d
Doppelgaenger.
Harry
si trovava di
nuovo a King’s Cross. Ma non la King’s
Cross babbana, né tantomeno quella magica.
Quella
del suo
sogno.
Harry Potter, il bambino-che-è-sopravvissuto, attualmente
meglio conosciuto il
ridondante titolo di Salvatore Del Mondo Magico, camminava per la
stazione
deserta, immersa in un’atmosfera brumosa e irreale.
Non
c’era dubbio
che si trattasse di un sogno. Un sogno inspiegabilmente simile a quello
che
aveva vissuto quando, durante la battaglia finale, era stato colpito da
Voldemort, e creduto morto.
Non
sapeva perché
si trovasse lì, ma si trattava di un sogno, di questo era
certo.
Dannatamente
vivido, poiché non aveva nulla di incoerente. Quella era una
stazione deserta,
priva di treni, e lui era lì, da solo.
Poi
l’aveva
sentito. Un lamento, come quello di un animaletto ferito. Aveva
percepito
distintamente sudore gelido scorrergli lungo la schiena.
Era
lo stesso suono
di quella cosa che aveva incontrato poco prima di vedere Silente.
E poi l’aveva vista, di nuovo, sotto una panchina. Un neonato
piccolissimo,
rosso, come scorticato, che piangeva. Si era avvicinato, come quella
volta di
otto anni prima, e come quella volta non aveva osato toccarla.
“Cosa vuoi da me?” si era trovato a sussurrare al
corpicino gemente.
Era
ancora vivo,
quindi, sebbene in quella specie di limbo, di non-luogo. Non vivo in
senso
tecnico del termine, certo. Quella cosa era una parte della sua anima
straziata, che rantolava e gemeva, ma solo una parte. Non si poteva
considerare
Voldemort.
Aveva
sentito di
nuovo quel lungo brivido freddo. Aveva mosso qualche passo, incerto.
Aveva
finito per chinarsi di fronte al neonato.
“Perché mi hai chiamato qui? Sei stato tu,
vero?”
La prima volta il colloquio con Silente era stato tutto nella sua
testa. Ma
stavolta quel sogno non gli apparteneva. Il luogo sembrava lo stesso,
eppure
non lo era.
Harry era sicuro che era stata quella cosa a chiamarlo.
Aveva
teso la mano,
e anche stavolta, non era riuscito a toccarlo.
Si
era svegliato
prima.
Otto
anni dopo la
sconfitta di Voldemort…
19
Dicembre 2006
“Harry…
Harry!”
L’uomo aveva aperto gli occhi, lentamente. Sopra di lui, la
moglie. Attorno a
lui, la loro stanza alla Tana. Era mattino, e la moglie non gli era mai
sembrata così radiosa, e il mondo così vivido. Le
aveva sorriso, a lei e al suo
ventre rotondo, perfetto. L’aveva baciata.
“Ginny…
Ginny Weasley.” Aveva mormorato contro le sue labbra.
“E’ il mio nome.” Aveva convenuto ironica
la donna. “Parlavi nel sonno, lo sai?
Continuavi a chiedermi cosa volessi da te. Una bella prova
d’amore coniugale!”
Harry
aveva battuto le palpebre un paio di volte, ed era tornato
prepotentemente il
ricordo di quello strano sogno.
“No, non stavo chiamando te…”
Ginny aveva curvato le labbra in un sorriso malizioso.
“Fantastico,
e quindi chi? Devo preoccuparmi?”
“Ma no, figurati… oh, Gin…”
aveva riso, dandole un buffetto. “Non in quel
senso, sai.” Poi si era fatto serio. Si era seduto sul letto,
incrociando le
gambe. “Ti ricordi quando ti ho raccontato del
mio… diciamo sogno, quando
credevo che Voldemort mi avesse ucciso? Di quando incontrai Silente, in
quello
strano limbo?”
Ginny aveva annuito, alzandosi e posandosi sulle spalle un cardigan
pesante.
Era un dicembre particolarmente freddo, quello, e la neve si era
già posata pesantemente
sui terreni attorno alla casa, proteggendola in un ovattato e bianco
silenzio.
“Certo…” aveva atteso che continuasse.
“Beh, ho sognato di nuovo quel posto.” Si era
passato una mano trai capelli,
sfiorando leggermente la cicatrice, ormai poco più che un
lieve segno sulla
pelle.
“E
Silente?”
“No, stavolta Silente non c’era. Ma
c’era… quella
cosa. Quella creatura.”
“Il neonato?” aveva corrugato le sopracciglia.
“Quello che credevi fosse…”
“L’anima morente di Voldemort,
già.” Aveva convenuto con una smorfia. Aveva
guardato la donna, serio. Sentiva una sensazione spiacevole addosso,
come se un
serpente gli fosse strisciato lungo la schiena.
Sensazione
orribile, davvero.
“Era
come quella volta. Gemeva, e sembrava… mi chiedesse aiuto.
Ma io non potevo
darglielo. Cioè, volevo… ma non ci riuscivo, mi
ripugnava troppo.”
“Silente
ti disse che non poteva essere aiutato…”
“E se invece avesse mentito?” aveva mormorato,
senza neanche rifletterci. Ginny
l’aveva guardato perplessa, prima di scuotere la testa.
“Harry,
lui è morto. Non
è altro che concime
per vermi, perdonami l’espressione. È stato solo
un sogno, non rompertici
troppo la testa…” aveva aggiunto affettuosamente,
passandogli le braccia
attorno al collo. Il ventre rotondo si era frapposto tra loro due, e
Harry
aveva sorriso, accarezzandolo.
