
questa la tua scelta. E io come altri in questo periodo di successioni
tumultuose abbiamo lasciato correre parecchio su una relazione
illegittima quanto inopportuna.”
Sesh non annuì; si limitò a fissare un'ultima
volta Ai negli occhi grigi, scorgendo una stanchezza che forse si
rifletteva negli sguardi di tutti. Se ne andò, oltrepassando
i vari corridoi di palazzo: quando ebbe la possibilità di
vedere ancora Meritaten, di parlarle e salutarla prima di scomparire,
il giovane soldato preferì evitare.
Non avrebbe potuto dimenticarsi di lei, dei suoi sogni, di quelle
fragili speranze che ancora alimentavano la sua sfortunata vita.
Segretamente avrebbe continuato a coltivare nell'ombra la pianta del
suo amore per quella principessa che tanto ammirava, nelle sue
fragilità così come nelle ostinate insistenze; a
volte folli, a volte piene di affetto per quel padre odiato dall'Egitto
– così inviso ai cambiamenti – che aveva
rivoluzionato in pochi anni di regno.
Si accontentò di sentire un'ultima volta il suo profumo e
immaginarla seduta a contemplare il proprio volto triste, consapevole
che entrambi erano già morti. Allora... perché
anelavano talmente tanto alla vita?
La serata alla taverna trascorreva tranquilla. Probabilmente per il
ridotto numero di avventori che la popolavano, o probabilmente vista la
bassa qualità della birra(*) che era stata piuttosto
diluita: le scorte scarseggiavano, data l'assenza di vie carovaniere
stabili, e quindi i proprietari del locale si arrangiavano come meglio
potevano.
Sesh, tra le mani una scodella in legno colma del fresco liquido,
osservava con sguardo vacuo una coppia di anziani intenta a giocare a
senet(*). A volte, pensò ironicamente, si sentiva una di
quelle pedine che, mosse sulla scacchiera, lottava in mano altrui per
non essere gettato via.
Fece ondeggiare la bevanda, contemplandone i riflessi resi luminosi
grazie alle lucerne che rendevano il locale meno spoglio di quanto non
fosse. Improvvisamente, ricevette una poderosa manata sulla spalla che
lo fece sobbalzare e per poco non si rovesciò anche tutto il
contenuto.
Si voltò; vide che di fianco a lui era comparso Hemeb: il
suo migliore amico, nonché collega di lavoro presso la
reggia, anche se destinato alla protezione degli ingressi principali.
Erano all'incirca coetanei, sui venticinque anni d'età che
gravavano sul capo, ma non potevano essere più diversi, sia
nel carattere che nell'aspetto fisico. Sesh aveva un viso che rientrava
nella categoria di quelli definiti normali: proporzionato, dai capelli
neri tenuti corti per esigenze di disciplina e pelle piuttosto scura
secondo il colorito tipico degli egiziani. Possedeva un volto che si
poteva ricordare facilmente così come dimenticare in breve,
eppure il suo carattere schivo, silenzioso e spesso molto introverso,
lo rendeva uno di quei personaggi che dovevano essere necessariamente
conosciuti, anche solo per egoistico desiderio di capire cosa gli
passasse per la testa.
Allo stesso modo non apparteneva alla fascia dei buoni ad ogni costo,
né tantomeno a quella degli approfittatori: faceva
ciò che riteneva si dovesse fare e da tempo ormai aveva
imparato che i doveri, o anche solo le proprie personali convinzioni,
spesso esulavano da quella che era l'etica comune. Sapeva dunque di non
essere né meglio, né peggio degli altri, sebbene
quella sera si sentisse una sorta di straccio sbrindellato: in
qualsiasi maniera avesse agito avrebbe fatto soffrire qualcuno, non
c'erano scappatoie.
Hemeb invece, sin dall'infanzia, si era dimostrato di carattere
più vivace: spesso infatti era lui a trascinare Sesh, molto
più razionale, nelle sue avventure. Compensava il naso di
proporzioni piuttosto grosse con un carisma affascinante, capace di
coinvolgere anche il suo migliore amico – indipendentemente
dalle motivazioni che muovevano entrambi.
