Nightmare [Shadow of the moon]
Titolo:
Nightmare [ Shadow of the Moon ]
Autore: My
Pride
Fandom: D.Gray
Man
Tipologia: One-shot
Genere: Generale,
Malinconico, Sovrannaturale
Characters: Allen
Walker, Tyki Mikk
Pairing: Tyki/Allen
[ Poker Pair ]
Rating: Giallo
/ Arancione
Avvertimenti: Vagamente
nonsense, Shounen ai, Spoiler!, What if?
Prompt: 2°
Argomento: Opposti
› Oscurità
D.
GRAY MAN© 2004Katsura Hoshiro. All
Rights Reserved.
Se
sono un angelo
non dipingetemi con le ali nere.
- Amadeo, da “Armand il
vampiro” -
L’oscurità
mi avvolgeva senza che io potessi diradarla. Era
pesante, opprimente. Sembrava strisciare lenta
come un serpente infido nel mio
animo, mostrandomi
volti di persone sconosciute, sussurrarmi all’orecchio parole
enigmatiche e
spente. Il dolore mi artigliava lo stomaco in
una morsa
d’acciaio, costringendomi più e
più volte a serrare le palpebre nel tentativo di contenerlo.
Ma più ci provavo, più
esso aumentava. Sempre più pressante,
quell’oscurità aveva cominciato a divenir
più densa,
ovattata e calda come una carezza.
Un gemito sfuggì
dalle mie labbra, sebbene non
capissi dove esse si trovassero. Ci misi un
po’ per riprendere il pieno possesso
del mio corpo. E quando lo feci, credetti di
morire. Aprendo gli occhi, ciò che
vidi fu
l’Omega che mi trafiggeva. Li
spalancai maggiormente, sentendo la calda consistenza del
sangue scorrere
via a fiotti dalla bocca e dal punto leso. L’odore
di ruggine fu così forte da
farmi venire un capogiro. Intorno a me
l’oscurità sembrava
essersi attenuata, mostrandomi a poco a poco
le forme d’una città in declino, distrutta da una
qualche catastrofe. Null’altro
c’era, se non
morte e solitudine.
Provai a parlare per chiedere
aiuto, ma dalle mia labbra non
uscì alcun suono. Solo altro sangue.
Preso dal panico, feci saettare gli occhi ovunque, vedendo
da ogni parte lo
stesso identico scenario triste e pietoso. Fui
scosso da un conato di vomito e richiusi gli occhi,
tremando. Tutto ciò che ricordavo
era il volto di Kanda
prima che distruggessimo
quell’Akuma. Poi, soltanto un enorme
vuoto sconquassato di dolore.
Pian piano un piacevole
calore si stava facendo sempre
più strada nel mio
corpo, e lasciai che i miei occhi stanchi trovassero il loro riposo in
quel
mondo fatto nuovamente d’ombre. Quasi
non sentivo più dolore. Quasi
non sentivo più sconforto. Tutto era
divenuto più semplice mentre mi
avvicinavo pian piano al mio destino. Mentre mi
avvicinavo alla morte che ben presto mi avrebbe
accolto.
“Allen”.
Un semplice richiamo. La
voce di
qualcuno che proveniva da molto lontano. Con
lentezza estenuante riaprii gli occhi, cercando quel
qualcuno con la vista
ormai debole. Non vedevo nessuno, proprio come
pochi attimi prima.
“Allen”
Eppure quella voce continuava
a chiamarmi. A
cercarmi. Provai a voltare di poco la testa,
ignorando la fitta di
dolore che subito mi
trafisse. Un odore un po’
più denso del sangue mi
giunse pian piano alle narici, facendo
spostare la mia attenzione in un punto lontano oltre le macerie.
Sembrava... cerone. Come quello che
veniva usato dai Pierrot. Non capii esattamente
da dove arrivasse, ma continuai a
cercarlo come se fosse
l’unica cosa che mi permettesse di non impazzire in quel
mondo bianco e nero
tinto di sangue.
“Allen”.
La voce si faceva sempre
più vicina. E
anche quell’odore molto più pesante.