“…
sì, hai ragione. E’ solo che è stato un
sogno così strano. Ero cosciente, come
quella volta. E stavo davvero per toccarlo, stavolta… credo.
Poi mi hai
svegliato e…”
“Harry Potter.”
Aveva scandito il suo
nome, seria. “I sogni sono soltanto sogni. La differenza tra
quella volta e
questa è che tu eri stato appena colpito da una maledizione
senza perdono.
Stavolta stavi dormivi della grossa. Noti qualche differenza amor
mio?”
Harry aveva convenuto che sì, c’era in
effetti una differenza.
Ginny
gli aveva allora picchiettato l’indice sul naso:
più piccola di lui di due
anni, a volte sembrava quasi sua madre. Con i suoi ventisei anni e
innumerevoli
esperienze alle spalle … Harry a volte si sentiva comunque
un bambino, di fronte
alla giovane moglie.
Ed
era una sensazione bellissima.
“Stiamo
per avere un bambino, Mister Potter. Forse inconsciamente ti senti
spaventato,
ed hai sognato quell’orribile neonato…”
“Oh, andiamo Gin! Abbiamo già Jamie. Il terrore da
neo-padre è cosa passata!”
Quasi, aveva pensato, quasi…
Ma non era il caso di farlo sapere alla moglie. Giusto?
Ginny
l’aveva guardato a lungo. In silenzio. Alla fine, come tutte
le volte, era
capitolato sotto l’ironica fermezza di quegli occhi nocciola.
“Okay,
forse sono un po’ preoccupato… voglio dire. Se
fossero gemelli?”
“Non è
un’eventualità.” Aveva pronosticato
decisa. E Harry scommetteva che non
sarebbe stata smentita. Non le capitava quasi mai.
“E’
stato solo un brutto sogno, Harry. Fatti una doccia, mangia un
po’ delle uova
strapazzate della mamma e va al lavoro. Qualcuno dovrà pur
guadagnarsi da
vivere, in questa famiglia.” Aveva concluso arruffandogli i
capelli e alzandosi
dal letto.
Al momento Ginny era disoccupata. Aveva lasciato le Holyhead Harpies
quando era
rimasta incinta di Jamie, e attualmente si occupava del piccolo a tempo
pieno. All’inizio
aveva trovato difficile rinunciare alla scopa e al Quidditch ma alla
fine,
complice la vivacità di Jamie e le pressioni di Molly, si
era ufficialmente
ritirata dai campi da gioco. Non riusciva a stare lontana dal figlio, e
con il
secondo in arrivo, la possibilità che tornasse a giocare,
era ancora più
remota.
Harry
sapeva che per la moglie quella era stata una dura rinuncia. Amava
giocare, e
aveva talento. Ma più di tutto, come amava ripetergli quando
provava a muovere
qualche obiezione, amava la famiglia.
La
loro famiglia.
Harry
aveva sorriso, andando in bagno e infilandosi sotto il benefico getto
caldo
della doccia.
Se
fosse stato maschio avevano già in mente il nome.
****
Una
ventina di minuti dopo era seduto alla tavola Weasley. Molly gli aveva
già
riempito tre volte il piatto, e Arthur, dalla sua posizione di
capofamiglia,
stava tentando di coinvolgerlo in un’appassionante
discussione sul
funzionamento di una cosa chiamata intrenat.
Harry dubitava seriamente che Arthur avesse una vaga concezione del
concetto di
internet, ma lo stava ascoltando
volenterosamente.
“Papà io non credo si dica demodè.
Quello è un aggettivo.” Aveva obbiettato
Ginny, bevendo un sorso di succo di zucca.
“E’ modem.” Aveva convenuto infatti
Hermione, concentrata sulla lettura della
Gazzetta del Profeta: erano tutti lì per le vacanze di
Natale, Ron e la moglie
erano venuti il giorno prima. Si attendevano George con la fidanzata,
Bill e
famiglia. Teddy sarebbe venuto per la Vigilia,
con la nonna. Charlie, come al solito,
era disperso nelle lande desolate della Romania.
“Oh… questo intrenet comunque
è
incredibilmente complicato. Anche a livello concettuale.”
Stava per lanciarsi
in una nuova arringa, quando un Crack! Aveva annunciato
l’arrivo di un Ron
particolarmente agitato.
“Harry,
devi venire subito in ufficio.” Aveva borbottato, salutando
con un cenno della
testa i presenti. Il giovane uomo aveva annuito, alzandosi in piedi. Se
si era
addirittura smaterializzato per arrivare fino alla Tana il
più velocemente
possibile la faccenda doveva essere seria.
Ron
era entrato l’anno prima, alla divisione auror, con gioia sua
e dell’amico.
Prima di tentare l’esame di ammissione aveva infatti aiutato
George con ‘i tiri
vispi Weasley’ per un po’. Era stata
un’esperienza positiva per entrambi i
fratelli, sebbene il minore non avesse la stoffa del negoziante.
Infatti, per
delicatezza nei confronti di George, Ron non aveva mai accennato alle
sue vere aspirazioni.
Era stato il fratello infine a licenziarlo, con tono brusco e
amichevole, una
mattina di cinque anni prima, con queste parole.
“Non
ho intenzione
di vedere libri di preparazione al test per auror spuntare tra le
scatole di
merendine marinare per tutta la vita né di continuare a
sopportare il tuo
occhio languido quando vedi Harry con la sua bella divisa. Sei
licenziato,
fratellino. Va’ a fare quello per cui sei tagliato.”
Ron
era passato al primo colpo, stupendo soprattutto se stesso.
“Qual
è il problema Ron?” Aveva chiesto quando si era
infilato il mantello e messo la
bacchetta in tasca. Erano andati all’ingresso, lasciando gli
altri finire in
pace la propria colazione.
