Pas de mystères en cuisine
L’uomo scese dal taxi sul Quai des Grands Augustines, all’altezza
dell’Hôtel Feydeau de Montholon.
Aveva già visitato l’hôtel e parlato con il personale il giorno
precedente, ma non ne aveva cavato un ragno dal buco. Tuttavia,
intendeva raggiungere la sua meta per quel giorno a piedi e dai pressi
del Feydeau si scendeva con agio alla promenade sugli argini.
L’uomo si avviò nell’aria frizzante, stringendosi nell’impermeabile
troppo leggero per Parigi a fine ottobre. Incontrò altre persone che
passeggiavano, uomini distratti e perdigiorno, una coppia e qualche
fotografo intento a ritrarre le piccole barche colorate agli approdi o
le chiatte in lontananza. Nei pressi del pont Saint-Michel diversi
pescatori sedevano sulle loro seggioline dietro alle canne; lo
salutarono con cenni cordiali e sbuffi di tabacco subito rubati dalla
brezza umida della Senna.
L’uomo rispose ai saluti, pensando: ‘Ecco, ecco, proprio così.’
Doveva attraversare il ponte per raggiungere la sua destinazione, forse
l’ultima tappa della sua indagine. Avrebbe potuto essere la prima, il
ristorante Les Deux Palais era proprio davanti alla Prefettura della
Polizia, ma lui aveva preferito cominciare la sua ricerca in ordine
cronologico, per così dire, e quindi dalla pensioncina a Bercy,
seguendo tutte le tappe fino al Feydeau de Montholon. Ma ora era lì,
davanti al ristorante: era arrivato all’ultimo giorno da ricostruire,
dalla sveglia nel piccolo appartamento di rue de Séguier all’inizio
dell’ultimo turno di lavoro. Non restava che entrare.
Ma l’uomo indugiò a fissare l’ingresso e le vetrate. Se in attesa o in
contemplazione, chi poteva dirlo?
Occuparsi di un ristorante proprio davanti alla Prefettura certamente
aveva influito sulla sua attitudine a far caso ai dettagli, si disse il
maître de Les Deux Palais. Insomma, con tutto quel via vai di
poliziotti e avvocati e giudici dal Palazzo di Giustizia e tutto quel
parlare di casi, vittime, assassini, alibi e testimonianze, un uomo
inevitabilmente finiva per fare l’occhio a certe cose. Quando poi
l’uomo in questione è meticoloso e attento per la natura stessa della
sua professione, ecco che non può mancare di notare se c’è qualcuno
impalato a fissare le vetrate del proprio ristorante, cercando di
sbirciare all’interno.
Il maître studiò l’uomo dall’altra parte della strada.
Chi poteva essere? Un informatore, magari, che aspettava un ispettore?
Di sicuro non aveva l’aria dell’avvocato, con quell’impermeabile da
poco e le scarpe marroni. Ma neppure aveva l’aria del delinquente:
troppo sobrio e composto. Sembrava piuttosto un agente di commercio, o
il proprietario di una piccola bottega.
Qualcosa nell’intensità con cui scrutava l’ingresso del ristornate
avrebbe potuto far pensare a un poliziotto tutto preso dalla sua pista.
Ma il maître conosceva tutti i poliziotti che lavoravano alla
Prefettura, anche quelli che non frequentavano abitualmente il Les Deux
Palais, che, se gli era concesso dirlo, era un luogo di un certo
livello e ospitava più spesso i commissari che non i loro i loro
agenti, più a loro agio nelle numerose brasserie del quartiere.
Comunque, l’uomo sul marciapiede era uno sconosciuto.
Il maître sospirò e accantonò temporaneamente il mistero. Richiamò
all’ordine i camerieri che oziavano e pensò di affacciarsi alla cucina
nel caso ci fosse bisogno di lui.
Forse l’uomo sarebbe rimasto a fissare la porta de Les Deux Palais più
a lungo, ma un gruppo di dipendenti della Prefettura o degli archivi
che stava entrando per un pranzo veloce lo intrappolò in una rete di
battute e cappotti scuri, calze di nylon e sorrisi civettuoli, e lo
sospinse dentro, insieme a un altro gentiluomo con un completo grigio
perla e scarpe di capretto.
L’uomo in grigio si diresse al bancone in fondo al locale e ordinò da
bere senza esitazioni accomodandosi con cura su uno sgabello, mentre il
nostro uomo sedette a un tavolo in disparte rispetto al gruppo di
colleghi schiamazzanti.
Osservò il locale, notando le tovaglie bianche e i fiori freschi sui
tavoli, le ceramiche semplici ed eleganti e i mobili scuri lucidati
spesso.
Sospirò: il posto era raffinato e ovviamente ben frequentato e questo
non gli tornava per niente. Ma d’altronde neanche il Feydeau de
Montholon gli tornava.
E tuttavia, non c’erano dubbi che fosse nel posto giusto.
Un cameriere solerte gli si avvicinò e lui ordinò un vermouth.