Mi ritrovai a poggiare una mano insanguinata sulla lama
dell’alabarda,
boccheggiando. Non avevo quasi più
fiato per respirare. La vista scemava a poco a
poco nonostante avessi gli occhi
socchiusi. Inspirai a fondo quel profumo,
lasciando che fosse il mio
olfatto a guidarmi, e infine eccolo
lì, stagliato
contro il bianco del cielo. La figura che con
insistenza mi chiamava, quel solito
sorriso dipinto in volto.
“Allen”.
Il viso truccato esprimeva
gioia. Gli
occhi dagli angoli allungati sembravano divertiti.
Allungò una mano verso di me con un gesto
aggraziato, quasi volesse invitarmi a
seguirlo. Continuava a sorridere rassicurante,
come se non si fosse
accorto della spada
che mi trafiggeva. Io, però, rimasi
stupito
nell’osservarlo. Non poteva essere
lui. Sentii qualcosa bruciarmi agli angoli degli
occhi senza che
potessi evitarlo,
mentre con lentezza alzavo a mia volta una mano per catturare la sua.
Fu doloroso, ma mi sforzai
anch’io di stirare le
labbra in un sorriso. Era impossibile. Ma
era bello. Quello era un sogno travestito da
incubo, o forse l’esatto opposto.
“Mana”.
«Noah». Un rauco sussurro
nella notte che imperversava sul mondo. Qualcuno,
in lontananza, stava piangendo.
I contorni sfocati dei palazzi venivano
inondati a poco a
poco dalla pallida e
argentata luce della luna che sorgeva lentamente per gettarsi in cielo.
Guardavo lontano, oltre i tetti di quella
città
in cui mi trovavo. Sentivo il vento che
soffiava carezzarmi con dolcezza i
capelli,
scompigliandomeli come dita affusolate ed esperte prima di
attorcigliarsi
qualche ciocca fra le mani fatte d’ombra. Era
simile a quel tocco leggero che avevo
cominciato ad
imparare ormai da
parecchio tempo. Lasciavo che quella piacevole
brezza autunnale mi sfiorasse
il viso e i lunghi
fili argentati che componevano la mia chioma, socchiudendo nuovamente
gli occhi
per nascondere alla vista le fioche luci dei sobborghi. Alla
cieca mi sedetti sul cornicione, beandomi di quel
piacevole venticello. Il fruscio delle fronde
degli alberi che venivano smossi era
una piacevole
nenia che mi cullava con dolcezza, come se cercasse di farmi nuovamente
sprofondare in quel sonno dal quale mi ero da poco risvegliato.
Rialzai le palpebre puntando lo sguardo
verso il manto
oscuro del cielo,
osservando quel lenzuolo di seta trapunto di stelle. I
raggi della luna mi bagnavano sempre più,
creando riflessi strabilianti nei
miei capelli che sembravano esser rievocati persino dai miei occhi. Era
la sensazione più bella che avessi mai
provato. Immerso com’ero in quel
torpore,
nemmeno davo
più peso all’agile figura seduta
accanto a me. Si trovava lì dal
momento in cui avevo aperto gli
occhi, ma non aveva ancora
fiatato. Forse, come me, stava godendo di quel
paesaggio mozzafiato. Era una cosa
assolutamente meravigliosa. Mi sentivo come se
non avessi catene, come se non avessi
restrizioni. Come se, da un momento
all’altro, potessi spiccare
un balzo e volare su, verso
quel cielo nero fino a toccare con la punta delle dita la pallida luna.
Mi diedi dello
sciocco per il mio stesso
pensiero, tornando ad
accomodarmi vicino alla figura che pazientemente mi aveva atteso. Quei
suoi occhi dorati infine mi osservarono, quasi non mi
vedessero da tanto. La sigaretta che di solito
gli pendeva dalle labbra stavolta
non c’era, ma
l’espressione un po’ vuota che il suo volto
esprimeva non era scomparsa. Le cicatrici che
si intravedevano sul suo corpo grazie al
candore della luna
che gli illuminava la pelle diafana erano lente a guarire, proprio come
le mie. Seguii con lo sguardo il lento movimento
d’una
delle sue mani, vedendolo
avvicinarla al mio volto per ravvivarmi dietro alle orecchie i capelli,
scostandomi poi di poco il colletto della camicia che, a differenza sua
che era
a petto nudo, indossavo.