“Forse
è meglio se…”
“Sì, giusto.”
Poco dopo erano al secondo piano del Ministero della Magia, diretti
verso il
quartier generale. Harry gli aveva fatto cenno di parlare.
“Ti ricordi il caso Coleridge?”
Harry si era leggermente incupito: aveva annuito, senza rallentare il
passo. Era
un caso su cui stavano lavorando da anni: Artemius Coleridge era un
ex-mangiamorte, attualmente fuggitivo. Era un vero asso nel fabbricare
la
pozione polisucco, che gli permetteva di passare inosservato sotto il
naso
degli auror. Estremamente frustrante.
Avevano
sprecato uomini, tempo e risorse per cercare di sbatterlo dentro, ma
era sempre
riuscito a fuggire all’ultimo soffio. Le piste erano morte da
mesi. Sparito,
irrintracciabile. Si sospettava fosse scappato all’estero,
riparando forse in
Germania.
“C’è qualche nuova pista?”
“Un nostro informatore l’ha visto a Notturn Alley,
da Magie Sinister.”
Harry aveva inarcato le sopracciglia. Un errore così
grossolano da parte di
Coleridge non se l’aspettava. Farsi vedere con il suo vero
aspetto in un posto
continuamente pattugliato da auror in incognito…
Una
stronzata.
Ron
gli aveva lanciato un’occhiata. “Sì, so
cosa pensi. Sembra assurdo anche a me…
ma Paulson dice che il tipo è affidabile, dico,
l’informatore. Se non altro per
quanto lo paga. E sai che Paulson non ama essere preso per il
culo.”
Harry aveva fatto un distratto cenno con la testa.
“Andiamo in ufficio, dai. Sono già in ritardo,
eh?”
Ron aveva fatto un mezzo sorriso.
“Sei
scusato, amico. In fondo a Gin è scaduto il tempo,
no?”
“Abbiamo già la valigia pronta, sotto il letto.
Direzione San Mungo.”
Ron
aveva riso, dandogli una pacca sulla spalla. “Speriamo non
siano gemelli.”
Harry aveva fatto una smorfia. “Gin è sicura che
non lo saranno. Ma non so, non
abbiamo voluto sapere nulla e…”
“Beh,
spero solo non tocchi a me ed Herm.” Aveva borbottato il
rosso.
Harry aveva riso. “Per Merlino, speriamo proprio di
no!”
Erano arrivati di fronte alla porta che recitava in lettere scarlatte
‘Ufficio
Auror’. Ron aveva sorriso tra sé e sé,
facendo sorridere di riflesso Harry.
Sapeva
che l’amico non credeva ancora del tutto al suo successo.
Spesso lo trovava
seduto alla sua scrivania, a guardarsi attorno con aria luminosa e un
po’
spaesata: era sempre stato così Ron. Ci metteva un
po’ a carburare il concetto
che poteva essere in gamba quanto e più degli altri. Ma
gliela si poteva
passare. Dopotutto erano solo sei mesi che era diventato ufficialmente
un auror
operativo.
Erano
stati accolti dalla propria squadra, composta da lui, Ron, Richard
Paulson, Liam
Flannery e Artemisia Stump, che ventava con un certo imbarazzo una
lontana
parentela con uno dei primi ministri della Magia. Era una ragazza con
una
timidezza inversamente proporzionale alla sua corporatura minuta, anche
se in
caso di scontro non esitava a gettarsi in prima linea. Un leone
travestito da
agnellino.
Flannery,
un corpulento irlandese con i capelli mori tagliati a spazzola, si era
avvicinato.
“Ehi, capo.” L’aveva apostrofato
trascinando l’ultima sillaba. Veniva da Galway
ed era da poco entrato nella squadra, come Ron. Non si stavano
particolarmente
simpatici. Flannery era tutto quello che Ronald non era mai stato.
Soprattutto,
estremamente sicuro di sé.
“Aggiornatemi.”
Nonostante avesse solo ventisei anni, nessuno questionava mai la sua
autorità.
Era del tutto accettata e digerita, come la certezza che Voldemort non
avrebbe
potuto far più male a nessuno.
Dopotutto
ci sono
certi aspetti positivi, nell’essere il salvatore del mondo
magico.
Artemisia
si era schiarita la voce. Aveva i capelli colorati di rosa, e a volte a
Harry
ricordava un po’ Tonks. Fortunatamente, pensava spesso con
nostalgia, non era
così goffa.
“Coleridge
è stato avvistato ieri sera, verso le nove, mentre si
materializzava davanti al
negozio di Magie Sinister, a Notturn Alley.”
“Quindi non ci è entrato?”
Flannery aveva inarcato le sopracciglia. “No, capo. Chi te
l’ha detto?”
Aveva visto con la coda dell’occhio Ron arrossire alle sue
spalle. Aveva
scrollato appena la testa. “Nessuno, avevo solo supposto si
fosse
materializzato nei pressi per entrarci. Va’ avanti
Art.”
“…
sì. Dunque, si è materializzato, poi si
è diretto verso un pub nelle
vicinanze…”
Aveva girato un foglio del piccolo taccuino di cuoio su cui si
appuntava ogni
cosa. Flannery aveva ironizzato una volta ci scrivesse anche quante
volte
andava in bagno.
“… il Black Goose. Lì il nostro
informatore l’ha perso.”
“Perso?”
La ragazza aveva annuito, con un lieve sospiro, guardando verso
Paulson, il più
anziano della squadra: aveva una quarantina d’anni e non era
di molte parole, e
beh, a dire il vero, non sembrava aver simpatia per nessuno, nessuno
appartenente alla razza umana perlomeno. Aveva una volta confidato a
Harry di
avere una muta di quindici cani da caccia che amava come figli. Era
scapolo e
non aveva famiglia.