“Siete nuovo di qui, monsieur, non è vero? Non gradireste ordinare
anche qualcosa da mangiare? La nostra cucina è rinomata, se mi è
concesso dirlo,” gli disse il cameriere con sbrigativa cordialità.
“Perché no?” rispose l’uomo. “Dica un po’…” cominciò poi, ma altri
clienti entrarono e il cameriere gli assicurò in fretta che sarebbe
stato servito immediatamente e lo lasciò.
L’uomo non insistette. Bevve il suo vermouth a piccoli sorsi mangiando
la gougère che arrivò subito.
Aveva indugiato a lungo sul marciapiede, non gli avrebbe fatto male
indugiare un altro po’ all’interno del ristornate.
‘Alla fine è entrato,’ constatò il maître, controllando l’uomo dagli
oblò della cucina, allo stesso modo in cui gli chef sovente spiavano la
sala come attori che sbircino il pubblico dalle pieghe di velluto rosso
prima che si alzi il sipario.
Si rendeva conto che quel comportamento era al di sotto di lui, ma come
servire vino a poliziotti per tutta la sua carriera lo aveva reso
attento ai dettagli come un investigatore, così lavorare a stretto
contatto con la cucina lo aveva reso pettegolo e impiccione come i
cuochi stessi.
“Chi sorvegli con tanta attenzione, amico mio?” gli chiese infatti uno
di loro, un italiano che arrivava dalle isole calde e assolate del sud,
con una strizzatina d’occhi divertita.
“Sorvegliare la sala è il mio mestiere,” gli rispose.
“E perché non sei fuori in sala?” chiese ancora quello, affacciandosi a
sua volta dall’oblò.
Il maître non lo sapeva. Ma gli pareva, ora, che l’uomo avesse un’aria
familiare.
Lasciò la cucina dopo aver servito un bicchiere di Beaujolais a tutti
gli chef, che già si preparavano all’invasione da fronteggiare da lì a
poco.
Il gruppo di colleghi allegri se ne andò dopo l’aperitivo, con panini e
vettovaglie per il resto dell’ufficio, forse, e altri clienti entrarono
alla spicciolata riempiendo a poco a poco la sala.
Camerieri in camicia bianca e divisa nera prontamente cominciarono a
ronzare attorno, sulle note delle chiacchiere e del frusciare della
fiandra delle tovaglie.
L’uomo col completo grigio perla era ancora al bancone a bere.
Il nostro uomo, invece, tamburellava le dita sul menù chiuso sul suo
tavolo, gli occhi che perlustravano la sala, ma non in cerca di un
cameriere che prendesse l’ordinazione.
Ma come il maître vi avrebbe ripetuto, Les Deux Palais era un locale di
classe e i clienti non venivano lasciati ad aspettare un secondo più
del necessario.
“Tutto a posto con l’aperitivo, monsieur? Pronto a ordinare?” chiese
infatti il cameriere che lo aveva servito precedentemente.
L’uomo al tavolo interruppe il suo scrutare: “Sì. Una gougère come non
ne assaggiavo da tempo. Ma non sono qui per pranzare: voglio parlare
con il maître, o il padrone.”
“C’è il maître, monsieur. Chi lo desidera?”
“Il mio nome è Maximilien Ériau e devo rivolgergli alcune domande su un
fatto increscioso.”
Il cameriere rimase in silenzio solo per un istante: “Molto bene. Lo
avvertirò subito.”
Il maître aveva distolto lo sguardo dal nostro uomo, di cui ora
conosciamo il nome, alle prese con i suoi doveri, ma non si era certo
dimenticato di lui.
I suoi occhi si illuminarono quando sentì: “Brizard, c’è un cliente che
chiede di voi.”
Bene! Finalmente avrebbe saputo!
“Certamente,” rispose, senza neanche chiedere di quale cliente si
trattasse.
Il cameriere esitava.
“Che succede? Hai altro da dire?”
L’uomo si era presentato? Era un poliziotto, una spia, un reale
d’Inghilterra in incognito? Si decidesse a parlare!
“Credo…credo che sia il fratello di Émilien…”
L’uomo al tavolo sollevò lo sguardo sul gentiluomo, distinto e formale,
che si avvicinò.
“Monsieur Ériau, sono il maître de Les Deux Palais. Mi era sembrato di
percepire in voi una certa aria familiare, un qualcosa di già
conosciuto.”
Ériau annuì. “Ho delle domande per voi, monsieur, e per gli altri
dipendenti. Spero sarete così gentile da volermi rispondere,” disse con
voce dura.
“Ma naturalmente. Questo tuttavia non è il luogo adatto, non credete
anche voi?”
Ériau annuì ancora, soddisfatto, e si alzò in piedi per seguirlo:
“Avete un ufficio?”
Il maître sorrise: “Certamente. Ma il vostro posto non è il mio
ufficio, monsieur.”
“Ah, no? E quale sarebbe?”
“La cucina, ovviamente.”
