Aveva
otto anni quando si perse
nel parco. Era sera, il cielo si faceva buio e c'era la musica che
rimbombava nell'aria per via della festa: ricordava i carri enormi di
Halloween che riempivano le strade, la mano sudata della tata e gli
occhi del bodyguard sempre alle sue spalle. La donna ci aveva messo
tanto a convincere la sua madre adottiva a lasciarle andare alla
festa. Prima i carri, la mano sudata che scivolava e si perse nel
parco. Ma la verità era che non si perse affatto:
scappò di
proposito.
Aveva il fiato corto, correndo
incontro ai cespugli. Un attimo prima aveva alzato lo sguardo verso
l'enorme carro con l'enorme strega verde di cartapesta che le puntava
contro il naso adunco quasi con rimprovero, poi si era voltata per
adocchiare il bodyguard della famiglia che era stato incaricato di
accompagnarle e, approfittando del suo attimo di stupore nei
confronti della strega, aveva sfilato la manina da quella sudata
della tata, iniziando a correre a perdifiato in mezzo ad altri
bambini con i cestelli di caramelle in mano. Aveva fatto cadere il
suo di cappello da strega, se n'era accorta solo una volta
accovacciata in mezzo ai rametti che tentavano di punzecchiarle le
costole, poggiando le manine in testa per appiattirlo. Aveva il
fiatone, ma si era tappata la bocca immediatamente sentendo voci
vicine. La musica era ancora molto alta, era sicura di riuscire a
farcela. Lui doveva essersi mosso subito e doveva continuare a
camminare, fosse stato anche a gattoni sull'erba e la terra. Si era
messa d'impegno per scappare. Il cuore le batteva come non era sicura
che riuscisse a fare, aveva la gola secca e le facevano male le mani
per le pietre e i rametti appuntiti schiacciati che calpestava. Ma
aveva più paura a essere ritrovata.
E dopo era successo un fatto
curioso: stava ancora gattonando verso quella che sperava fosse la
salvezza che, a un certo punto, le foglie scure si erano colorate di
viola. Un viola appena più scuro di quello del suo vestitino
da
strega. Tutto era diventato viola: il suolo, le sue mani, gli alberi
lontani. Aveva alzato il viso al cielo per scoprire che era quello a
essere viola. Aveva pensato così che tutti si sarebbero
fermati per
guardare il cielo viola, invece sentiva ancora la musica, il chiasso,
le voci che gridavano e ridevano, come se, il cielo di quella
tonalità, fosse stato solo un altro trucco di Halloween
montato per
divertire il pubblico. Lo aveva ammirato per un po', apprezzando il
riflesso sulle cose intorno e sul suo vestito, sulla pelle, per poi
continuare a camminare. Si era alzata in piedi quando pensava di
essere andata abbastanza oltre. Il cielo viola si stava dissipando e
aveva seguito uno strano odore di bruciato, con attenzione, per paura
di essere scoperta da qualche adulto. Si era affacciata dietro un
albero ma quella che aveva visto era solo una bambina, inchinata
verso un buco per terra: era da lì che usciva il fumo e la
puzza di
bruciato.
«Lo hai trovato tu?». Si era
messa coraggio, avvicinandosi. Non potrebbe mai dimenticare lo
sguardo dell'altra bambina quando aveva capito di essere stata
sorpresa. «No, non lo dico a nessuno che sei qui»,
si era
affrettata a dire, agitando le mani doloranti. «Anche io non
dovrei
esserci». Si era avvicinata e l'altra bambina non le aveva
tolto
occhio di dosso. «Lo so», aveva sbuffato,
portandosi i capelli
corvini all'indietro, «Da quella parte c'è troppo
baccano».
«Eri alla festa?».
Era la prima cosa ad averle
chiesto e lei aveva annuito. «Sì ma me ne sono
andata». Solo
allora aveva guardato verso il buco sul terreno, contraendo le
sopracciglia. «Secondo te, che cos'è?».
L'altra bambina aveva scrollato le
spalle. «Roba aliena».
Lei aveva abbozzato una risata
pensando a una battuta ma l'altra bambina era particolarmente seria.
«No, dai, chiedevo davvero».
«Davvero», aveva ribattuto. «È
caduta quando il cielo ha cambiato colore, ma non ha fatto
chiasso»,
aveva preso a spiegare, puntando in aria l'indice destro per
immaginare la traiettoria, «e nessuno ci ha fatto caso. Il
colore ha
coperto tutto».
«E come mai è qui?». Si era
tirata in su una manica del suo vestito da strega per infilare la
mano nella melma ma l'altra bambina gliel'aveva fermata, tirandole
indietro la mano. Ricordava la sua stretta molto forte. «Ahi!
Perché-».
«Perché scotta», aveva risposto
in fretta. «Se la tocchi adesso, ti bruci la
pelle».
«Tu l'hai già toccata? Ci hai
prova-», era rimasta a bocca aperta quando l'altra bambina
aveva
infilato entrambe le mani nella poltiglia di un colore ignoto per
portarne fuori un po'. «… non ti
bruci?».
Aveva scosso la testa. «Io no».
Aveva disposto sull'erba la melma e ci aveva frugato all'interno,
scoprendo piccole palline di un colore brillante: entrambe si erano
lasciate andare a versi meravigliati. «Sono belle».
«Che cosa sono? Sono bellissime!
Bruciano anche quelle?», le aveva chiesto d'un fiato, prima
di
avvicinarci un dito. L'altra bambina ne aveva preso due con
sé e ci
aveva soffiato sopra, mostrandogliene di nuovo e dandole il permesso
di toccarle. «Non brucia- Ah»,
aveva sbottato sorpresa, per
poi ridere, «Sono fredde». Le aveva prese,
incantata: una blu come
l'oceano, l'altra rosa come le pesche. Una più bella
dell'altra,
aveva pensato, lanciando uno sguardo alle altre nella melma di altri
colori come verde, giallo, rosso, arancio. Una era viola come il suo
vestito da strega. «Che cosa sono?».
«Non lo so, ma conviene che ce ne
andiamo».
«Perché?».
«Perché l'alieno che le ha
perse, vorrà riaverle», aveva replicato l'altra
bambina,
togliendole le palline dalle mani e rimettendole nella melma.
«E non
sappiamo se sarà arrabbiato perché gliele abbiamo
toccate».
Si era alzata in piedi e lei
l'aveva guardata bene, aggrottando la fronte: «Da che cosa
è il tuo
costume?». La luna illuminava abbastanza la sua tutina
bianca.
Lei si era guardata, spostando i
capelli biondi alle spalle. «Da nulla».
«È un pigiama?».
Aveva scosso la testa,
riguardandosi dalle spalle ai piedi con le sole calze ai piedi.
«Indosso questa quando non so cosa mettere».
«E cioè?».
«Roba aliena».
Si era messa a ridere, alzandosi
in piedi anche lei e togliendosi un ciuffo corvino dagli occhi verdi.
«Davvero?».
«Beh, no. Per me no. Per te sì»,
aveva scrollato le spalle, lasciandola avvicinare e toccare: aveva
guardato con attenzione le sue piccole dita che tastavano la tuta, in
particolare il marchio in rilievo sotto la sua spalla sinistra.
