finnpoe
Come
note musicali
«Il
solito, grazie»
, pronunciai una volta preso posto al mio abituale tavolino, situato
proprio vicino al palco del locale ove mi recavo ogni
giovedì sera,
quasi come un rituale. L’aria sapeva di alcohol e di sudore,
probabilmente a causa dei riscaldamenti che emanavano un calore
eccessivo, sebbene da me gradito. Quel locale, “Dal
Riccio”, non
era così accogliente come voleva apparire
all’esterno: lì
regnavano le piante e sicuramente appariva moderno e persino grande,
ma una volta entrati ci si accorgeva all’istante quanto esso
fosse
molto più intimo e angusto.
Eppure
era ormai da qualche mese che mi recavo lì,
era un ottimo modo per staccare la spina dal lavoro e dal mondo in
generale. Prendevo un drink o due, mi sedevo, abbozzavo qualcosa nel
mio notebook e aspettavo che il mio amico Finn e la sua band si
esibissero, così da lasciarmi andare del tutto. Devo
ammettere che
erano migliorati molto da quando misi piede lì dentro la
prima
volta: il loro stile si avvicinava molto al rock, ma non essendo
così
esperto di musica riuscii ad apprezzarlo in tutta la loro
unicità.
Finn suonava la chitarra egregiamente, la maneggiava con una tale
maestria! Da sempre spiegai lui quanto fosse bravo a suonarla e,
probabilmente, anche grazie alle mie parole continuò con
questa sua
passione innata. Le note sembravano vibrare naturali e dolci sotto le
sue calde dita, come se non aspettassero altro se non la loro
liberazione da quella prigione fatta di silenzio.
Dunque
afferrai il boccale di birra una volta
servitomi dalla cameriera che, ahimè, ormai mi conosceva
bene. Notai
solo ultimamente quanto fosse presa a guardarmi mentre sorseggiavo i
miei drink, o più semplicemente mentre scrivevo qualcosa.
Ricordo
una volta in cui, stufo della situazione, ordinai un piatto che avevo
sentito non fosse più disponibile nel menù;
eppure lei non si diede
per vinta, la vidi fare avanti e indietro per il locale pur di
procurarmi quel dannatissimo piatto che, ad essere sinceri, neanche
sapevo cosa fosse esattamente. Ma di sicuro avevo vinto. Mi metteva
sotto pressione essere osservato incessantemente, e Finn lo sa bene.
Le
luci iniziarono ad affievolirsi fino a svanire
quasi completamente, ed il momento arrivò: tutti
in sala sapevano cosa stava per accadere. “Gli JEDI”
avevano
già impugnato i loro
strumenti ed iniziato il loro spettacolo – più
teatrale che
musicale, visto come si scatenavano. Finn indossava il suo miglior
sorriso mentre con occhi scintillanti variava gli sguardi tra le sue
dita veloci sulla tastiera della chitarra ed i clienti, esaltati come
al solito alla visione dello
spettacolo.
Sorrisi
guardandoli perché, a dire la verità, era
impossibile non farlo. Il
loro era uno stile particolare, come citai prima, e le loro movenze
rendevano il tutto ancora più piacevole da ammirare.
«Allora,
come
sono andato?» mi chiese una volta sceso dal palco, sistemando
velocemente il suo gioiello di legno nella sua apposita custodia. Il
sudore rendeva il suo viso leggermente lucido, ma certamente radioso.
Non gli mentii, era impossibile farlo, e gli diedi una pacca su una
spalla.
«Fantastici,
lo
sai», e lo sapeva davvero. Eppure un velo di insicurezza
riuscivo
sempre ad intravederlo, proprio come il Finn di tanti anni fa. Adesso
era cambiato molto, era sicuro di sé e più alla
mano, ecco. Anche
per questa ragione riuscimmo a parlare senza fermarci sino a casa
sua. Parlavamo del più e del meno. Gli illustravo le mie
idee per le
mie storie, i miei gialli lo hanno appassionato sempre, mentre lui mi
raccontava degli aneddoti riguardanti la sua band. Andavamo molto
d’accordo, era sempre stato così, e mi sarebbe
andato bene per
sempre. Andare lì il giovedì sera e fare un
resoconto delle nostre
vite – come se aprissimo il nostro diario personale
all’altro –
era davvero piacevole. La parte migliore, sicuramente, era rivedere
lui: mi sentivo a casa, come quando si affronta una lunga giornata e,
finalmente, ci si sdraia sul letto ascoltando la propria canzone
preferita.