“Il
vecchio Jog ha provato ad entrare dietro Coleridge ma è
stato fermato da uno
che voleva i suoi soldi… ed ha perso un po’ di
tempo per non farsi spaccare le
ossa o beccarsi uno stupeficium. Quando è finalmente
riuscito ad entrare,
Coleridge se n’era già andato. Forse
l’aveva notato ed era filato dal retro.”
Harry si era passato una mano trai capelli. “Bene…
C’è altro?” ad una risposta
negativa, aveva sospirato. “Allora non ci resta che andare a
Notturn Alley e
fare un po’ di domande. Ron tu verrai con me.”
L’uomo aveva annuito.
Congedati
dagli altri, e usciti dall’ufficio, l’amico aveva
borbottato qualcosa trai
denti.
“…
Ron, è tutto a posto. Anche io avrei pensato che fosse
entrato a Magie
Sinister.”
“Già, ma non ci è entrato. Ed hai visto
Flannery? Te l’ha subito fatto notare,
accidenti!”
“Lui lo sapeva, tu no. Sei venuto subito a
chiamarmi… Avrà saputo il resto
mentre tu eri con me alla Tana, no?” aveva spiegato
pazientemente al
corrucciato amico. Ron aveva mugugnato qualcosa, poi aveva scrollato le
grosse
spalle.
“Sì,
forse hai ragione.”
“Non forse, è
così. Non rompertici
troppo la testa. Sei un bravo auror. Sei
un auror.” Gli aveva stretto una spalla, e finalmente Ron
aveva sorriso. “Forza,
andiamo a far cantare qualche uccellino.”
“…
Come?” l’aveva guardato confuso. Harry aveva
sbuffatto divertito: undici anni
passati trai babbani, più svariate estati, non erano facili
da lasciare alle
spalle.
A
volte sentiva la nostalgia di Privet Drive e le sue ordinate villette a
schiera,
per quanto gli sembrasse assurdo.
“Niente,
è solo un vecchio modo di dire.”
Era
quello il suo mondo ormai.
****
Un
uomo era volato fuori da un vicolo, atterrando con un tonfo sordo di
fronte a
un negozio che esponeva una nutrita collezione di mani umane,
rattrappite in
svariate e raccapriccianti. forme.
L’uomo,
Jogson, aveva provato a rialzarsi e ad afferrare la bacchetta sotto la
giacca
stazzonata.
“Expelliarmus!”
La bacchetta era volata lontano, con un’imprecazione da parte
del suo
proprietario.
“Te l’avevo detto che non avrebbe
collaborato…” Aveva sbuffato Ron, uscendo dal
vicolo, e raccogliendo la bacchetta, mettendola al sicuro dentro al
mantello.
“Quella
è la mia bacchetta
bastardo!”
“Ah sì? A me sembra di averla raccolta per terra,
invece…” aveva replicato Ron
con un sorrisetto. Harry guardava l’uomo seriamente, invece:
non gli piaceva
usare la forza, specie con supposti, leali, informatori. Ma quel tipo
gli era
sembrato un po’ troppo guardingo e ansioso di parlare con
Paulson invece che
con loro.
Jogson nascondeva evidentemente qualcosa. E con la sua propensione al
firewhiskey,
il buon uomo di Leeds non l’aveva notato.
Ad
Harry Potter non piaceva usare la forza, no, ma non era neppure un
santo. E lì
si stava parlando di un mangiamorte in fuga da otto anni, che si era
macchiato
di omicidi efferati durante l’ascesa di Voldemort, e che
stava, peraltro,
continuando ad uccidere, seminando cadaveri durante la sua fuga.
“Jogson,
non ci piace perdere tempo. Dov’è
Coleridge?”
“Come ve lo devo dire, in serpentese?! Non lo so, dannazione!
L’ho perso,
perché quel bastardo di Nutt mi ha fermato prima che potessi
andargli dietro!”
Harry si era guardato attorno: nessuno dei passanti sembrava stare
notando la
scena, né sembrava darle importanza. Gli auror in quel
quartiere non erano ben
visti, ma venivano generalmente temuti. Dopotutto erano la polizia del
mondo
magico.
Si
era chinato sull’uomo, che puzzava di alcohol scadente.
“Non ti credo, Jog. Non c’è nessun
valido motivo per cui un uomo sveglio come
Coleridge si faccia vedere con il suo vero aspetto qui, a Londra. Puzza
tanto
di depistaggio…”
“Già.” Aveva convenuto Ron
torvo,incrociando le braccia al petto. “Quanto ti ha
pagato quel figlio di cagna, per dirci questa stronzate?”
L’uomo aveva inspirato, distogliendo per un attimo gli occhi
da quelli verdi di
Harry.
Era
bastato.
“Quanto?” aveva
chiesto con tono
fermo. “Se confessi potrai avere una pena minore. Forse
riusciremo persino a evitarti
Azkaban.”
L’uomo
era impallidito, serrando le labbra sottili e rovinate. Anche se
Azkaban, sotto
il ministero di Kingsley, non aveva più i dissennatori
rimaneva comunque ciò
che era.
Una
prigione.
“Cosa? Non ho fatto niente!”
“Hai dato informazioni volutamente sbagliate
ad un auror del ministero, amico… a casa mia si chiama
depistaggio. E viene
punito duramente.” aveva sbottato Ron, irritato.
“Quindi ti conviene parlare, o
ti portiamo direttamente a Heligoland per un soggiorno gratis. Ti
piacerebbe
una bella cella umida con vista sul mare del Nord?”