«È
il simbolo della mia famiglia».
«Famiglia aliena?».
«Per me no, per te sì», aveva
mormorato di nuovo, schiarendosi la gola.
Si era spostata il tanto per
guardarla negli occhi azzurri. «Mi stai dicendo che sei
un'aliena
anche tu?». Aveva aspettato che annuisse per chiederle,
puntando un
dito: «Come quello che ha perso le palline
lì?».
«No, non lo so chi è. Io volevo
solo vedere la festa e quelle sono cadute», aveva confessato,
tirando in su una faccia imbronciata. «Sono scappata per
vedere la
festa».
Anche lei aveva abbassato la
testa, amareggiata. «Anche io sono scappata».
Un tonfo aveva colto di soppiatto
entrambe e lei era ritornata al presente: scosse la testa e
ansimò
annoiata, sistemando le braccia a conserte. L'amica prendeva,
guardava e rimetteva le stampelle con gli abiti più
disparati da
almeno tre quarti d'ora, sembrava non piacerle niente. Di solito le
piaceva fare shopping, ma la sua indecisione la mandava in paranoia.
Era sicura che anche il cassiere che fino a poco prima le adocchiava
con fare ammiccante ora si stava mangiando le unghie per passare il
tempo.
«Ancora stento a credere che tua
madre ti abbia dato il permesso di andare alla festa», si
girò,
sorridendole da orecchio a orecchio. «Non sto nella pelle!
Cos'è
quella faccia da funerale? Va bene che siamo da Halloween ma hai
scelto di Dracula, non Frankenstein Junior»,
ridacchiò energica,
prima di accorgersi che l'altra aveva appena sorriso.
«Pubblico
difficile», si tirò indietro i boccoli biondi,
ricominciando a
guardare un costume dopo l'altro. «E poi sei proprio sicura
di voler
essere Dracula? Vampiro ci sta, ma meglio se sexy. Voglio dire,
è
okay il mantello, puoi tirarti indietro i capelli e usare un trucco
provocante, ma quei pantaloni gessati spengono la fantasia e ho
saputo che ci sarà un certo Jack, alla festa», si
voltò di nuovo e
l'altra arrossì, allontanandosi.
«Quanta gente pensi che ci sia,
alla festa?». Iniziò a guardare i costumi anche
lei, in modo da
velocizzare i tempi.
«Tutti», rispose velocemente,
come se fosse ovvio. «Sarà la festa più
grande mai organizzata. Le
cheerleader mi hanno confermato che ci saranno tutti, ma proprio
tutti, i ragazzi più fichi. Jack compreso. Si ferma in
città solo
per la festa, che significa solo per vedere te»,
sollevò le
sopracciglia con fare allusivo.
Lei sorrise. «Magari vuole solo
godersi un buon drink in maschera».
«Sì, certo», ridacchiò
l'altra, «Un drink in maschera con la scienziata
più geniale, più
ricca e affermata della festa».
Lei rise appena, imbarazzata,
rivolgendo il suo sguardo all'esterno del negozio. Era
strano… Per
un attimo, le era come sembrato che il cielo si fosse colorato-
«È viola».
L'amica riprese la sua attenzione,
mostrandole il costume viola da strega.
«Cosa ne pensi?», le chiese,
poggiandoselo addosso, «Potrei giusto far accorciare un po'
la gonna
qui… È che le streghe non sono più di
moda, vero?», proseguì,
«Già, già, è vero. Sono fin
troppo abusate, non voglio passare
per quella che non ha fantasia».
Lei guardava ancora fuori, ma il
cielo sereno era di un normalissimo azzurro. Era stata solo la sua
impressione: ad ogni Halloween si aspettava di rivedere il cielo
diventare viola, da quella volta. Eppure provava una strana
sensazione…
«Dove sei in questo momento? Non
certo sulla Terra», le sventolò una mano sul viso.
«Ti prego, ti
prego», congiunse le mani. «Devi promettermi che ti
divertirai alla
festa, questa sera, okay? Nessuna chiamata che ti riporterà
correndo
in laboratorio, nessuna nonna con la tosse, niente di niente, nemmeno
tua madre signora di ghiaccio Luthor che ha
cambiato idea e
vuole mandarti a lavorare in miniera, ti prego», disse
rapida,
facendola ridere. Le prese le mani con le sue, specchiandosi nei suoi
grandi occhi verdi. «Ripeti con me: ho diritto a una vita
normale».
«È ridicolo, Eve».
«Ripeti! Ho diritto a una vita
normale».
«Ho diritto a una vita normale»,
sbuffò, dando un'occhiata alle stampelle e prendendone una.
«Che ne
dici di scienziata pazza?», le mostrò un camicie e
l'altra sorrise,
pensandoci.
«Una scienziata pazza sexy,
vorrai dire», glielo prese, portandoselo in petto.
«Mi stai dicendo che sei
un'aliena anche tu? Come quello che ha perso le palline
lì?». Non
ricordava la tonalità della sua voce da bambina, ma
ricordava di
averlo chiesto. «Chi è?». E poi erano
dietro un albero, osservando
l'uomo che si inchinava verso il buco sul terreno.
«Il proprietario».
«Che cosa ci fa?», aveva chiesto
ancora, vedendolo piegarsi alla buca fino a immergerci la faccia.
«Il vampiro più sexy».
Lei smise di guardarsi allo
specchio da terra e si girò svelta verso la porta della sua
camera,
sentendo la voce di suo fratello: era appoggiato contro lo stipite,
mani nelle tasche dei pantaloni, sorriso trionfante. «Eve non
la
pensa così. Crede che i pantaloni ammazzino le fantasie
maschili»,
si guardò di nuovo allo specchio, lisciando il corpetto
rosso sulla
pancia e sistemando la cravatta del medesimo colore.
Il ragazzo si avvicinò
lentamente, si fermò alle sue spalle e le sistemò
lui stesso la
cravatta, rifacendole il nodo. «Forse ammazzeranno quelle dei
maschi
stolti, io non me ne preoccuperei. Sono certo che farai breccia in
chiunque tu voglia posare il tuo bellissimo sguardo», le
portò una
mano sul mento. «Sei una Luthor. Sei nata per essere fiera,
seducente, perfetta. E i pantaloni donano alla tua figura, sorella
mia», le batté le spalle e le regalò un
sorriso, allontanandosi.
«Lex?», lo chiamò prima che
oltrepassasse la porta, e lui si fermò, di spalle.
«Perché non
vieni… con me, alla festa?». Anche a lui, prima di
lei, era stata
negata una vita normale.
«Ho da fare». Se ne andò,
lasciando lei ai suoi sospiri.
«Quindi sei davvero un'aliena?»,
glielo aveva chiesto con speranza. «Un'aliena con
poteri?». Ci si
aggrappava a quella speranza.
L'altra bambina aveva annuito. «Me
li dà il Sole giallo. Adesso è debole, ma li
assorbo di giorno».