Quando Brizard ritornò in cucina i cuochi lo fissarono attenti: cos’era
quella storia del cliente misterioso che aveva addirittura portato il
loro maître a trascurarli? Ed era quello, l’uomo in questione? Un tipo
serio, a vederlo, ma di sicuro non parigino. Era facile capirlo per
loro, che erano tutti parigini d’elezione e sapevano cosa ci vuole per
rivestire quel ruolo.
“Signori, ho il piacere di presentarvi Maximilien Ériau.
Comprensibilmente, ha qualche domanda per noi tutti,” disse Brizard.
La cucina parve fermarsi del tutto, ora. Anche sous-chef e assistenti
dimenticarono le loro mansioni e le strigliate che sarebbero potute
arrivare.
Ériau appariva spaesato nella cucina calda e luminosa in quel
mezzogiorno autunnale. Sapeva quante persone ci lavoravano e le storie
di alcuni: la capo-cuoco, un caso più unico che raro nelle cucine più
rinomate, alta e spigolosa; l’italiano che sognava di tornare al suo
sud ma non riusciva a lasciare Parigi, il gigantesco e taciturno
ungherese e il provenzale gioviale e chiacchierone.
Ma come nella sala del ristorante, qualcosa non gli tornava.
“Saremo felici di aiutarvi, monsieur,” sorrise la donna. Lanciò
un’occhiata attorno e gli assistenti ripresero a tagliare, sminuzzare,
mescolare. Lei invece gli si fece incontro come una padrona di casa:
“C’è qualcosa in particolare che desiderate sapere?”
Lui si ritrasse dal tono caldo e accogliente.
“Ho diverse domande, ma la maggior parte si concentra su quello che è
successo il giorno del 20 settembre.”
Tutti si scambiarono sguardi.
“Che significa?” chiese l’italiano, avanzando verso di lui.
“Il 20 settembre uno dei vostri colleghi è morto. Il suo corpo è stato
ripescato del fiume due giorni più tardi,” cominciò Ériau. “Sto
ripercorrendo tutti gli avvenimenti di quel giorno. Scoprirò cosa è
successo.”
In realtà, Ériau aveva ripercorso ben altro che il giorno del 20
settembre.
Aveva rivissuto la vita del morto dal momento in cui aveva messo piede
a Parigi, alla fine del ’46, visitando squallide pensioni e
interrogando datori di lavoro per occupazioni saltuarie, poi padroni di
bistrot e brasserie, fino ad arrivare all’anno passato a Feydeau de
Montholon, fino al Les Deux Palais, fino all’appartamento in rue de
Séguier da cui il morto era uscito la mattina del 20, leggermente in
ritardo rispetto al solito, per andare al lavoro a piedi passando da
Place Saint-Michel e poi per il ponte, incrociando i fotografi, gli
sfaccendati, i pescatori.
“Ma…c’è già stata un’inchiesta della polizia,” disse il provenzale.
“Non c’è niente da scoprire.”
La donna scrutò con attenzione Ériau.
“D’accordo,” disse infine. “Possiamo certamente rivivere quel giorno. È
in qualche modo impresso nella nostra memoria. Faremo una bella
chiacchierata. Ma nessuno, nella mia cucina, nel nostro ristorante, fa
conversazione senza del buon vino e senza assaggiare qualcosa.”
“Ben detto, mia cara,” le diede manforte il maître ed Ériau si ritrovò
a sedere con un bicchiere in mano.
“Del buon vino fa bene all’anima, monsieur, e l’anima non è cosa da
trascurare, anche se non si ha l’inclinazione per gli ostensori e gli
altari,” disse ancora, facendogli cenno di bere il suo Beaujolais.
Un assistente si avvicinò con un vassoio di canapè all’ordine
perentorio dell’italiano.
“Bene,” concesse Ériau. Ma era il momento di cominciare. “Il morto, che
morto non era, ancora, ha lasciato casa più tardi del solito, secondo
madame Moers, la padrona. Quasi alle sette e mezzo invece che alle
sette. Potete confermare che arrivò qui in ritardo?” disse, citando
nomi e orari a memoria, senza consultare un taccuino come avrebbe fatto
un agente o un ispettore, ma di nuovo con quell’aria da investigatore
che aveva colpito il maître quella mattina.
Tutti confermarono che Émilien era arrivato in ritardo.
“Non vi è sembrato strano?”
“Non ne abbiamo pensato niente. Ci siamo messi al lavoro come al
solito.”
“Che cosa ha fatto il morto quando è arrivato?”
“Ha cominciato a riordinare la dispensa con Kez e Anthime, non è vero?”
disse la capo-cuoco, indicando con un cenno del capo l’ungherese e un
piccolo assistente dall’aria nevrotica. Aveva ripreso quello che la
occupava quando Ériau era entrato in cucina: tritava scalogno,
cerfoglio e dragoncello. “Volete forse vedere la dispensa?” propose,
mescolando il tutto in una ciotola di panna acida con una frusta.
“Perché no?” rispose Ériau.
Seguì l’ungherese che si era mosso per fargli strada ed entrò dopo di
lui nella dispensa.
