December 4th – BruAbba
“Hot Wax”
Il corpo di Leone è
scolpito nel marmo, un’opera d’arte che per troppo tempo ha risieduto solitaria
all’interno di un blocco informe, apparentemente senza alcun valore artistico,
senza scopo. Le mani di Bruno scavano ogni notte per ricavarne una forma solida
e concreta, una forma che Leone riconosca e apprezzi come propria. Ha smesso da
tempo di contare le volte in cui l’altro uomo gli si è avvicinato – a volte
alticcio, le gote color porpora, e altre volte completamente sobrio – per
lasciar scivolare le dita tra i suoi capelli neri ed implorarlo, pregarlo di
farlo suo. Di quei giorni Leone non ha bisogno di domandare, né di implorare:
la casa di Bruno è la sua casa. Si muove tra le grandi stanze ariose della
villa di Capri, non con l’aria di chi possiede ciò che lo circonda ma con
l’atteggiamento inverso – quello di chi è, in tutto e per tutto, posseduto.
Leone
Abbacchio è di Bruno Bucciarati tanto quanto lo sono
le vetrine e le porcellane esposte al loro interno, tanto quanto i quadri
appesi alle pareti e tanto quanto le decorazioni di conchiglie raccolte dalla
spiaggia, unite tra loro da un cordone di spago e pendenti dal soffitto della
cucina e del salotto – che più di tutto il modesto lusso e più di tutta la
ricchezza di Bruno lo affascinano, spingendolo a domandarsi chi sia davvero
l’uomo che lo ha salvato, accolto e rimodellato come suo.
Ciò che
Leone sa è che Bruno ha occhi scuri e dita ferme, uno sguardo deciso che vede
lontano, un corpo delicato ma non debole. Morde il suo labbro inferiore fino a
che Leone non sente dolore e gli si sottrae per raggiungere la candela rossa,
gemella delle altre candele che forniscono luce alla stanza. Leone, i cui polsi
sono legati ai pomelli dorati del letto, freme nel vedere la candela inclinarsi
sotto le dita delicate di Bruno, la fiamma riflettersi nei suoi occhi scuri. La
prima goccia di cera bollente scivola sul suo petto e scivola in una lacrima
arrossata che gli brucia la pelle abbastanza da fargli inarcare la schiena in
una curva perfetta, ma mai quanto la seconda – che cade più vicino al suo
capezzolo sinistro, che gli strappa un gemito sincero. Bruno affonda le dita
nei suoi capelli e lo osserva soddisfatto, mai malizioso. Continua a
picchiettare sull’asta della candela, a colorare la sua pelle di cera, fino a
che il petto e l’addome di Leone non diventano un campo di papaveri rossi e
dalla sua bocca scivola una scia di bava, dal suo glande una scia di umori. In
quella perdita di se stesso, quell’eccitazione tanto
forte da estraniarlo, è la mano di Bruno a ritrovarlo: carezza il suo viso, la
pelle del suo petto – senza mai avvicinarsi alle zone lese – e scende verso il
pube, afferrandolo e masturbandolo senza mai interrompere il contatto visivo.
Il suo nome diventa una preghiera che cade ancora e ancora dalle labbra di
Leone, il rosario di un devoto; e quando viene, finalmente, è con un orgasmo
lento e lungo, con le dita di Bruno che carezzano i suoi capelli ormai lunghi e
scomposti.
Leone
sente la presa sui suoi polsi allentarsi e, ancora in preghiera, scivola a
terra in ginocchio; solleva il viso per osservare quello del suo salvatore. Se
quello in cui vivono fosse un mondo giusto vedrebbe nella sua espressione una
dura consapevolezza, un rimprovero per tutti i suoi errori; ma quello è un
mondo ingiusto, e Bruno gli sorride benevolo – e Abbacchio, colpevole e
furioso, cerca il peccato e il perdono affondando il volto tra le gambe di lui.
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