«Allora portami con te, ti
prego», le aveva stretto le mani con le sue, «Ti
prego, non voglio
tornare lì! Dovunque tu debba andare, fammi venire con
te».
Ci si era aggrappata tanto a
quella speranza.
L'auto l'accompagnò fino a
davanti alle porte della casa. Era notte, c'era la musica che
rimbombava nell'aria, tanti ragazzi che schiamazzavano vestiti a
maschera dentro e fuori, seduti sulle scale dell'ingresso e sul
corrimano. Si lisciò i pantaloni scendendo dalla vettura,
dopo
chiuse la portiera. Si sentiva un pesce fuor d'acqua, lì.
Passava in
mezzo a quei ragazzi per entrare in casa con la paura che se ne
accorgessero, che la fermassero, che le dicessero che lei doveva
tornare indietro. Conigli, pagliacci, serial killer. Nessuno si
accorse quanto fosse fuori posto e, con sguardo severo, si
affacciò
all'ingresso: c'era così tanta gente che a stento si
vedevano i
mobili, schiacciati contro le pareti; tutti saltavano ballando,
parlavano, ridevano, urlavano, vomitavano. Quel posto era
così
stretto. Stava per cambiare camera che sentì urlare il suo
nome e si
girò.
«Sono così felice che tu sia
venuta! Finalmente, Luthor. Finalmente», la guardò
e l'abbracciò
forte, «Ce l'hai fatta. Mi hai vista?». Si
spostò il tanto per
farle vedere il suo camice tagliato oltre metà coscia, e
sotto le
calze a rete. «Sexy, non trovi?». Sbatté
con la schiena di un
ragazzo e le andò di nuovo più vicino.
«Scienziata pazza, sexy e…
zombie», rise, indicando il suo trucco lievemente sul verde e
qualche finta cicatrice delineata con la matita nera. «Alcuni
ragazzi della squadra di rugby volevano vedere se avevo cicatrici
anche là sotto», rise di nuovo puntando gli occhi
al soffitto e
l'altra si rabbuiò. «Ma no, tranquilla! Era una
battuta! Abbiamo
diciassette anni, se non si dicono adesso queste cose,
quando?».
Avvertì di nuovo la strana
sensazione e lanciò uno sguardo alla finestra più
vicina: il cielo
era normalmente scuro. Il cielo era normalmente scuro, ma lei per un
attimo ebbe le vertigini e l'alieno chino con la faccia sul terreno
scavò tra i suoi ricordi, mostrandosi: la faccia si era
dilatata là
dove c'era la bocca, serrata con forza, gocciolante di melma; si era
girato verso di loro, con le pareti delle guance illuminate dalle
palline che aveva all'interno.
«Mi stai spaventando». Eve
l'aveva tenuta prima che cadesse all'indietro, lasciando che si
appoggiasse al muro delle scale dietro di loro.
«Guardami», le
prese il viso e lei scosse la testa, abbozzando un sorriso.
«Sto bene».
«Stai bene? Sei sicura?», tirò
un sospiro di sollievo, «Perché non voglio
crederci che alla tua
prima festa normale tu ti senta male. Non voglio crederci».
Le poggiò la testa contro una
spalla lasciandosi andare a una risata e capì che doveva
aver
bevuto, odorando il suo alito che sapeva di alcol e frutta.
«Tu! Non hai ancora neanche
toccato un bicchiere, non hai visto Jack, non puoi tornare a casa,
vedi di rimetterti subito! Assolutamente. Te lo proibisco»,
le puntò
contro un dito, «Te lo proibisco di tornare a casa
perché hai
bisogno di passare un'adolescenza normale, per una volta! Vai, il
mondo è tuo! Fai qualche scemenza, bacia uno
sconosciuto», si fermò
solo per guardarla a sottecchi e puntarle ancora quel dito, «ma
non davanti a Jack che potrebbe essere il ragazzo della tua vita e
non ti brucerai questa opportunità. Ma insomma, mi
hai capito,
Luthor. Sii… te stessa».
Essere se stessa.
Eve le strinse una mano e la portò
nella sala da pranzo della casa, davanti al tavolo imbandito di
dolciumi e bottiglie, molte delle quali già vuote, sotto le
cassette
e i bidoni arrotolati con tubi di plastica. Lì c'era il via
vai, non
ci si poteva fermate in mezzo perché si ostruiva il
passaggio di chi
andava in salone, di chi andava verso l'altro salone dove c'erano i
divani e il bagno, o di chi usciva sul cortile, dov'era gonfiata una
piscinetta di plastica per bambini che sicuramente i ragazzi ubriachi
avrebbero rotto, saltandoci sopra con le sigarette accese.
Essere se stessa. Eve ci teneva a
ricordarle sempre come dovesse fare di più per vivere la sua
adolescenza il più in fretta possibile, al massimo, prima di
diventare adulta e non permettersi più certe cose. Lo diceva
perché
rifletteva su di lei la sua stessa angoscia, pressata dalla famiglia
affinché prenda posizione sul suo futuro. Eve non aveva idea
del suo
sentirsi fuori posto, in quella casa. Non poteva essere se stessa
lì
dentro, se la se stessa non avrebbe voluto niente del genere. Eve non
capiva quanto lei si sentisse già troppo cresciuta per
quella festa,
inadatta come lo si era sempre sentita in ogni occasione. Tranne
quando il cielo diventò viola.
Si voltò, la musica si era
fermata all'improvviso. La sua mano destra, poggiata sul tavolo, era
viola. Il tavolo era viola. Il volto sorridente e fermo come una
statua di Eve era viola. Lasciò il tavolo e si
incamminò verso il
cortile: un ragazzo travestito da lupo era bloccato in un salto tra
la piscinetta e il vuoto. Era viola. Tutto era riflesso di viola.
Alzò lo sguardo e i suoi occhi verdi si ingigantirono,
osservando il
cielo, diventato viola.
Si destò quando Eve le schioccò
due dita davanti agli occhi.
«Okay…», sorrise, «Forse bere
ti farà più bene di quel pensassi, sei troppo
fuori fase».
«Lo hai visto anche tu?», si
guardò intorno, scoprendo che era ancora con la mano
appoggiata sul
tavolo e che il ragazzo vestito da lupo, fuori, pestò in
quel
momento il sedere peloso contro la plastica fine e bagnata della
piscinetta. «Il cielo… Il cielo era
viola».
Eve alzò un sopracciglio,
mettendosi di nuovo a ridere. «O forse hai bevuto
già troppo e non
me ne sono accorta».
Il cielo era davvero di nuovo
viola o era stata la sua immaginazione? Si versò del punch
in un
bicchiere di plastica colorato e ne assaggiò un sorso,
sentendosi
osservata. Dietro la testa di Eve, lontano, nell'altro salone, verso
il bagno. Restò a bocca aperta, con il bicchiere per aria.
Quella
era… Quella era lei.
Chiese scusa alla sua amica e si allontanò in fretta, con il
bicchiere ancora in mano. Passò la soglia e la vide
attraversare il
corridoio oltre il bagno. Era lei. Finalmente lei, l'aveva sognata
ogni giorno da quando scappò nel parco.