Arrivati
all’interno del suo appartamento, quella sensazione descritta
poco
prima si
intensificò ancor
più. Finn ed
io ci sedemmo
con nonchalance sulle
poltrone dinanzi il tavolino con appoggiati dei piatti alla
sommità.
Mangiammo velocemente – anzi, divorammo la cena –
che preparammo
il più velocemente possibile. Promisi a Finn che avrei
aggiustato il
suo vecchio gameboy così
da tornare a giocarci una volta tornati a casa da quel genere di
serate. Tanti erano i ricordi legati ad esso e,
mentre
smanettavo con esso,
era
inevitabile che non
sorgessero nella mia mente. Quasi come se Finn potesse sentire i miei
pensieri, fu il primo a parlare.
«Come
mai ti sei
fermato in questa posizione?», facendomi notare come
fissavo il
retro del gameboy
con sguardo perso. Scossi la testa e ridacchiai, prima di
continuare
a parlare,
«Ricordi
quando
mi cadde dal letto e si divise in due?»
«Cadde
sulla mia
testa, come dimenticarlo. Quel letto a castello era bello alto,
eh?»,
affermai riuscendo quasi a rivedere la scena davanti a me.
«E
la tua testa
molto dura.»
Ridemmo
nuovamente mentre le nostre conversazioni iniziarono a focalizzarsi
sul nostro passato, sul liceo e così via. Parlammo delle
nostre
amicizie finite ormai chissà dove, dei professori, o
più
semplicemente di tutte le nostre avventure. Ci addentravamo in boschi
simili a labirinti per poi uscirne stremati, o ci infiltravamo nei
cinema ove trasmettevano film ad orari indecenti, cercando di provare
a noi stessi che eravamo uomini e non avevamo paura di essere
scoperti e, soprattutto, di vedere film dell’orrore. Ne
passammo di
tutti i colori, io e Finn. Molti pensavano addirittura che fossimo
fratelli separati alla nascita; il nostro era sicuramente un legame
speciale, e nulla avrebbe potuto rovinarlo. O almeno, era quello che
avrei sempre desiderato. Un solo passo fuori dal normale e tutto
sarebbe andato in fumo.
«E
ricordi
quella ragazza, Judy? Chissà che fine ha fatto. Era davvero
una
ragazza particolare, mi piaceva.»
Annuii
con
evidente distrazione. Come dimenticarsi della ragazza che sbavò
dietro a Finn per
un anno
intero?
Probabilmente se
l’avesse sentito in quel momento sarebbe svenuta davanti a
lui. Da
quando lui la baciò – stavamo giocando al gioco
della bottiglia,
era l’ultimo anno di liceo – lei perse
completamente la testa,
come se un bacio potesse essere così speciale. Fu un anno
davvero
pesante quello, ma per fortuna le cose erano ormai diverse. Ora si
trattava
solo ricordi di cui
parlare il giovedì sera, e mi andava bene.
«Lei
era pazza
di te, non lo sapevi? Persino chi abita nello spazio avrebbe potuto
vederlo, non fare quella faccia», affermai osservando la sua
espressione con la coda dell’occhio. Non rispose,
impugnò la sua
chitarra e iniziò a strimpellare qualcosa di calmo e
orecchiabile,
proprio quando appoggiai il suo gameboy – talmente malconcio
che
dovetti farlo con cautela – sul tavolo lì vicino.
Ci spostammo
quindi
sulla sua camera, dopo
la sua solita frase “qui non mi piace suonare, andiamo nella
mia
stanza”.
Continuò
dunque
la sua dolce melodia e io mi sdraiai accanto al suo fianco,
appoggiando il mio capo sulle mie braccia incrociate. Stavo fissando
il soffitto mentre la musica di Finn mi stava cullando. Chiusi pian
piano le palpebre e, probabilmente, mi addormentai per qualche
minuto. Al mio risveglio, sebbene non fossi così pimpante, riuscii
a notare che
Finn stava
suonando una melodia che non sentivo da molti, moltissimi anni: si
trattava di un motivetto che inventai ad una delle nostre primissime
“avventure”, quando ci addentrammo in un quartiere
a noi
sconosciuto, finendo per perderci. Inventai quel motivo per riempire
il vuoto nelle
nostre
giovani menti spaventate, e soprattutto per tranquillizzare Finn.
Finimmo per canticchiarla insieme fin quando non trovammo la retta
via. Non avrei mai immaginato che avesse potuto ricordarla, specie in
un momento come quello.
Le
sue dita
cessarono di muoversi sulle corde quando alzai il mio busto,
così da
sedermi al suo stesso modo.