L’uomo aveva ringhiato frustrato.
“Mi
ammazzerà!”
Harry l’aveva afferrato per un braccio, tirandolo su con uno
strattone che
l’aveva fatto lamentare. “No, non ci
provare… non funzionano con me certi
trucchetti.” L’aveva avvertito. “Chi? Chi
ti ammazzerà?”
“Mi
farà fuori, vi dico… vi prego, lasciatemi andare.
Sono solo un povero vecchio.
Ho combattuto dalla parte giusta, durante la seconda guerra magica,
sapete?
Sono solo un povero vecchio…”
“Finiscila.” L’aveva zittito Harry
strattonandolo. “Quello che hai fatto in
passato non giustifica aver coperto un mangiamorte latitante.
Perché è quello
che hai fatto, non è così?”
La faccia dell’uomo si era accartocciata. Era scoppiato in
lacrime, sottili,
che colavano lungo il viso trascurato.
“Mi
ha costretto… mi ha costretto! Mi ha detto che mi avrebbe
cruciato. Oh, voi
sapete come sono quelle maledizioni… sono orribili,
orribili! Vi prego,
proteggetemi… tornerà a cercarmi, lo so, e mi
ucciderà! Mi ucciderà!”
Si era gettato ai piedi di Harry, che l’aveva guardato diviso
tra la pena e il
disgusto.
“Forse
è meglio portarlo in ufficio e fargli dare una calmata. Mi
sa che stiamo dando
un po’ troppo nell’occhio,
Harry…” aveva mormorato Ron, avvicinandoglisi.
“Sì, hai ragione. Ti proteggeremo,
Jogson… ma tu dovrai parlare.” Gli aveva
intimato, prima di afferrarlo per un braccio. Si erano smaterializzati,
lasciando
la strada vuota, spazzata da una lunga folata di vento dicembrino.
Quando
erano apparsi, accompagnati da Jogson, l’ufficio era occupato
solo dal buon
irlandese, che stava scrivendo il rapporto
sull’interrogatorio di Paulson.
Quest’ultimo, fortunatamente, era uscito a pranzo, e
probabilmente anche Stump.
Ad Harry non sarebbe piaciuto dover sottilineare l’errore del
suo sottoposto
più anziano.
“Ehi, ma questo non è Jogson?”
“Lui in persona. Fagli un the, per favore Liam.”
Harry aveva aiutato l’uomo a
sedersi sulla sedia dietro la sua scrivania. Sembrava essere
invecchiato di
dieci anni, e la cosa non aveva certo aiutato la sua già
smunta figura.
È
terrorizzato.
Comprensibile. Un ex-mangiamorte è pur sempre un
mangiamorte. Un suffisso non
dequalifica un assassino.
Si
era appoggiato al bordo del tavolo, posandoci le mani.
“Allora… raccontaci
tutto dall’inizio.”
L’uomo,
con una tazza di the bollente tra le mani, aveva esitato. Ma poi, sotto
lo
sguardo torvo di Ron e Harry si era deciso a vuotare il sacco.
“Mi
ha avvicinato due settimane fa. Ero fuori dal Black Goose a bermi un
goccetto,
quando mi si avvicina un bel ragazzo, biondo, pulito. Del genere che di
solito
non frequenta certi posti. Mi chiede se non sono un Jogson.
Sì, gli dico io, in
persona. Mi dice che ha conosciuto mio fratello, Ernie, e comincia a
dirne un
gran bene… dice che era molto amico di suo padre.
Chiacchieriamo e mi offre un
sacco di bicchierini. Un tipo simpatico, sembrava. Poi mi chiede di
seguirlo
nel retro, che vuole parlarmi di affari. Sapete, io scommetto su un
po’ di
cosette e… beh. Gli chiedo se vuole piazzare una scommessa e
a quel punto mi
punta la bacchetta alla gola. Dal nulla, ma io ero ubriaco, e senza
bacchetta.
Sapete, mi capita di lasciarla spesso al bancone quando alzo un
po’ il gomito…”
ammette con un sorriso sbilenco.
Ron
aveva fatto una smorfia.
“Geniale
Jogson… Notturn Alley è proprio il posto giusto
dove scordarsela.”
“Ehy,
io conosco i ragazzi del Goose, sono gente in gamba! Non mi
torcerebbero un
capello!”
“Dei veri maghi gentiluomini…”
“Ron,
fallo continuare…”
“Beh, a quel punto mi dice che devo dire quel che ho detto al
vecchio Paulson.
Cioè che l’avevo visto materializzarsi vicino a
Magie Sinister, e poi entrare
al Goose.” Aveva obbedito, lanciando un’occhiata
soddisfatta a Ron. “Io gli
dico, amico, ma di chi parli? A chi dovrei dirlo? Lui mi dice che sa
che sono
un informatore per gli auror. Mi dice anche che mi
ammazzerà… e lo ripete un
sacco di volte. Un sacco e… ma che se lo farò,
lui mi ricompenserà.”
“Monete?” aveva chiesto Harry, corrugando le
sopracciglia. L’uomo aveva sorriso,
sinistramente.
“Oh,
no, molto meglio. Io glielo giuro… e allora…
allora… lui tira fuori la
bacchetta e… pronuncia qualcosa, un incantesimo. Pensavo
volesse ammazzarmi, ed
ho cominciato ad urlare, ma… La mia gamba non funzionava
più, dopo la guerra.
Mi è rimbalzata addosso una maledizione senza perdono,
già… e da allora non si
muoveva. E adesso non zoppico più. Già.
L’ha guarita! Quei cretini del San
Mungo dicevano che non sarebbe più tornata come prima!