Il tonfo e dopo si era sentita
stringere. Quando aveva riaperto gli occhietti che aveva chiuso per
la paura, si era accorta di essere improvvisamente lontana dal punto
del buco sul terreno, oltre qualche albero e alto cespuglio. L'altra
bambina l'aveva stretta a lei e, quando l'aveva lasciata, si era
messa a farle cenno di stare zitta. L'aveva spostata lei? Era stata
così veloce e forte? L'aveva vista indicare e si erano
avvicinate
insieme a un albero, guardando, nascoste, colui che aveva provocato
quel tonfo, scendendo in picchiata. «Chi
è?», aveva spezzato il
silenzio, piano.
«Il proprietario».
«Che cosa ci fa?», aveva chiesto
ancora, vedendolo piegarsi alla buca fino a immergerci la faccia.
«Se
le mangerà?». L'aveva guardata con paura,
spalancando gli
occhietti.
Si era alzato. Era alto come un
uomo qualsiasi, vestito di stracci, senza scarpe. Poteva essere
scambiato per un normale zombie nella notte di Halloween. Le bambine
si erano zittite, eppure lui doveva averle sentite poiché,
lento
proprio come avrebbe fatto uno zombie, si era girato esattamente
verso di loro e le due si erano tirare indietro: la sua faccia era
dilatata là dove c'era la bocca, serrata con forza,
gocciolante di
melma; le pareti delle guance illuminate dalle palline che aveva
all'interno.
«Se le ha… Se le ha
mangiate…»,
aveva sussurrato tremante.
L'altra bambina non aveva fatto in
tempo a prenderla che lui le si era avventato contro e si era
sporcata il vestito da strega di fango, cadendo all'indietro su una
pozzanghera asciutta. L'alieno aveva tirato in alto la mano sinistra
e e gliel'aveva lanciata con energia: era diventata grande, fine, le
dita lunghe e affilate, tanto da infilarsi nel terreno per
trattenerla ancorata alla sua morsa. Il suo corpo si era trasformato
tutto, diventando alto e gracile, piegato sulle ginocchia verso di
lei, aprendo la bocca in uno spiraglio luccicante.
Però l'altra bambina si era
alzata in piedi, aveva stretto i pugnetti con forza e, slanciandosi
in avanti, aveva emesso un raggio luccicante dagli occhi, un laser,
tagliando di netto il braccio dell'alieno ostile.
Lei non poteva crederci e, col
fiato corto e il petto che sobbalzava dallo spavento, aveva guardato
lei a cui gli occhi tornavano di un azzurro normale e lui, che si si
era tirato indietro come se il braccio fosse stato un elastico
spezzato, ricostruendo una mano molto piccola al suo posto ed
esalando un verso acuto di dolore.
L'aveva guardata con sfida prima
di scappare tra le nuvole, tornando un uomo dalle dimensioni normali.
L'altra bambina si era alzata in
volo per assicurarsi che se ne fosse andato per davvero.
«Ehi, chi si rivede».
«Jack?!». Forzò un sorriso,
cercando di guardare oltre le spalle del ragazzo dove fosse andata.
Era svanita. No, non di nuovo; non di nuovo.
«Cosa… Cosa ci fai
qui?».
Lui sorrise, grattando il mento
per mettere in mostra la barbetta che aveva colorato di verde come il
viso, orgoglioso del suo costume compreso di pantaloni, giacca e
camicia completamente verdi. «Lo so, non sono il tipo da
queste tipo
di feste, ma…», si voltò indietro anche
lui, curioso su cosa
stesse cercando, «girava voce che una certa signorina Luthor
dovesse
prendervi parte per la prima volta e non volevo assolutamente
perdermi la sua epifania in uno spaccato della terribile fase che
chiamano adolescenza», le mostrò il bicchiere di
plastica che aveva
in mano, facendole l'occhiolino e battendolo sul suo.
Lei rise, annuendo e abbassando lo
sguardo. Il pavimento. Spalancò gli occhi. Il pavimento era
viola,
tagliato dalle righe della tenda: era un riflesso, la
finestra…
Alzò di nuovo la testa, ma il cielo oltre il vetro di quella
finestra era normalmente scuro. Riguardò in basso, scoprendo
che il
viola non c'era. Forse non c'era mai stato. Stava impazzendo? La
strana sensazione che aveva si stava facendo sempre più
forte e il
fatto che avesse rivisto lei le doveva pur dire qualcosa.
«È davvero così orribile?»,
le
domandò, girandosi di nuovo indietro e bevendo un sorso dal
suo
bicchiere.
Il bicchiere era rosa come le
pesche. Riguardò il suo, blu come l'oceano.
«Io scherzavo, ma sembra che tu
abbia appena visto un fantasma», precisò il
giovane. «Ti senti
bene?».
Bevve un altro sorso e lei
spalancò gli occhi: il bicchiere era verde. Non rosa. Non
era mai
stato rosa. E il suo… lo guardò: arancio. Non era
mai stato blu,
ma arancio. Stava impazzendo, ne aveva appena avuto conferma.
Sbatté
le palpebre, forzando un altro sorriso. «Sono solo un po'
stanca».
Si passò il pollice destro sul mento e arrossì,
accorgendosi di
avere la tua totale attenzione.
«Avrai mietuto troppe vittime»,
rise, «anche i vampiri hanno bisogno di riposo. Vieni,
andiamo a
sederci su uno dei divani», le propose subito dopo passandole
un
braccio sulle spalle, ma lei non si mosse. «Da cosa sono
vestito? Ti
lascio indovinare».
Lei arcuò un sopracciglio,
guardando da capo a piedi come fosse completamente verde. Stava per
dire qualcosa ma si bloccò, sorridendo e scuotendo la testa.
«Mi
arrendo».
«No, davvero? Da te non me lo
aspettavo», bevve di nuovo. «Sono un
alieno», spalancò le
braccia, lasciandosi andare a un enorme sorriso increspando il cerone
verde del viso. «Verde per via del colore caratteristico
degli
alieni ma in competo perché… beh, chi lo ha detto
che gli alieni
sono nudi e non si vestono di abiti firmati?!».
Restò immobile, osservando lui e
il suo completo verde, i capelli laccati e verdi, la barbetta verde.
Era così… deludente. «Gli
alieni… Gli alieni non sono come li
immaginiamo».
«Sì», annuì il giovane,
«Per
questo il completo firmato. I ragazzi mi hanno detto che è
geniale»,
la involse di nuovo con un braccio. «Vieni, andiamo a
sederci».
«No, no, io…», scosse la
testa, cercando di non spegnere il suo sorriso.
«Devo-», indicò in
avanti.
«Oh», lui impallidì, voltandosi
di nuovo. Il bagno, c'era il bagno. «Oh, non avevo capito
che…
Scusa, ti ho fermata e tu… Vai, vai tranquilla, ti
aspetterò sul
divano».