Era una stanza grande, stipata di scaffali ricolmi di verdura,
barattoli, trecce d’aglio e cipolle, salami e cacciagione appesi al
soffitto. In un angolo stava la ghiacciaia, con i pacchetti di carta
oleata azzurrina del macellaio, il latte e la panna.
“Di che avete parlato, mentre lavoravate?” chiese.
L’altro uomo si strinse nelle spalle: “Abbiamo lavorato e basta.”
L’ungherese era grande e massiccio, il genere d’uomo con cui nessuno
vuole attaccar briga, neanche i suoi connazionali, e su cui i bambini
si scambiano storie sinistre.
“Aveva nemici, il morto? Screzi? Antipatie?”
“Non con me. Era un bravo ragazzo.”
Ériau prese un sorso dal bicchiere che aveva portato con sé, studiando
il piumaggio sgargiante di un’anatra appesa a testa in giù.
“È ora di pranzo. Il ristorante si riempirà, devo tornare in cucina,”
disse l’ungherese.
Ériau riemerse con lui nella cucina luminosa.
“Cosa avete fatto dopo aver sistemato la dispensa?” chiese.
“Abbiamo cucinato.”
Attorno a loro gli altri chef erano già in movimento: utensili
passavano di mano in mano, le temperature dei forni venivano
controllate, una processione senza sosta estraeva ingredienti dalla
dispensa che Ériau aveva appena visitato.
Come la cucina anche la sala si stava rianimando: si udiva rumore di
sedie, voci, il via vai dei camerieri, il saluto squillante del maître
ai clienti più prestigiosi.
“Se volevate sapere com’erano le giornate di Émilien, monsieur, siete
nel posto giusto al momento giusto. Mettetevi comodo,” gli disse la
capo-cuoco.
Sotto le sue mani filavano velocissime scaloppe da saltare, erbe da
incorporare nel burro, primizie da scottare.
Ériau osservò, suo malgrado affascinato, il tumulto che nasceva attorno
a lui. Non aveva mai avuto grande interesse per l’atto di cucinare, ma
d’altronde non aveva mai assistito a uno spettacolo del genere.
Dapprima lentamente poi a ritmo vertiginoso, la cucina e i suoi chef
cominciavano a creare e a vociare. Chiamavano a gran voce acqua, vino,
olio, brodo e consommé. Accenti e lingue diverse si mescolavano,
insieme al pronto “Oui, chef!” degli assistenti e alle comande dei
camerieri che irrompevano ogni pochi minuti, facendo sobbalzare Ériau.
“Due linguine alla provenzale e un filetto di manzo alla salsa
bernaise!”
“Fricassea di pollo e coniglio per quattro!”
“Due risotti e una zuppa provenzale, in fretta!”
“Mangiate qualcosa, monsieur Ériau. Bisogna essere saldi, nella cucina
di un ristorante,” gli disse l’italiano, saltando carne e soffritto
sulle fiamme. Indicò col mento i canapè.
Ériau prese il bicchiere, invece.
“Indubbiamente ci vogliono nervi saldi,” rispose. “Il morto li aveva?”
L’altro fece una smorfia: “Vorrei che non lo chiamaste ‘il morto’. Sì,
Émilien non si lasciava spaventare facilmente, non aveva paura del
lavoro. Altrimenti Brizard non lo avrebbe tenuto.”
Ériau annuì tra sé, aggrappato al suo vino nel piccolo maelstrom della
cucina, al posto dell’uomo il cui corpo era stato ripescato dal fiume
due giorni dopo il 20 settembre.
Ériau lo immaginò scivolare con la corrente oltre il pont Saint-Michel,
nel buio, e anche lui si sentì scivolare. Si riebbe con un sobbalzo.
Continuavano a riempirgli il bicchiere e di questo passo sarebbe caduto
dallo sgabello che gli avevano offerto.
Occhieggiò i canapè, piccoli e delicati, perfetti per essere mangiati
in un boccone. Ne prese uno, una cocotte di pasta brisée ricolma di
formaggio di capra ed erba cipollina. Era delizioso. E la pasta era
all’altezza della gougère che aveva preso con l’aperitivo quand’era
arrivato al Les Deux Palais.
Un assaggio ne chiamò un altro, un crostino con crema al pistacchio, e
poi un altro ancora.
“Vi piace?” domandò il provenzale.
“Ottimi,” rispose lui.
Il cuoco gli fece un cenno solenne del capo. “Sentite, non volete dirmi
che cosa ci fate qui? Non è tutti i giorni che ci si ritrova qualcuno
in cucina così.”
“Intendo scoprire cosa è successo il 20 settembre. Chi ha ucciso il
vostro collega.”
Il provenzale sgranò gli occhi: “Ucciso? Sappiamo quello che è successo
il 20: Émilien non è stato ucciso!”
“L’ungherese sostiene che non aveva nemici, né screzi con nessuno…”
“Appunto! Tutti gli volevamo bene.”
“So che il morto lavorava qui da un anno. Non molto, eppure ha fatto
carriera in fretta,” incalzò Ériau.