Non era una persona ambiziosa e soprattutto si era dimostrata, nel
corso degli anni, afflitta da una certa pigrizia di fondo che non
voleva mai andarsene, eccetto per cercare infantilmente ore di svago
per la città; ad entrambi andava bene ugualmente, si
compensavano perfettamente sia nei difetti che negli eccessi.
Eppure a volte Sesh aveva la triste sensazione che Hemeb non fosse
così indifferente come voleva fargli credere; in quanto
fratello fedele di una vita conosceva la relazione d'amore con
Meritaten e mai gliene aveva fatto una colpa: certamente accettava che
il suo migliore amico avesse il privilegio di essere l'amante di una
principessa, per quanto decaduta, e spesso lo copriva cercando la
complicità delle altre guardie con una bevuta in compagnia.
Nonostante questo dentro di sé Sesh però
percepiva un certo astio, una invidia che presto lo avrebbe annientato:
il peso della diversità tra i due, anche con anni di
amicizia alle spalle, era evidente; un marchio indelebile che li
rendeva inevitabilmente differenti, sebbene Sesh non si fosse mai
sentito un privilegiato.
“Allora, amico mio, bevi tutto solo in una sera come
questa?”
Il giovane lo guardò negli occhi, più scuri dei
suoi, e ammise incurvandosi nelle spalle:
“A breve parto per il confine.”
Hemeb ridacchiò: “Lo so. Io vengo con
te.”
A quelle parole Sesh apparve palesemente stupito; se avesse avuto della
birra in bocca probabilmente gli sarebbe andata di traverso:
“Che stai dicendo?”
Il vicino ordinò con fare allegro da bere, infine si
voltò nella direzione del suo interlocutore:
“Non crederai di essere l'unico bravo di cui Ai si fidi,
spero.”
“Non è questione di fiducia. Ai spera che io muoia
laggiù e tu sai il perché; sono diventato un
personaggio scomodo per i suoi progetti.”
Tra i due calò il silenzio. Hemeb abbassò la
testa, perdendosi nella contemplazione della propria bevanda, e per
diversi istanti non trovò nulla da dire.
Poi, senza preavviso, iniziò a chiacchierare del passato,
dell'amicizia che li legava fino a renderli compagni d'avventura
indivisibili. Rievocò i pomeriggi adolescenziali passati tra
le strade appena costruite di Akhetaton, dopo che avevano vissuto nei
villaggi in vicinanza di Tebe – radicata nel Sud dell'Egitto.
Così i due passarono i momenti notturni ridendo nel
ricordare la loro improvvisata caccia alla gazzella quando si
addentravano nei margini del deserto, alle porte della loro polverosa
cittadina, oppure gli scherzi che compivano a danno dei poco pazienti
costruttori presso l'Orizzonte di Aton, i quali tiravano loro addosso
panetti d'argilla per poi ridacchiare e riprendere il lavoro.
Era quella la vita spensierata che entrambi amavano, per quanto gli
eventi l'avessero travolta anno dopo anno, inducendoli ad abbandonare
l'età giovanile fatta di svaghi e allenamenti in compagnia
per trovarsi immersi nella fase adulta: responsabilità,
impegni e le relazioni vere con il mondo umano.
Quando, diverse scodelle dopo, Hemeb si alzò
salutò il proprio amico con apparenza di affetto, facendo
per allontanarsi. Sesh lo seguì con lo sguardo e, sebbene
avesse la vista un po' appannata, notò che il compagno
d'addestramento aveva al suo fianco una spada di pregevole fattura:
“Da quando in qua vai in giro con un'arma così
bella?”
Hemeb si paralizzò, dilatando le narici già
grandi del naso, per poi voltarsi e rispondere spensierato:
“Beh, ho messo i miei risparmi da parte. A breve
dovrò saldare il conto.”
Abbassò la testa e, senza aggiungere altro, si
affrettò verso l'uscita borbottando qualcosa in saluto. Sesh
si strinse nelle spalle, massaggiandosi infine la testa con fare
stanco; quando si girò vide che il locale era ormai deserto
e fu allora che decise di andarsene a sua volta, con la speranza
ironica di riuscire a tornare a casa. Tornare a casa... sarebbe stato
bello poterlo fare anche quando si fosse trovato nel deserto vero.