Lo guardò mentre si allontanava e
spostò due ragazze che occupavano la fila per il bagno per
passare
oltre, dietro il muro, nel corridoio. Si assicurò che i
capelli
fossero ben lisciati sopra le orecchie e lungo la coda alta, poi
passò le dita sulla cravatta e, iniziando a sentire il
batticuore e
il fiato corto, si incamminò in quella zona della casa poco
illuminata, bevendo un po'. Ancora un po'. Si sentiva tesa, era
inutile negarlo, sapeva che lei la stava aspettando.
La sé bambina l'aveva aspettata
scendere dal cielo di nuovo sull'erba, con la bocca e gli occhi ben
aperti per assicurarsi che non stesse sognando.
«Stai bene?», le aveva chiesto
l'altra bambina una volta a terra, raggiungendola a passi svelti.
Aveva annuito più volte,
frenetica, e ancora incredula. Si era girata alle sue spalle e quella
mano era ancora infilata sul terreno, con le lunghe dita aperte come
un forcone.
«Ce l'aveva con te», l'aveva
guardata attentamente, aprendo e chiudendo gli occhietti fino a
scuotere la testa con fastidio, lasciandoli chiusi con forza.
«Sei tu quella che si è fatta
male?», le aveva appoggiato le mani sul viso, cercando di
farle
aprire bene gli occhi. «Fammi guardare…
Forse… Forse è come hai
usato i laser», mormorò ingenuamente.
«È perché non sono abituata a
usare i miei poteri», aveva allora confessato, abbassando lo
sguardo. «Mi pizzicano. Non riesco a guardarti per capire se
ti sei
fatta male».
«No, no, ma non mi sono fatta
niente, te lo posso dire io, come mi devi guardare?», rise,
finendo
per abbracciarla. «Quindi sei davvero un'aliena?»,
glielo aveva
chiesto con un enorme sorriso a contornarle il visetto pallido.
«Un'aliena con poteri?».
L'altra bambina aveva annuito
intanto che la lasciava. «Me li dà il Sole giallo.
Adesso è
debole, ma li assorbo di giorno».
«Wow», non era riuscita a
smettere di sorridere. «E sai volare. Tagliare tutto con i
laser
dagli occhi. E sei bellissima. Mio fratello morirà di
invidia quando
glielo racconterò».
«No», l'altra bambina aveva
abbandonato il suo sorriso di colpo. «No, no, non puoi
dirglielo».
«Perché?», allora anche il suo
era scemato.
«Perché se lo scoprono gli
adulti mi daranno la caccia. Me lo hanno fatto giurare»,
aveva
scosso la testa e i gli occhi le si erano riempiti di lacrime.
«Mi
hanno fatto giurare di non dirlo a nessuno. Gli adulti
sono-».
«Cattivi», aveva concluso per
lei. «Lo so, anche quelli della mia famiglia sono cattivi.
Mio
fratello è gentile, ma anche lui crescerà
presto… è a metà,
sai, l'adolescenza», aveva messo su il broncio, tirandosi di
nuovo
via dagli occhietti verdi i capelli corvini. «Va bene, non lo
dirò
a nessuno», le aveva stretto le mani con le sue.
«È una promessa».
Così le aveva sorriso. «Ma devo chiederti una
cosa».
L'altra bambina l'aveva guardata
con curiosità, tirando su con il naso e sorridendo anche
lei.
«Hai i poteri, allora portami con
te, ti prego», le aveva stretto ancora di più le
mani con le sue,
«Ti prego, non voglio tornare lì! Dovunque tu
debba andare, fammi
venire con te».
L'altra bambina era tornata
indietro di colpo, lasciandole andare le mani e iniziando a
contorcersi le labbra. «Emh… non posso».
«Perché non puoi? Gli adulti
sono cattivi, lo stiamo dicendo adesso, specialmente quelli da cui
sono scappata io», l'aveva fissata, arricciando le labbra
rosate.
«Tu non li conosci, sono perfidi! Sono scappata come
te».
«Ma io sono scappata solo per
vedere la festa», aveva ribattuto pacata, grattandosi una
spalla
perché nervosa. «Io ti vorrei portare via, ma devo
tornare dalla
famiglia».
«La famiglia aliena?», le aveva
domandato ancora, con le lacrime agli occhi.
L'altra bambina aveva scosso la
testa. «Loro sono rimasti oltre il cielo», aveva
indicato e anche
lei aveva alzato gli occhi lacrimosi, passando una manica del suo
vestito da strega per pulirsi.
«Ti hanno lasciato venire qui da
sola?».
«Sono morti».
Oh, si era tirata indietro,
colpita. «Anche la mia vera mamma è morta.
Possiamo scappare
insieme», le era venuta quell'idea che, per un attimo, le era
sembrata brillante. «Noi due».
«Ma la famiglia che mi ha presa
qui si preoccuperà se non mi vede tornare».
«Sono umani come me? Adulti?».
L'aveva vista annuire.
«Ma loro sono adulti buoni. Mi
hanno presa con loro. Se anche la tua vera mamma è morta e
ti hanno
preso con loro, anche gli adulti della tua famiglia saranno in
pensiero per te».
Lei si era imbrunita, stringendo i
pugni. «No, no, non è vero», aveva
scosso la testa velocemente,
cominciando a singhiozzare, «Mi trattano male! Sono cattivi,
cattivi
davvero, dico! Tu non lo sai come sono loro».
«Okay», aveva fatto un cenno con
la testa, mettendo sicurezza nella voce. «Hai visto come sono
forte?
Sì? Allora se sono cattivi davvero, tornerò e
darò loro una
lezione».
«… Davvero?», aveva smesso di
singhiozzare e agitarsi.
«Davvero! Tornerò da te, anche
questa è una promessa», le aveva sorriso
raggiante, alzandosi sui
talloni con le calzette bianche ai piedi.
«Mi chiamo Lena. Tu?».
«Kara. Mi chiamo Kara».
Il corridoio si fece viola. Una
scia lunga sul pavimento, riflessa dalla finestra davanti. Si
girò
per vederla anche dietro la sua ombra, fino alla porta del bagno.
«Il completo firmato, verde,
colore caratteristico degli alieni».
Udì la sua voce all'improvviso e
il cielo colorato di viola dalla finestra era già scomparso.
«Per me ha vinto lui. Non posso
competere», rise.
La guardò esterrefatta: se ne
stava lì, davanti allo stipite della porta di una stanza con
la luce
spenta, i capelli biondi dietro le spalle a cui scendeva un lungo
mantello rosso; indossava una maglia blu e sotto una gonna rossa,
divisi da un cinto giallo e, oh, stivali rossi.
Molto
pittoresco, avrebbe detto se solo avesse avuto le parole per farlo.
Un costume originale da supereroina, azzeccato. E quello…
Sulla
maglia blu era impresso qualcosa, lo aveva già visto, certo,
in
rilievo sul suo pigiama bianco alieno. Una S. Se
non l'avesse
vista usare i suoi poteri allora, adesso avrebbe pensato di sicuro a
uno scherzo. «Kara».
«Lena».
«Non sei mai tornata». Un
brusio, con la bocca rossa aperta appena. Solo per rinfacciarglielo.
«Vieni, entra», lei si voltò,
accendendo la luce e facendole spazio.