L’ha guarita!”
Ron aveva guardato Harry perplesso.
Se
al San Mungo non
hanno potuto fare niente… che diavolo di incantesimo ha
usato Coleridge?
“Sai
dov’è adesso?”
Jogson aveva fatto un sorrisetto amaro. “E crediate che me
l’abbia detto? No di
sicuro, non siamo mica compagni di bevute. Ma il vecchio qua non
è stupido…” si
era picchiettato la fronte “… Ed adesso ha le
gambe funzionanti. Sissignore.
Così quando se n’è andato ho aspettato
un po’, e poi l’ho seguito.”
“E
dov’è andato?” aveva mormorato Harry,
attento. L’altro fa un sogghignetto.
“Cos’ho in cambio?”
“Razza di bastardo, ringrazia che non ti spediamo in
direttissima a Azkaban!” aveva
sbottato il rosso furibondo. “Parla, punto e basta!”
“Niente
Azkaban… se parlerai faremo in modo che nessuno sappia che
hai dato
informazioni fallate ad un auror sotto… consiglio,
diciamo, di un mangiamorte…”
“E
riavrò la mia bacchetta?”
“Lurido scarto di…”
“Riavrai la tua bacchetta.” Aveva confermato Harry,
sebbene a malincuore.
L’uomo
aveva valutato la proposta, o così sembrava, poi aveva fatto
una smorfia, annuendo.
“È entrato in una vecchia casa disabitata, a pochi
isolati dal Goose. Penso si
stia rifugiando lì. Di posti fatiscenti a Notturn Alley ce
ne sono un sacco, e
nessuno ti viene a chiedere l’affito.” Si era
cercato nelle tasche della
vecchia giacca, poi aveva sbuffato. “Se mi date un pezzo di
carta vi scrivo
l’indirizzo.”
****
“Ci
siete? Al mio segnale entriamo dentro. Non sappiamo dove esattamente si
è
rifiugiato, e se irrompiamo potrebbe avere il tempo di
fuggire.”
Harry era acquattato assieme alla sua squadra dietro un vicolo che dava
su una
serie di tristi palazzi vittoriani, che avevano l’aria di
stare per implodere
su se stessi da un momento all’altro. Gli ricordavano
Grimmauld Palace. In
effetti, riuscivano persino ad essere una brutta
copia di Grimmauld Palace: addossati gli uni agli altri
ospitavano una
masnada di disperati, di maghi e streghe falliti. Un tempo forse lo
stesso
Voldemort aveva abitato lì, quando ancora era Tom Riddle.
Sto
pensando un po’
troppo a lui oggi. È per via del sogno. È
sicuramente per via di quello.
Spesso
sì, gli capitava di sognarlo. Come gli capitava di rivivere
la battaglia finale,
gli amici morti, i tanti e dolorosi funerali.
Ma
erano sogni nebulosi, sfilacciati, da cui si svegliava con le lacrime
agli
occhi, cercando il caldo corpo della moglie. Non erano reali.
Quel
sogno invece l’aveva lasciato lucido e con una brutta
sensazione, che ancora
non l’aveva del tutto abbandonato.
Anzi,
forse si era acuita.
“Capo…
tutto okay?” aveva sussurrato Flannery, che gli era spalla
contro spalla. Harry
si era riscosso.
“Sì… scusate. Stavo solo pensando a
come entrare senza farci vedere
dall’interno della casa. Non sarà
facile.”
“Materializzandoci?”
“Non conosciamo l’interno della casa,
Stump.”
La ragazza era arrossita. “Già, hai
ragione…”
Ron aveva sorriso, tirando fuori quello che sembrava un accendino.
Harry
aveva ridacchiato.
“Pensavo l’avessi perso…”
“Un regalo di Silente? Scordatelo… e poi questo
piccolino c’è stato utile tante
volte, non credi? Solo, non è una cosa che uso proprio tutti
i giorni, ecco…”
“Che cavolo ci fai con un accendino Weasley? Ti pare il
momento di fumare?”
aveva borbottato Paulson, che era nato babbano.
Ron l’aveva guardato perplesso. “Non è
un ACCENDino. Spegne le cose, non
le accende!”
“Fagli vedere, Ron.” Aveva riso sotto i baffi
Harry.
Il
ragazzo aveva fatto scorrere il pollice lungo la pietra focaia, ed
improvvisamente tutte le luci della stradina angusta erano state come
ingiottite dal buio.
Paulson
aveva trattenuto un’esclamazione.
“Deluminatore. Non accende, spegne.” Gli aveva
spiegato soddisfatto Ron.
“Adesso andiamo, forza.” Li aveva richiamati
all’ordine, prima che Flannery
potesse fare ulteriori domande. Si erano mossi silenziosamente lungo il
muro
del palazzo, prima di avvicinarsi al vecchio portone, vetusto ma
resistente.
Aveva estratto la bacchetta.
“Alohomora.”
La
porta si era aperta con un leggero cigolio, liberata dal pesante
lucchetto che
la teneva chiusa. Era spirata una lieve folata d’aria, dal
sentore di chiuso e
urina di topo. Flannery aveva fatto una smorfia disgustata.
“Niente commenti…” aveva sussurrato
Harry, ammonitore.
Non
riusciva ancora a capire perché Coleridge avesse deciso di
tornare a Londra.
Era un fuggitivo, braccato dalla comunità magica
internazionale: perché tornare
nel posto meno sicuro per lui al mondo?
Forse,
come aveva suggerito Ron, poteva essersi stancato di fuggire in paesi
stranieri. Poteva mancargli l’Inghilterra. Erano stati
esposti un sacco di
motivi, ma Harry non ne trovava valido neppure uno.