“Brizard ha occhio per il talento,” intervenne la capo-cuoco.
“Lo definireste talento? Era un giovane talentuoso, il morto?”
“Sì,” rispose lei senza esitazioni.
“Qual era la sua specialità? Il suo campo?”
“La cucina tradizionale. Le ricette che i parigini preferiscono.”
Ériau annuì: la cucina tradizionale francese, di cui il morto aveva
appreso le basi al Feydeau de Montholon, con sua grande sorpresa.
“E non c’è già qualcuno tra voi esperto di ricette tradizionali?”
“Certo che c’è. Questo è un ristorante di Parigi: sappiamo cosa
vogliono mangiare i parigini,” lo rimbeccò il provenzale.
“Un ragazzo talentuoso, arrivato da poco, avrebbe potuto risvegliare
gelosie,” disse Ériau.
Cuochi e assistenti si scambiarono sguardi al di sopra delle pentole
fiammeggianti, del vapore e del ruggito dei forni.
“Il talento non ci spaventa, monsieur Ériau,” sorrise la capo-cuoco.
“Apprezzavamo Émilien e la sua cucina. Dovremo cogliere l’occasione per
dimostrarvelo. Thèo, chiama Brizard.”
Un assistente schizzò fuori dalla cucina e ritornò subito con il maître.
“Monsieur Ériau sarà nostro ospite per il pranzo,” annunciò la donna.
“Desidera rivivere l’ultimo giorno di lavoro di Émilien, conoscere lui
e noi, per così dire.”
Ériau fremette sotto il suo sguardo penetrante. Pensò di parlare, ma
non ci riuscì.
“Non c’è modo migliore di conoscere un cuoco che assaggiare le sue
ricette,” continuò la capo-cuoco impassibile.
Il maître annuì: “Molto bene, Annie, ma chère. Manderò un cameriere a
preparare un coperto. A me spetta la scelta del vino. Non rimarrete
deluso, monsieur.”
In un attimo, Ériau si ritrovò accomodato a un tavolino un po’
traballante preparato con la stessa fiandra e le ceramiche impeccabili
della sala.
Brizard si accostò a lui con la stessa posa che riservava ai clienti
migliori: “È un evento più unico che raro aver un’intera brigata di
cucina dedita alla propria soddisfazione. Il servizio, forse, lascerà
un po’ a desiderare, ma confido che i vantaggi di questa sistemazione
saranno di gran lunga superiori agli svantaggi.” Batté le mani
soddisfatto e un cameriere gli passò una bottiglia. “Per accompagnare
gli antipasti, uno Chablis. Un ottimo abbinamento, se posso
permettermi, con quello che il nostro Zavié le propone.”
Il provenzale depositò il piatto davanti a Ériau: “Insalata di
champignon. È una ricetta tradizionale, preparata con olio, limone,
sale pepe e prezzemolo tritato, ma con un piccolo guizzo di Émilien:
alloro e finocchietto*.”
Ériau fissò il piatto. “Un…guizzo?”
“Un guizzo, sì. Un’ispirazione improvvisa, un’idea folle e inaspettata
che si tramuta in un piccolo gioiello.
Era tipo da guizzi, il morto? L’uomo che si era trasferito a Parigi
all’improvviso, dopo la Guerra, per fare carriera come chef invece di
tornarsene a casa, al paese…Sì, sì, poteva essere, concesse Ériau
prendendo la forchetta.
I funghi erano crudi, tagliati a strisce sottili nel verso della
lunghezza. Un ciuffo di erbe aromatiche decorava un angolo della
ciotola di ceramica bianca nella quale erano stati serviti. Avevano un
profumo stupendo.
Il maître era tornato in sala e la cucina non si era certo fermata,
attorno a Ériau: tutti vociavano e gesticolavano come il coro di una
tragedia greca in tumulto.
La capo-cuoco ripeteva le ordinazioni, chiedendo a che punto della
lavorazione erano, ordinava che qualcuno le passasse del vino e facesse
attenzione; gli assistenti correvano in giro rispondendo “arriva!” ad
ogni richiesta, pomodori sott’olio e olive per l’italiano, alloro,
menta e aglio per il provenzale, peperoni e paprika per l’ungherese.
Ma in quel coro mancava una voce, la voce del morto: Ériau sentiva il
silenzio, la nota stonata di quel vuoto, ma non riusciva, per tutto
l’amore del mondo, a immaginare come dovesse suonare.
Il maître riapparve accanto a lui come un fantasma, per proporgli
dell’altro vino da accompagnare alle ostriche in guazzetto con funghi
porcini e carciofi.
“Non voglio oscurare la delicatezza di questo piatto, perciò vi
propongo qualcosa di leggero,” disse. “Nel frattempo potete osservare
Giacomo preparare il vostro primo.”
L’italiano stava mettendo assieme un trito di acciuga, peperoncino e
aglio.