Era uno studio: c'era un divanetto
e due piccole poltrone ai lati, un tavolino, la scrivania di un
computer e molti quadri appesi.
«C'era molto chiasso e ho pensato
di aspettarti qui», si sedette di peso sul divano e,
afferrando un
vassoio con sopra dei dolciumi dal tavolino, glielo mostrò.
«Vuoi?
Sono buoni».
«Ho cominciato a pensare di
averti inventata», chiuse la porta e si andò a
mettere davanti a
una delle poltroncine, stringendo lo schienale. «Avevo otto
anni! E
tu volavi, ti spostavi molto velocemente e uscivi dei laser dagli
occhi», contrasse le sopracciglia, scuotendo piano la testa.
«E non
sei più tornata… Me lo avevi promesso».
«Io sono tornata», annuì,
mantenendo lo sguardo basso. «Molte volte, in
verità…». Strinse
i denti e rialzò lo sguardo, incontrando quello indisposto
dell'altra. «Ma non mi hai vista… Meglio ancora,
non mi sono fatta
vedere».
«Perché?».
«Perché stavi bene», scrollò
le spalle, in difesa. «Sapevo di non-non poterti portare via
e non
sapevo se me lo avresti chiesto, quindi venivo a vedere come stavi e
poi… e poi me ne andavo».
«Io ti aspettavo… Kara»,
sussurrò e l'altra si inumidì le labbra,
deglutendo.
«Pensavo… Pensavo te ne
saresti, voglio dire, non mi cercavi, magari te ne saresti
dimenticata».
Lena si sedette sulla poltrona,
guardandola con attenzione. Erano passati così tanti anni
eppure
l'avrebbe riconosciuta tra mille. Quello sguardo che era diventato
più dolce, i suoi capelli quasi dorati, quell'aria ancora
bambina.
«Sei sempre stata nei pensieri», ammise,
arrossendo. «Ti ho
sognata. Ogni giorno».
Kara spalancò la bocca e abbassò
gli occhi di colpo, mordendosi il labbro inferiore. Per un attimo si
contorse le mani, rialzando lo sguardo piano solo per incontrare
quegli occhi verdi ancora fissi su di lei. Arrossì.
Era una di quelle notti. Il cielo
gocciolava e lei si era addormentata con la luce dell'abat jour
accesa. Invece di restare fuori, si era decisa a entrare. Le aveva
aperto una finestra e chiusa subito dopo il suo ingresso, strizzando
i capelli fuori. Si era avvicinata al suo letto, osservandola dormire
con un libro accanto, tenuto con una mano. L'aveva osservata a lungo,
prima di decidersi. Allora le aveva preso il libro dalle dita e, in
un attimo, Lena aveva aperto gli occhi, trovando i suoi azzurri
spaventati. Si era mossa e l'aveva guardata. Erano rimaste ferme,
come se il tempo si fosse bloccato, anche solo per poco. Poco. Ancora
poco e Lena aveva richiuso gli occhi, girandosi, mettendosi meglio
sul materasso. Kara aveva tirato un sospiro di sollievo. Le aveva
appoggiato il libro sul comodino, attenta a lasciare il segnalibro, e
dopo aveva spento l'abat jour. Si era voltata verso di lei prima di
riaprire la finestra e lasciarla.
«Non… lo sapevo», disse Kara
con imbarazzo, «Forse non volevo…
affezionarmi… a te». Rialzò
gli occhi che aveva riabbassato ma Lena faceva uno strano sguardo,
adesso, e anche lei si imbrunì. «Lena? Cosa ti
prende? Cosa c'è?».
«Non l'hai visto anche tu?»,
rialzò gli occhi spiritati, rivolgendosi alla finestra.
«Il cielo
si era di nuovo colorato di viola».
«Lo hai visto? Lo hai visto
viola?».
Le prese una mano e Lena sobbalzò:
lei le credeva. Annuì. «È tutto oggi
che ho continue visioni del
cielo che diventa di nuovo viola, proprio come nove anni fa»,
deglutì, «Ne sai qualcosa?».
Guardò attentamente il suo volto
farsi più rigido, come se sapesse esattamente cosa stesse
succedendo
e le sfilò la mano. «Perché proprio
oggi? Sei tornata da me tante
volte, hai detto, senza farti vedere. Quindi perché proprio
oggi?».
«Perché oggi devo adempiere a
quella promessa», si alzò. «Sono tornati
e so che ti stanno
cercando».
«Chi?», aggrottò la fronte,
osservandola avvicinarsi alla finestra. «Il proprietario di
quelle
strane cosine luccicanti?».
«Devi darmelo», il suo viso si
fece più duro, tornando da lei.
«Cosa?».
«Non c'è tempo per giocare, lui
non è solo e saranno aggressivi»,
tuonò, spalancando una mano
davanti al suo viso. «So che ne hai preso uno, nove anni fa.
Lo hai
nascosto sotto il tuo vestito da strega e loro lo stanno cercando,
Lena. Lo hanno cercato per anni e adesso lo hanno trovato, non si
fermeranno. È dentro la tasca destra posteriore dei tuoi
pantaloni»,
arrossì, «N-Non la prenderò io- voglio
dire, emh,
sbrigati».
Lena spalancò le narici, colta
nel segno. «Come fai a …?».
«Vista a raggi x. Nove anni fa
ero stanca, fossi riuscita a fare uno scan come volevo per sapere se
stavi bene, non te l'avrei lasciata portare via».
Lena sorrise, spostando il
mantello da Dracula per arrivare alla tasca. «Per
questo… te l'ho
nascosto». La prese, guardandola ora come allora splendere di
viola.
Aveva preso quella di proposito, viola come il cielo. Voleva
studiarla, capire da dove fosse arrivata e da cosa era composta, ma
non era mai riuscita ad aprirla ed era rimasta il suo portafortuna.
Era una scienziata e lo era ancora prima di diventarlo, anche a otto
anni. «Sapevi che l'avevo con me. Perché non me
l'hai mai portata
via, durante le tue visite?».
«Loro erano lontani, non ti
davano la caccia e speravo di capirne di più prima che fosse
tardi.
Ma oggi è quel giorno e devo portarla via prima che- Lena?».
La fissò con uno strano sguardo, era successo di nuovo.
«Cosa hai
visto? Stanno diventando più frequenti, devo fare
presto».
«Tu», sorrise e lo spense
subito. «Ti ho vista vestita di bianco, di nuovo
piccola». Doveva
essere una cattiva notizia, a giudicare dalla sua espressione
pronunciata.
Kara le sfilò velocemente la
pietra luminosa e le strinse una mano con forza. «Non ti
stanno
cercando, ti hanno già trovata».
E, in un momento, la musica a
tutto volume della festa cessò. Non c'era più il
tavolino, il
vassoio di dolcetti né il divanetto o le poltroncine. Non
c'era più
la casa. C'erano loro, tenute per mano, nel parco. Il cielo era viola
sulle loro teste ed erano di nuovo lì, perse come nove anni
prima.
«Cos'è successo?», si voltò e
voltò ancora, lasciando andare la sua mano e sventolando il
mantello
rosso da Dracula.