A
meno che non sia
tornato per qualcosa. O qualcuno.
Non
sapeva se Coleridge aveva famiglia, ma per rischiare così
tanto doveva avere un
ottimo motivo.
E
poi c’era un’altra domanda che tormentava Harry:
perché far dire a Jogson che
era a Notturn Alley? Non era un depistaggio quello. Era buttarsi tra le
braccia
del nemico.
Tutto
questo non ha
senso…
Avevano
salito le scale, attenti a non fare il minimo rumore: Coleridge, se
c’era,
doveva essersi accorto dell’improvviso blackout, e temeva che
fosse abbastanza
intelligente da capire che non era stato casuale.
“Bacchette alla...”
“AVADA
KEVADRA!”
Prima
che potesse terminare la frase un fascio di luce verde
l’aveva quasi preso di striscio.
Si era buttato contro il muro, fortunatamente seguito dagli altri.
“Certo
che sono proprio monotoni…” aveva sibilato
Flannery, con un sogghigno.
“LUMOS!”
aveva gridato Harry e
il globo
di luce per un attimo aveva illuminato il fuggitivo. Coleridge era un
uomo di
quarant’anni, atletico, dal sangue freddo, almeno a giudicare
dalle foto del
suo dossier al ministero.
Quello
che aveva visto per una frazione di secondo, prima che scappasse lungo
il
corridoio del secondo piano, ne sembrava l’ombra. Si teneva
una mano sotto il
braccio, impedita. Reggeva infatti la bacchetta con la mano sinistra.
Harry
ricordava nitidamente non fosse mancino.
Questo
spiega la
pessima mira…
“Andare
all’estero fa male…” aveva replicato
Flannery seguendo a breve distanza Harry,
che si era lanciato al suo inseguimento. “Cara buona vecchia
Inghilterra!”
Harry aveva represso una risata, per non far indispettire Ron, che
sembrava
aver preso poco bene la retrocessione a guardaspalle della fila.
Imboccate
le scale del terzo piano l’avevano di nuovo avuto davanti.
Sembrava si muovesse
lentamente, impacciato o impedito da qualcosa.
“Stupeficium!”
aveva gridato Harry,
ma un protego da parte di Coleridge
aveva
vanificato il suo attacco.
“Perché non si smaterializza?!” era
stata Stump, a chiederlo, ansimando per la
corsa.
Già,
perché? È
stato lui a prenderci di sorpresa, non viceversa. Ci ha sentito
arrivare,
eppure non è scappato come ha sempre fatto.
Non
appena l’uomo aveva voltato il corridoio, e il rumore sordo
di una porta che si
chiudeva rimbombava nell’edificio, Harry aveva capito.
“Sta cercando di portare via qualcosa!” aveva
gridato alla sua squadra, prima
di scattare verso la porta e aprirla con un calcio. Non molto magico,
ma veloce
ed efficace.
L’uomo
era chinato su un cassetto, e stava tenendo tra le braccia una mole
ingombrante,
dando loro le spalle.
“Stupefi-!”
Non era riuscito a terminare neanche stavolta. L’uomo aveva
estratto la
bacchetta. L’aveva guardato negli occhi. Aveva occhi folli,
da invasato.
“Ardemonio!”
aveva urlato e dalla
bacchetta si erano sprigionate fiamme dense, nere, che avevano invaso
la stanza
lurida e ingombra di pergamene e libri.
“Maledizione!”
aveva urlato. “Tutti fuori di qui!”
Conosceva
quell’incantesimo. Tiger l’aveva evocato otto anni
prima, nella Stanza delle
Cose Nascoste, venendone coinvolto lui stesso. Ed era quello che stava
accadendo all’ex-mangiamorte, tra le sue urla scomposte.
Per
quanto ne sapeva, non c’era un incantesimo in grado di
fermare quel rogo
impazzito.
“Harry, vieni via!” aveva urlato Ron dalla porta.
“Vieni via!”
Il giovane uomo si era guardato attorno. Tutti gli appunti, i libri di
Coleridge, le prove, stavano
venendo
corrose dall’incantesimo. Aveva tossito, indietreggiando
verso la porta.
Poi
l’aveva sentito. Un vagito, singolo, forte. Seguito da altri.
Il pianto di un
bambino.
“HARRY, VIENI VIA!”
continuava ad
urlare l’amico, pronto a scattare e portarlo via di peso, se
fosse stato
necessario.
“C’è un bambino!”
aveva replicato,
cercando l’origine di quel pianto. L’aveva trovata
proprio nel cassetto su cui
era chinato l’uomo, ora accartocciato in un angolo, avvolto
nelle fiamme.
C’era davvero un bambino, avvolto malamente in una coperta
sudicia, che
strillava a pieni polmoni. Un neonato. Senza esitare l’aveva
preso in braccio,
stringendoselo al petto.
Quello che fino a poco prima era stato Coleridge, e adesso era una
massa
contorta di carne bruciata, aveva ghignato ferocemente, nei suoi ultimi
istanti
di vita.
“Il Signore Oscuro
risorgerà…” aveva sibilato.
“HARRY!”
L’aveva guardato un’ultima volta, prima di
afferrare la mano dell’amico e
smateriallizzarsi dal palazzo in fiamme.
****
La
squadra guardava le rovine del palazzo bruciare, impotenti. Di
lì a poco
sarebbero arrivati i rinforzi, e sarebbe stato domato
l’incendio che ne
consumava le fondamenta. La povera gente di Notturn Alley era uscita in
strada,
spettatrice passiva di quel terrificante spettacolo.