“È una ricetta che piaceva molto a Émilien,” disse. “Risotto al cognac
con scampi.” Aggiunse al trito le code degli scampi con sale e pepe e
irrorò il tutto di vino bianco. “Il risotto è quasi pronto: è saltato
per qualche minuto con una cipolla rosolata e cotto con vino bianco e
alloro. Ecco.” Aggiunse prezzemolo e quattro cucchiai di cognac e poi
le code che aveva fatto soffriggere con l’acciuga. Unì burro e il
tuorlo di un uovo e cominciò a mescolare con foga. Decorò il piatto con
due degli scampi rimasti e lo posò di fronte a Ériau.
Lui rimase ad osservare mentre un nuovo bicchiere di vino, un Graves,
questa volta, appariva a portata di mano.
“Perché…perché amava questa ricetta?” chiese con un filo di voce.
“La prima che ha preparato da solo qui, al Les Deux Palais,” sorrise
l’italiano. “Gli ho insegnato io a prepararla, ma è diventata la sua
specialità,” aggiunse con una nota liquida di orgoglio nella voce.
Gesticolò al maître per avere anche lui del Graves.
Ériau gustò il piatto in silenzio, dimentico per qualche minuto almeno
del caos che lo circondava.
Si riebbe quando la sua forchetta grattò con poca grazia sulla ceramica
bianca.
Risollevò gli occhi sui colori che lo circondavano: proprio in quel
momento l’ungherese spiumava un fagiano, sbarazzandosi in fretta delle
lunghe penne nere e marroncine della coda e delle piume rossastre, per
poi metterlo a bollire con aromi e verdure.
“Il fagiano sarà servito con burro, cipolla, scalogno, vino bianco,
tuorli d’uovo e panna, con un contorno di patate e spinaci; il brodo,
invece, servirà per preparare un’altra ricetta tradizionale francese,
la minestra di Condé,” lo informò la capo-cuoco.
E gli chef non avevano ancora finito con lui, constatò Ériau: gli
servirono braciole cotte con brandy, panna, brodo, limone e salvia,
accompagnate da piselli alla menta, assieme all’ennesimo bicchiere di
vino, mentre davanti a lui gli assistenti preparavano lumache alla
bourguignonne, cotte lentamente con sedano e alloro profumatissimo per
più di tre ore, che ora venivano estratte dal guscio per far posto alla
crema di burro e odori; poi le lumache sarebbero tornate nella loro
casa per cuocere con un pizzico di sale e per finire sarebbero state
passate ancora in forno.
Un assistente riassunse per lui la lunga e laboriosa preparazione con
evidente fierezza per il proprio lavoro. Chissà quante ore aveva
passato il morto a spurgare lumache con assistenti e sous-chef, da
quando era arrivato al ristorante.
Ériau finì le braciole e assaggiò le lumache, sotto lo sguardo
d’approvazione del maître.
E dopo le lumache sembrava che dovesse assaggiare ogni piatto in
preparazione, per farsi un’idea, perché questo non poteva proprio
perderselo, perché sarebbe stato un delitto avanzare del cibo, perché
poteva cogliere l’occasione di farsi viziare un po’, non è vero? Ed
ecco che gli offrivano un tortellino al nero di seppia con il ripieno
d’astice condito con burro fuso e foglie di radicchio rosso, un
cucchiaio di zuppa di cipolle gratinate e di Bouillabaisse, una
forchettata di manzo bourguignon, un morso di coscia d’anatra, cosce di
rana, un boccone di questo, una punta di quello, e al diavolo se
l’ordine dei piatti non era rispettato e ogni formalità si era persa
per strada, almeno finché il maître non fosse tornato e avrebbero tutti
dovuto ricominciare a comportarsi propriamente.
Mentre lui mangiava, i piatti su cui gli chef lavoravano erano
cambiati: tarte tatin e creme, strudel e macarons, zabaione e
cioccolato, pasta frolla e zucchero a velo lo circondavano.
Ériau si sentiva un bambino perso in un sogno sfrenato. Insieme al
profumo dei dolci e ai colori glassati la sua mente gli proponeva
strane sensazioni: mani e nasi gelati e frenesia a stento trattenuta,
luci dorate e musica, quella sensazione d’attesa deliziata che fa
trattenere il respiro.
L’ungherese gli si avvicinò: “Il vostro dessert, monsieur. Una crêpe
ungherese di noci, uva passa, zeste d’arancia candite, rum e cannella,
servita flambé in una salsa di cioccolato, panna e cacao.”
“Una splendida scelta, vecchio mio,” disse il maître, che aveva
riportato un po’ d’ordine e buone maniere in cucina col suo ritorno.
Depositò accanto al dolce un bicchierino di vino passito di Sauternes.
“E questa è l’ultima ricetta,” continuò l’ungherese. “L’ultima che
Émilien ha appreso nel nostro ristorante.”
Ériau assaggiò la crêpe e si lasciò andare alla cosa più vicina a un
sorriso che gli avessero visto in faccia.
“Mi ricorda…” cominciò, ma non terminò il pensiero.