«È uno dei loro meccanismi
d'attacco. U-Un'illusione», sollevò le braccia,
guardandosi intorno
anche lei, «Siamo ancora dentro quello studio».
«Ne sei sicura?».
«Mh…», si contorse le labbra,
«Non proprio».
«Non hai detto di aver passato il
tempo a capirci di più?».
Kara aggrottò la fronte. «Scusa
tanto se sono accorsa in tuo aiuto prima di avere tutte le
risposte».
«Se mi avessi cercata fin da
subito, invece di giocare a mosca cieca».
«Oppure avrei potuto lasciarti al
tuo desti-», si guardò le mani, incantata. Erano
così…
«Piccole», sussurrò
Lena, guardando le sue. La sua voce… Adesso ricordava
com'era la
sua voce a otto anni, la sentiva, la usava in quel preciso istante.
Posò gli occhi su di lei, ritrovando la Kara bambina con la
tuta
bianca e le calzette ai piedi.
«Il vestito da strega», Kara
sorrise, «Ti stava proprio bene».
Lena si controllò subito: aveva
il vestito da Dracula e ora quello da strega. Non si era nemmeno
accorta di quando fosse cambiato. «Siamo tornate
bambine», sibilò,
cercando di trattenere la tachicardia.
«Anche questa è un'illusione».
Ne sembrava così certa.
«Cercano di indebolirci: ricorda
che sei un'adulta, adesso».
Un'adulta… Lo era? Lo era già
diventata? Quando era successo?
«Stai sbagliando».
La voce di suo fratello, severa.
Dove si trovava?
«Lena?», aveva picchiettato le
dita davanti al suo naso e lei si era destata, mettendo a fuoco il
pianoforte. «Lena, stai sbagliando. Riprova». Aveva
sollevato le
manine dai tasti e Lex le aveva indirizzato le dita, con le mani
sulle sue. «Ti stai esercitando da tempo su questa canzone,
perché
riesci ancora a sbagliare questo passaggio?».
«N-Non lo so… io».
«E chi mai dovrebbe saperlo?».
Si era fermato, forse aveva capito di essere stato troppo duro, e
così aveva sollevato le mani per sistemarle i lunghi capelli
corvini
distesi sulla schiena, raccolti in un fiocco. «Devi saperla
suonare
entro pochi giorni, Lena. Nostra madre se la prenderà con
te, se non
ci riesci».
Lei si era inumidita le labbra,
annuendo. «Va bene. Non deluderò
nessuno».
«Lo so che non lo farai», le
aveva lasciato i capelli, andando di nuovo a prenderle le mani con le
sue. «Perché sei una Luthor come ognuno di
noi».
Era troppo cresciuta, per quella
festa. Era cresciuta, era diventata una di quegli adulti cattivi che
non riuscivano a divertirsi. Era stata se stessa quella notte a otto
anni e poi… e poi era cresciuta.
«Kara…», aveva biascicato da
bambina, memorizzando il suo nome. L'aveva vista andare via volando e
lei era rimasta sola. Non per molto.
«Lena?!».
«Lex?!», si era voltata di
scatto.
«Per fortuna non ero distante e
sono corso a cercarti». Aveva abbracciato la sua sorellina,
per poi
sbiancare alla vista di quella mano mozza, fine e con le dita
affilate, ancora ancora sul terreno. «Che cosa…
Che cosa diavolo
è?».
«Non lo so… io-io non lo so,
Lex, era già qui e la stavo guardando», aveva
farfugliato la
bambina, continuando a scuotere la testa.
«Vieni, andiamo via. Andiamo».
Le aveva stretto la mano ed era
stata trascinata lontano dalla mano aliena, tenuta d'occhio fino a
quando non era stata ormai troppo distante.
Voleva scappare per non diventare
come loro, ma era stata presa ed era cresciuta.
«Lena? Lena?».
Era la voce di… Kara. Kara.
L'altra bambina. Scosse la testa e le sorrise, ma lei le fece uno
strano sguardo. «Hai trovato un altro buco sul
terreno?».
«Cosa?».
«L'ho visto, era qui», si girò
scattante, «Vieni, vieni, era qui». Le prese una
mano e iniziò a
trascinarla dietro i cespugli, fino a quando Kara non piantò
i piedi
a terra ed era troppo forte per trascinarla. «Stai usando i
tuoi
poteri, non è giusto», si imbronciò
subito, lasciandola.
«Lena, no… Sei tornata
bambina».
«Siamo bambine, Kara», sorrise
vivace. «Mi porterai via, oggi? Ho paura a restare qui, il
cielo è
così viola».
«No, torna in te! Smettila».
Tornare in se? Come poteva tornare
in sé, se lo era già? Era se
stessa, pienamente se stessa.
Pensava che lei avrebbe potuto capirla. «Anche tu sei
scappata…
Potremo scappare insieme, solo noi due».
«Loro stanno arrivando, Lena».
«Loro chi?».
E poi il tonfo, proprio come
allora. Lui era alto più di tre metri, snello, vestito di
stracci e
con la bocca grondante di melma. Lena gridò e Kara si
portò la mano
alla schiena ma la pallina luccicante… la pallina luccicante
non
c'era. Gliel'aveva presa, ma… Usò l'altra vista,
scoprendo la
pietra viola brillare sotto il vestito da strega di Lena. Era tornata
a lei e l'alieno ostile la stava puntando. Doveva portarla via.
Veloce, scattò con un balzo e colse la bambina tra le
braccia,
sollevandola per aria. Sentiva che l'alieno le stava dietro, ma lei
sapeva di essere più veloce. Più
veloce… Perché l'alieno la
stava raggiungendo? Era più veloce. Quel parco era molto
più grande
del normale, era infinito. Era più veloce ma non riusciva a
seminarlo. Era più veloce… da adulta. Morse un
labbro, pensando
velocemente. Scese in picchiata, prese la pallina luccicante viola
dall'altra e le ordinò di nascondersi dietro alcune foglie,
camminando verso dove sarebbe atterrato l'alieno.
Un altro tonfo. Lui alzò una mano
e lo stesso fece Kara prima che potesse attaccare, mostrandogli il
bottino.
«Lo vuoi? È tuo».
L'alieno guardò lei, la sua sua
mano e dopo ancora la piccola Lena, iniziando a grugnire.
«No, no, ce l'ho io! Lei lo aveva
preso ma ha sbagliato, non voleva ferirti». Si
voltò per
osservarla, sguardo smarrito, tremante, dietro quelle foglie.
«Lei
lo aveva portato via».
La sua voce era stridula e
fastidiosa: Lena si coprì le orecchie e in un attimo si
sentì
sollevare, iniziando a urlare.
Quando Kara si voltò per
soccorrerla, intuì che erano circondate: gli alieni ostili,
tutti
alti e snelli, figure scoordinate e sproporzionate, erano molti
più
di quelli che si aspettava e uno di loro manteneva Lena con due dita
affilate, bucando il vestito da strega, tenendola a metri dall'erba.
Non era riuscita a rispettare la sua promessa? Aveva fallito? Gli
occhi le si riempirono di lacrime, abbassando la pallina luccicante e
reggendola con entrambe le mani, guardandola risplendere di viola.