Terminologia
Unguento:
le persone di alto rango usavano cospargersi il corpo di unguenti
odorosi, oppure posare coni profumati in testa che, con il caldo, si
scioglievano sulla parrucca. Tali unguenti venivano riposti in
unguentari appositi, generalmente simili a fiasche di piccole
dimensioni, adatte per far colare poco a poco il prezioso liquido.
Khol: nome
arabo per definire il trucco, anche se non è quello
utilizzato dagli antichi egizi. La spessa linea nera che ornava il
contorno degli occhi serviva, più che per bellezza, per
protezione dal sole ed eventuali abrasioni della pelle.
Terra Nera:
Gli egizi denominavano la loro patria Taui, ovvero le Due Terre. La
terra nera è dove vivono, mentre quella rossa è
il deserto, patria di Seth e di contatto con i defunti.
Hattusa:
Capitale Hittita, situata tra le montagne anatoliche. Dell'immensa
cinta muraria oggi rimangono alcuni resti, con annesse delle
ricostruzioni complete di merlature, rese possibili grazie ai modellini
votivi.
Res Gestae:
I sovrani Hittiti usavano scrivere le loro imprese su tavolette che
venivano conservate negli archivi reali. Ovviamente spesso e volentieri
i resoconti erano piuttosto tendenziosi, volti ad ingigantire la figura
mitica del re: nonostante questo si sono rivelate delle preziosi fonti
storiche per la verifica di avvenimenti storici.
Cuneiforme: A
quell'epoca la corrispondenza internazionale era scritta interamente in
akkadico e si utilizzava l'alfabeto cuneiforme, il cui andamento
generalmente procedeva su colonne verticali.
Dahamunzu: Parola
Hittita per chiamare la Sposa Reale, moglie del Faraone.
Ishtar: Dea
venerata dagli Hittiti come dai babilonesi. Conosciuta nelle leggende
anche come maga ed incantatrice.
Hyksos: Popolo
probabilmente di origini pastorali, di provenienza non chiara. Invase
l'Egitto e vi regnò per duecento anni, approssimativamente
dal 1730 al 1530: la loro capitale venne stabilita ad Avaris, nel delta
del Nilo. La dominazione Hyksos verrà definita dagli storici
Secondo Periodo Intermedio e avrà fine con la riconquista
delle terre da parte di Ahmosis che darà inizio alla XVIII
dinastia, dinastia della quale fanno parte anche sovrani come Akhenaton
o Tutankhamon.
Api: Dio
del fiume egizio. Veniva raffigurato con volto maschile ma aveva il
seno da donna, così da rappresentare la completa idea di
fertilità e rigenerazione che simboleggiavano il Nilo stesso.
Birra: La
bevanda tipica. Si consumava durante i pasti molto fresca e nelle
taverne era regolarmente servita; solitamente la si teneva in
refrigerio in giare interrate ed era utilizzata da una vasta fascia
della popolazione, al pari dell'acqua. Il vino invece era privilegio
delle alte fasce e venne commerciato grazie ai contatti con Creta.
A testimonianza dell'ampio consumo popolare della bevanda vi sono,
oltre ai corredi funebri, anche le iscrizioni funerarie che prevedevano
ampi quantitativi da trasportare per la vita nell'aldilà.
Senet:
gioco da tavola tipicamente egizio. Composto da una scacchiera
rettangolare, possedeva pedine che i giocatori dovevano muovere lungo
un percorso fatto a scacchiera: lo scopo è quello di
riuscire a raggiungere l'aldilà.
Sproloqui
di una zucca
Questa storia si
è classificata 3^ al concorso "History", indetto da Dike
Nike. Sono soddisfatta dellla posizione perché mi rendo
conto di aver davvero azzardato a presentarla: l'unica originale,
quindi rispetto a una fanfictions risulta più difficile
valutare i personaggi - e infatti proprio la voce personaggio
è stata quella che mi ha penalizzato X°D
Amo questa storia e
amo l'Egitto *____*
Grazie a Dike e a Yuri
per il contest, complimenti ancora a tutti i partecipanti e grazie a
coloro che hanno letto ^O^
Al prossimo capitolo
<3
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