Con quell’assaggio tutte quelle vaghe sensazioni si erano condensate in
un ricordo preciso: la fiera d’autunno, le frittelle di mele e lo
zucchero filato, il vino caldo per gli adulti, l’aria gelida della sera
che annunciava lo spettacolo del mangiafuoco e poi il teatro, lui e suo
fratello e gli altri bambini con la gola serrata dall’eccitazione…
Il servizio era concluso e la sala del ristorante era ormai vuota,
tranne che per l’uomo in completo grigio perla che non aveva mai
lasciato il bancone e per un uomo che il maître conosceva bene.
Era ora che monsieur Ériau uscisse a parlargli.
La cucina sembrò piombare in un religioso silenzio dopo il suo ultimo
boccone.
Ériau alzò gli occhi con riluttanza per guardare il maître in piedi
accanto a lui con piglio solenne.
“C’è qualcuno in sala che aspetta di poter conferire con voi, monsieur.
Se volete seguirmi, sarò lieto di servire a entrambi un amaro, o
qualsiasi altra cosa desideriate, mentre parlate.”
Ériau strinse atterrito il bordo del tavolo. No, no, gli serviva altro
tempo, doveva cercare ancora, strillò la sua mente. Invece annuì e si
diresse alla sala.
Il commissario Ravoux gli rivolse un sorriso bonario: “Allora monsieur
Ériau, come va la sua indagine? Il tempo che avevamo concordato si
avvia alla conclusione…”
“Ho tempo fino alla chiusura,” ribatté lui. “Potrei aspettare la
chiusura del ristornate, rifare il percorso fino al pont Saint-Michel
e…”
“E cosa, monsieur? Affacciarvi sull’acqua, salire in piedi sulla
balaustra? Saltare a vostra volta?” chiese Ravoux alzando le
sopracciglia.
“Non è saltato. Non può essere saltato.” Ériau scosse la testa
ostinatamente.
“Mio caro monsieur Ériau, è così che è andata. L’hanno visto. Abitanti
del quartiere, che conoscevano vostro fratello e lo vedevano quasi
tutti i giorni andare al lavoro e tornare a casa a piedi,” disse Ravoux
con tono dolce. “Avete parlato con loro voi stesso.”
“Mio fratello non si sarebbe suicidato!” esclamò Ériau battendo il
pugno sul tavolo.
“Sapete che abbiamo indagato. Ho messo il mio ispettore migliore su
questo caso. Émilien Ériau non aveva nemici, né debiti veri o presunti
che qualcuno rivendicasse e neppure frequentava donne con amanti
gelosi. Se non avete scoperto altro, da questi giorni nei suoi panni…”
“Quello che ho scoperto conferma che non si sarebbe ucciso,” continuò
ostinato Ériau senza guardare la faccia ragionevole del Commissario.
L’uomo sospirò: “Vostro fratello aveva combattuto in guerra. Anche io
sono stato soldato e ho visto atrocità che non scorderò mai. Credo che
nessun uomo possa scordarle. E vostro fratello certo le ricordava bene:
lo so perché ne abbiamo parlato di persona, proprio qui, al ristornate.
Brizard può confermarvi che sono di casa, da più anni di quanto mi
faccia piacere ammettere,” aggiunse, quando il maître portò gli amari.
“Ma tutti qui concordano che…Émilien…aveva i nervi saldi,” pronunciò
Ériau con uno sforzo. “Che non aveva problemi a stare sotto pressione.”
“Molti riescono a restare in piedi finché qualcosa li tiene occupati,
finché la mente non ha spazio che per il lavoro che sta svolgendo. Ma
col sonno, monsieur, arrivano gli incubi,” rispose Ravoux.
“Deve esserci un’altra spiegazione,” insisté Ériau, cocciuto. “Era un
giovane talentuoso e nuovo, qui. Qualcuno, geloso del suo successo,
potrebbe averlo ucciso!”
Ma già mentre pronunciava quelle parole non riusciva più a crederci lui
stesso. Quella calma e intima conoscenza di Émilien che i cuochi e il
maître de Les Deux Palais avevano, quella nota di orgoglio e affetto
con cui pronunciavano il suo nome, il rimpianto senza rimorsi né senso
di colpa per la sua morte.
Ravoux gli lesse in volto che sapeva che la sua accusa era infondata
senza difficoltà.
“Suvvia, monsieur Ériau, non c’è vergogna nel gesto di vostro fratello.
Tanti uomini e donne sembrano normali all’apparenza, ma dentro lottano
con qualcosa. Vede quell’uomo?” Indicò l’uomo in completo grigio perla
che era entrato quella mattina con Ériau. “Ogni quanto viene qui,
Brizard?”
“Una volta al mese, almeno,” rispose il maître. “Sempre ben vestito ed
educato. Beve tutto il giorno, senza pronunciare che poche parole. Alla
chiusura esce da solo, i suoi demoni placati per qualche tempo ancora
dalla comunione del vino.”
“Vede?” riprese Ravoux. “Qualcuno trova il modo di combattere e di
venire a patti col proprio male. A volte scegliendone uno peggiore. A
volte trovando un equilibrio. Ma quell’equilibrio può essere precario.”