“…
È assurdo.” Aveva mormorato Stump. Sembrava la
più scossa di tutti, ed aveva
accettato con gratitudine la fiaschetta di whiskey irlandese, di
fattura
babbana, che Paulson le aveva porto: era comprensibile del resto.
Quella era la
sua prima missione, e aveva visto morire un uomo in modo atroce.
“Già, è proprio senza senso. Coleridge
ha passato otto anni a scappare come una
lepre, ed ha deciso di ammazzarsi in un modo del tutto idiota. Sarebbe
potuto
scappare. Avrebbe potuto farlo. Perché non l’ha
fatto?” Flannery sembrava
parlare per tutti. Ron si era seduto sul marciapiede, sospirando.
“Forse
era stanco… una vita passata a fuggire. Che razza di vita
è?”
“Ma ammazzarsi così… avrebbe potuto,
chessò, buttarsi dalla finestra.”
“Voleva
che tutto quello che c’era in quella stanza venisse con
lui.” Harry teneva tra
le braccia il bambino che piagnucolava. Sembrava illeso. Si
soffermò a
guardarlo meglio ora che erano al sicuro: non poteva avere che pochi
giorni.
Era innaturalmente piccolo, gracile, forse prematuro. Aveva la
testolina
coperta di una leggera lanugine nera e gli occhi aperti, di un denso
color
cobalto.
“Ma questo bambino…” aveva borbottato
Paulson. “Da dove diavolo spunta?”
“Non
ne ho idea… era in un cassetto… dentro
un cassetto, a dire il vero.”
“Un
bambino in un cassetto? Oh, povero piccolo…” Stump
si era avvicinata, e aveva
teso le mani, ma quando Harry aveva provato a passarglielo il bambino
aveva
protestato vivacemente con un urlo.
“Oh, ehi! Tienilo tu, amico. Di urla per stasera ne ho fatto
il pieno.” Aveva
borbottato Ron, grattandosi la folta capigliatura rossa.
“Sarà suo figlio?
Voglio dire… era figlio di quel bastardo?”
“E la madre?”
“Mah… forse un troll.”
Avevano
riso. Non era una battuta particolarmente brillante per i soliti
standardi di
Ron, ma avevano tutti bisogno di sciogliere la tensione.
“Sarà
ferito… dovremmo portarlo al San Mungo.” Aveva
suggerito la parte materna di
Stump. Harry aveva scosso la testa.
“Potrebbe essere una prova.”
“Harry, è un bambino!”
Negli anni Ron
aveva preso alcuni modo di fare della moglie, per una sorta di osmosi
dei
sentimenti. Quella era la tipica faccia che avrebbe fatto Hermione,
indignata e
densa di proteste sottointese. Per un attimo Harry pensò di
farglielo notare,
ma poi lasciò perdere.
“Lo
so, Ron… ma Coleridge stava cercando di nasconderlo, quando
siamo arrivati.
Significa che era importante per lui. E che forse è il
motivo per cui è tornato
a Londra ed ha deciso di nascondersi qui. Diagon Alley con i suoi
negozi sono
dietro l’angolo. E un bambino ha bisogno di latte, ricambi,
cure.”
“Però almeno controlliamo, se non ha qualche
ferita…è stato tenuto in un cassetto,
e chissà per quanto tempo!”
aveva protestato con un’insolita decisione Art.
Harry
aveva sospirato, ma capiva benissimo la reazione della ragazza. Aveva
liberato
il bambino dalla coperta, rivelando il corpicino magro e…
“Ma…”
“Non ha l’ombelico!” aveva sbottato
Flannery incredulo.
In
effetti, il pancino del bambino non presentava alcun segno, era liscio
e…
“Miseriaccia.”
Aveva borbottato Ron arruffandosi i capelli. “Beh, e adesso
cosa…?”
…
Facciamo?
Dovevano
decidere, ed in fretta. Tra poco sarebbero arrivate altre squadre sul
posto e ci
sarebbero state richieste di spiegazioni, avrebbero dovuto stilare un
rapporto,
e visto la natura del ritrovamento del neonato probabilmente sarebbe
stato
esaminato: se non altro perché aveva una caratteristica ben
più evidente di…
una cicatrice, ad esempio, a forma di saetta.
Verrà
portato via.
Del
resto era questa la procedura.
Harry
aveva guardato negli occhi i compagni. Aveva legato con quella squadra,
con
ciascuno di loro, in quegli anni di duro lavoro. Era entrato a
diciassette anni,
poco dopo la guerra, e non aveva mai smesso di lavorare. Più
che un lavoro,
quello per lui era una vocazione.
Essere
un auror non era più facile che essere un poliziotto nel
mondo babbano. La vita
dura e i sacrifici erano molti. Le soddisfazioni, poche. E quella notte
erano
stati loro a scovare Coleridge. Ad
assistere al suo assurdo suicidio. A trovare quel bambino.
Flannery
aveva aperto bocca per dire qualcosa, ma l’aveva
immediatamente richiusa:
sembrava che l’imponente irlandese non sapesse bene cosa dire
per la prima
volta in ventun’anni di vita.
“Portiamo
il marmocchio in ufficio.” Aveva borbottato Paulson,
sbrigativo come sempre.
Stump
si era schiarita la voce timidamente.
“Sì… avrà fame.”
Harry aveva tra le braccia il bambino. Sentiva il suo corpicino, caldo,
vivo,
muoversi e respirare. Forse complice il fatto che di lì a
pochi giorni sarebbe
divenuto padre, un sentimento forte, impossibile da reprimere, gli era
scoppiato nel petto.
Protezione.
Quel bambino avrebbe potuto essere suo figlio, e doveva essere
protetto. Dalla curiosità
e da braccia estranee.
“Va
bene. Andiamo.”
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