Singhiozzò. Gli alieni ostili avevano vinto. Si sarebbero
ripresi
ciò che per cui erano venuti e loro… cosa sarebbe
successo a loro?
«Non piangere». La voce di Lena,
anche la sua singhiozzante. «Non piangere, Kara. Sei venuta a
salvarmi, non piangere», scosse la testa, «Volevo
tanto rivederti».
Era notte, il cielo gocciolava e
picchiava sul vetro delle finestre della sua camera. Doveva essersi
addormentata mentre leggeva un libro, con l'abat jour accesa. La
stava sognando e, quando aveva sentito un tocco caldo spostarle le
dita dal libro, aveva aperto gli occhi e l'aveva vista. Si erano
guardate e il tempo si era fermato. Non sapeva per quanto, ma si era
fermato. Doveva stare ancora sognando e allora chiuse gli occhi, si
era girata e aveva ripreso a dormire, per ritrovarla lì dove
l'aveva
lasciata. Era cresciuta, nei sogni con lei. Era cresciuta con
lei. Voleva tanto rivederla e toccarla, voleva tanto dirle quello che
provava quando la vedeva, nei sogni. Anche quando non sembrava
sognare…
E la vedeva, in mezzo alla gente.
Ritrovava la sua figura sul tetto e appena sbatteva le palpebre non
c'era più. Era lì quando la mattina entrava a
scuola. Era lì
quando il pomeriggio usciva con Eve. Era lì quando suo
fratello le
aveva dato lezioni di guida. Era lì, era lì
sempre, non nei sogni.
«Mi ricordo… eri lì, Kara. Eri
con me sempre», sorrise, «Non erano
sogni».
Kara sorrise, passandosi una
manica della tuta sugli occhietti lacrimosi. «Non possiamo
tornare
bambine».
Lena scosse la testa. «Siamo
decisamente cresciute».
Kara soffuse lo sguardo, i laser
dagli occhi colpirono le dita dell'alieno e volò rapidamente
verso
di loro, sferrando un pugno alla bestia e prendendo Lena al volo,
scoprendosi adulte. Lena era di nuovo Dracula e Kara una supereroina.
La riportò a terra e gli alieni ostili emisero acuti urli di
dolore.
Disse a Lena di tenersi al suo mantello e lei urlò a sua
volta,
«Basta!», prima di battere le
mani e creare un boato
vertiginoso a cui l'onda d'urto mosse gli alberi e gettò
tutti loro
sull'erba. «Nessun altro deve farsi male», decise.
Consegnò a Lena
la pallina luminosa e loro non la persero d'occhio, rimettendosi in
piedi. «Non sono palline. E neanche pietre», le
confidò,
passandogliela con cura. «Glielo hai preso tu, te ne sei
presa cura
per nove anni, e adesso lascerai che lo faccia la famiglia».
Lena arcuò un sopracciglio.
«Cosa? Mi stai dicendo che-».
Kara annuì. «È un uovo, Lena.
Non le mangiano: le tengono al caldo e le trasportano».
La ragazza camminò fino a un
punto sull'erba, a metà tra Kara e gli altri alieni.
Lasciò il
piccolo uovo luminoso viola sull'erba e uno di loro, adesso di
dimensioni umane, si accostò scalzo per recuperarlo. Si
inchinò e
lo colse con la bocca. Lena deglutì, osservandolo rimettersi
dritto
con una guancia che brillava di viola.
«Le
altre?».
«Quali altre?», domandò Kara,
guardando l'alieno che aveva parlato e dopo Lena, che le veniva
incontro.
«Non ne ho altre», scosse la
testa. «Non ne ho davvero, Kara, avevo solo quello
e-».
«Ti credo», annuì. In ogni
caso, se ne avesse avuto altre, le avrebbe di certo notate in nove
anni a osservarla.
«Ha
l'odore», precisò un altro,
puntandole contro un dito
affilato.
«Ha
l'odore»,
specificò anche un altro,
facendo lo stesso.
«Ha
l'odore»,
li seguì il terzo.
Lena e Kara non capivano,
scambiandosi uno sguardo preoccupato.
«Va bene», Kara li guardò uno a
uno, gesticolando. «Cercherò le vostre uova. Le
troverò e ve le
porterò, è una promessa. Mantengo sempre le
promesse», terminò a
bassa voce riguardando Lena, che le sorrise.
Si ritrovarono di nuovo in quello
studio come se il tempo non fosse affatto passato. La pallina
viola…
l'uovo viola che aveva con sé Lena non c'era, ma era l'unica
cosa a
essere cambiata.
Lena si avvicinò a lei, notando
come fosse poco più alta. Era bello poterla vedere
così da vicino.
«Sei stata ingiusta, Kara».
«Lo so. A-Adesso me ne rendo
conto», arricciò le labbra, «Ti chiedo
scusa».
«Te ne andrai?».
«Beh, devo… Se non torno, la
mia famiglia si preoccuperà», deglutì e
arrossì ad avere il suo
viso tanto vicino. «Vuoi venire con me?».
Lena sorrise fino a ridere,
dondolandosi per un attimo di vergogna. «No, non ti
chiederò di
portarmi con te, questa volta. Mi basta che torni».
«Tornerò senz'altro».
Lena annuì. «Sai, c'è una cosa
che devo… devo darti, prima che te ne vai di
nuovo», si morse un
labbro rosso, guardandola negli occhi.
«Che cosa?».
Lena si spinse in avanti, si tolse
i finti canini da Dracula e le circondò il volto con una
mano,
rubandole un bacio, chiudendo gli occhi. Doveva darle un bacio.
«Mi chiamo Lena. Tu?».
«Kara. Mi chiamo Kara». Si era
contorta le mani per la vergogna e, sorridendo, si era avvicinata
veloce, lasciandole un caldo bacio su una guancia.
Lena ci si era portata la manina
sopra, sorpresa, mentre arrossiva.
«Adesso… Adesso devo andare»,
si era alzata in volo. «Arrivederci, Lena».
«… Arrivederci, Kara», aveva
sussurrato. «Kara…», lo aveva ripetuto,
cercando di memorizzare
il suo nome. Era rimasta sola. Ma non per molto.
«Lena?!».
«Lex?!», si era voltata di
scatto, sobbalzando dalla paura.
Il fratello l'aveva abbracciata e
dopo l'aveva portata via, lasciandola nelle mani sicure del
bodyguard. Sperando lo fossero state sufficientemente, quella seconda
volta, se non altro.
Ma dopo era tornato indietro, a
quella strana mano con le dita lunghe e affilate infilzate sul
terreno, per esaminarla. Forse aveva molto da esaminare da quelle
parti, aveva pensato, guardandosi intorno.
La puntualità non
è di sicuro il
mio forte, ma che l'ispirazione sia una grandissima **inserire
parolaccia di vostro gradimento**
che mi fa scrivere una storia per Halloween proprio ieri e
OGGI, fino all'ultima mezzora del 31 ottobre… ah,
che bella cosa.
Beh,
spero almeno vi piaccia, alla prossima ~
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