«C’è
qualcosa
che non va?» chiesi d’istinto. Collegai i pezzi del
puzzle, e
capii subito dalla sua espressione e dalla melodia che qualcosa non
andava. Mi guardò dritto negli occhi, uno
sguardo mai visto prima che bastò per far sorgere in me
delle
preoccupazioni. Il silenzio mi stava divorando, non ne ero abituato
quando stavo in sua compagnia. Esitò prima di aprire bocca.
«A
volte penso a
quante ne abbiamo passate noi due, sai? Penso molto,
a dire la verità: a noi due, alla nostra amicizia.»
Quelle
parole non
sembravano neppure le sue, non era mai stato un tipo sentimentale,
proprio come me. Con noi bastavano sicuramente dei gesti da poco per
dimostrare quanto tenevamo all’altro, e le pazzie certo non
mancavano all’appello.
Non
potei fare a
meno di continuare ad
osservare
quella sua
espressione così vuota, così persa. Conoscendolo
nella sua mente si
annidavano pensieri come “non voglio che nulla cambi, non
voglio
perdere l’unico amico che mi fa stare bene”,
perché era ciò che
pensavo anch’io.
«Andrà
tutto
bene, su», dissi con un velo di imbarazzo e
serietà messe insieme.
I miei occhi tornarono ad essere pesanti, così come
l’atmosfera
circostante: scostai dunque la chitarra di Finn e lo strinsi a me,
un’azione che facevamo di rado. Quella volta però
fu diversa,
speciale. Mi abbracciò con una dolcezza che non pensavo gli
appartenesse, ed io iniziai a disegnare figure invisibili sulla sua
schiena, come per tranquillizzarlo. Non seppi nemmeno spiegare come,
pochi attimi dopo, ci ritrovammo con i volti attaccati l’uno
all’altro: forse fu colpa mia, devo ammetterlo. Il suo volto
così
etereo e serio era così irresistibile, quasi quanto le sue
labbra.
Lo baciai a lungo senza staccarmi, come
se avessi
paura di vedere la
sua espressione una
volta
finito. Con
mia sorpresa,
quando cercai di allontanarmi, riafferrò il mio volto e mi
baciò
nuovamente, voglioso di quella sensazione che stava crescendo
inconsciamente in noi.
Il
suo sapore, lo
ricordo ancora così bene: delizioso,
instancabile. Ero talmente ammaliato che il mio respiro
iniziò ad
appesantirsi, volevo di più. Infilai la lingua nella sua
bocca e la
mossi con impazienza, e così fece lui, seppur più
cauto. Stava
tenendo saldamente i miei capelli mentre ci sdraiammo sul materasso,
e non indugiai ad aggrappare saldamente la mia mano nel cavallo dei
suoi pantaloni: la scelta migliore della mia vita, ma non nascondo
che rimasi addolcito dai gemiti soffocati di Finn e dal suo lieve
rossore. Successivamente, come
se avessimo avuto una certa fretta ancora a me inspiegabile,
iniziammo a spogliarci con fare animalesco, appiccicandoci
all’altro
quasi come un bisogno impellente. I nostri gemiti riempirono la
stanza come le melodie di Finn, fino a quando la sua ultima nota non
diede nuovamente spazio al silenzio creatosi in precedenza.
Mi
strinse
nuovamente mentre baciai con cautela il suo volto lievemente sudato;
stava
accarezzando con i suoi
polpastrelli la mia schiena ormai marchiata da graffi, quasi come per
ammirare il lavoro da lui compiuto. Allo stesso modo continuai a
lasciare il mio segno
su di lui, mordicchiando il suo collo così invitante e
morbido,
colmo infine di segni violacei. E quella visione, quella del Finn che
si abbandonava totalmente a me, fu ciò che mi rese
più felice in
assoluto. In tutta la sua semplicità, dove la sua bellezza
naturale
si celava, io mi innamorai di nuovo.
finnpoe
Note
di Morgana: Che
dire amici, questa non è altro che IL FRUTTO DELLA MIA
IMMAGINAZIONE
dopo aver visto l’ultimo film di star wars, che devo dire mi
ha
dato Tanto content per quanto riguarda questa ship che,
ahimè, non è
stata resa canon. Disney come al solito mi deludi però
perlomeno mi
hai dato del materiale per riprendere a scrivere dopo tanto tempo,
quindi da un lato ti perdono. In ogni caso, grazie mille della
lettura, spero di poter scrivere altro su di loro perché
davvero
sono bellissimi e li amo alla follia. Un ringraziamento ad Elia che
aspettava questa one shot e sopratutto ad Ely, la mia cara Ely che
spero rimarrà felice di ciò che la disney non ci
ha dato. Vi voglio
bene, e grazie del supporto! Oh, e a che ci sono, buon 2020.
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