“Ma…ma lui sembrava felice,”
gemette Ériau. “Adorava il ristornate e voleva imparare sempre di più:
gli altri cuochi possono confermarlo! E le sue lettere! Se aveste letto
come andava avanti per pagine e pagine col lavoro e Parigi e i
pescatori sul pont Saint-Michel…Forse la Guerra era stata dura, ma era
alle sue spalle.”
Ravoux l’aveva ascoltato sorseggiando il suo amaro e annuendo.
“Può darsi, monsieur. Non sapremo mai con esattezza quello che pensava
vostro fratello. Forse era
felice, quando vi scriveva, quando camminava sul ponte, quand’era qui.
Forse si aggrappava a quelle piccole felicità perché doveva.”
“Ma non è bastato,” concluse Ériau.
Bevve anche lui l’amaro. Non restava altro da fare.
Si alzò in piedi: “Grazie, commissario, di avermi permesso di indagare
a modo mio. Anche se non volevo, non voglio neppure adesso, in fondo,
vedere la verità.”
“Almeno avete visto ancora una scintilla, un guizzo, di vostro
fratello,” offrì Ravoux.
“Un guizzo, sì,” concordò Ériau alzandosi.
“Sarà sempre il benvenuto a Les Deux Palais, monsieur,” gli disse il
maître. “La capo-cuoca e tutta la cucina sperano di rivederla e, nel
frattempo, augurano ogni bene.”
Ériau annuì in direzione della cucina e delle facce ammassate dietro
gli oblò. Salutò il commissario e il maître e uscì dal ristorante.
“Ed ecco che se ne va. Credete che lo rivedremo mai più?” domandò
l’italiano, Giacomo.
“Mi domando se sia riuscito a fare quello che credeva di fare, venendo
qui,” disse invece Zavié. “Ma mi prenda un colpo se l’ho capito, cosa
credeva di fare. Insomma, c’è qualcosa che avremmo potuto dirgli per
farlo stare meglio? C’è qualcosa che avremmo potuto fare per Émilien?
Insomma, non ci mica siamo accorti di quello…Chi si aspettava che…”
Scosse il capo senza terminare.
La capo-cuoco, Annie, sospirò: “Purtroppo, non c’è più niente che
possiamo fare per Émilien. Chi lo sa, se almeno a suo fratello siamo
stati d’aiuto.”
“Ha perso suo fratello, è venuto a cercarlo qui. Tu l’hai accolto come
se fosse di famiglia. Sono certo che almeno un po’ ha aiutato,” offrì
l’ungherese, Kez.
La donna gli strinse il braccio con un piccolo sorriso triste.
Ériau si incamminò verso il Quai des Orfèvres e la Senna. Attraversò il
ponte e come quel mattino scese sugli argini.
La promenade era più popolata ora: era uscito un sole piacevole che
riscaldava quella giornata autunnale.
Ravoux aveva ragione: forse non avrebbe mai compreso fino in fondo
perché suo fratello era morto, ma almeno aveva potuto vedere quel
guizzo di lui, aveva visto di persona le piccole cose che suo fratello
aveva amato e aveva deciso di condividere con lui nelle sue lettere, e
che ancora esistevano.
Émilien non c’era più, ma l’importante era che ci fosse sempre qualcuno
intento a pescare vicino al pont Saint-Michel e qualcuno a preparare le
sue ricette favorite nella cucina de Les Deux Palais.
Note:
*Non garantisco per l’accuratezza delle ricette, perché è passato
parecchio tempo da quando ho fatto quelle ricerche e non so se
all’epoca mi ero preoccupata troppo di mantenerle ‘intatte’. Detto ciò,
non credo che ci siano castronerie gigantesche, ma sono abbastanza
sicura che il finocchietto sui funghi li roviniXD.
Una donna capo-cuoco può sembrare poco probabile, nel 1947, e in
effetti non ho trovato notizie di chef donne in ristoranti moderni
prestigiosi prima di Annie Feolde (di cui ho usato il nome), che però è
nata nel 1945. Tuttavia, sappiamo bene che il fatto che il contributo
femminile a un’arte non sia stato documentato non vuol sempre dire che
non ci sia stato…
Il titolo è ispirato a uno dei romanzi di Poirot, 'Mystère en cuisine'.
Per il contest di Claire Roxy ‘I
miei ultimi undici libri’ ho adattato il ‘nocciolo’ di una
vecchia storia scritta per un NaNoWriMo (cioè: l’ho ridotta a un decimo
della lunghezza originale, ho tagliato metà dei personaggi, ho cambiato
genere e periodo storicoXD)
Il pacchetto scelto è ‘La pazienza di Maigret’
Genere: Giallo
Citazione: L'importante era che ci fosse sempre qualcuno intento a
pescare vicino al pont Saint-Michel.
Ambientazione: Parigi, tra il 1929 e il 1972
Obbligo: Piccoli piaceri (buon cibo, piacere di una bella giornata
eccetera)
|