«A cosa stai
pensando?» mi chiese
d’un tratto, continuando ad accarezzarmi
la pelle con il tocco delle sue mani esperte, facendole vagare con
lentezza
estenuante.
Gliele scansai con un gesto
di stizza, volgendo nuovamente
lo sguardo al cielo. «A
nulla», risposi mio malgrado,
sentendolo muoversi brevemente come per
provare ad avvicinarsi maggiormente a me. Un
gesto aggraziato, il tiepido
tocco delle ali d’una farfalla.
Portando lo sguardo nuovamente su di lui, lo vidi con
entrambe le mani aperte,
riverse a coppa come se cercasse di catturare la candida luce della
luna che si
rifletteva su Tease. Era poggiata lì
sulla punta delle dita, immobile
come fosse di cristallo e
argento.
«Ah... a
nulla», commentò vagamente divertito, agitando
appena
l’indice per portare la sua farfalla nera al viso e
socchiudere gli occhi
dorati, come se stesse inspirando il suo odore.
Il suo viso era rilassato come non mai, quasi in contrasto
con il resto del suo
corpo che io stesso avevo precedentemente martoriato.
Baciò appena un’ala di Tease, facendola
sparire poi nel palmo della sua mano.
«Anche il nulla è in grado di possedere
qualcosa», disse infine, schiudendo
le palpebre per liberare quelle due gemme preziose che erano i suoi
occhi ed
osservarmi. «Ma gli esseri umani spesso non riescono a
comprenderlo».
Scossi la testa distogliendo
da lui lo sguardo, decidendo di
concentrare la mia
attenzione solo e unicamente a quella luna lontana.
«Sono stanco d’ascoltare i tuoi
vaneggiamenti», replicai secco, facendogli
chiaramente intendere che la conversazione per me era chiusa.
Lo vidi solo fare spallucce prima che, imitandomi, portasse
a sua volta le
iridi su quel pallido astro notturno che riluceva in quel manto di
tenebra. Come si era arrivati a quel punto, non
lo ricordavo bene
nemmeno io. Rammentavo solo vagamente le parole
degli altri miei
compagni, quelle dei
semi-akuma creati dalla Sede Nord America, persino ciò che
io stesso avevo
pronunziato.
“Finché
continueremo a camminare verso ciò in cui crediamo,
andrà tutto bene...
Quando giungeremo alla fine di tutto questo, sorrideremo tutti”.
Era
ciò che avevo detto e sostenuto con tutto il cuore.
Ciò che avevo continuato a ripetermi come se
potessi in quel modo convincere
più me stesso che i miei compagni. Allora
perché nulla era andato come credevo? Perché
mi trovavo lì, insieme al mio
nemico, ad assistere all’inizio della fine
del mondo? Era questo ciò che non
comprendevo e che non
riuscivo ad accettare.
Fu una lieve carezza che mi
sfiorò i capelli a
riportarmi alla realtà, una
carezza così lenta e dolce che fu appena percettibile. Mi
voltai con lo sguardo ancora parzialmente offuscato dai
miei ricordi, quasi
faticando a mettere a fuoco quella figura che con cotanta delicatezza
mi aveva
toccato. Un sorriso che esprimeva allegria. Capelli
sbarazzini d’un colore ramato che
danzavano nella brezza notturna.
«Cosa
c’è che non
va, Allen?» mi chiese con la sua voce di sempre,
lasciando però in questo modo che il sorriso sparisse, quasi
sostituito da un
ghigno. Allora ritornai in me e scansai per
l’ennesima
volta quella mano che non aveva
rinunciato a carezzarmi, rivolgendogli uno sguardo carico
d’odio. Ci guadagnai solo una sua
grossa e divertita risata.
«Ti rendi ancor
più detestabile di quanto tu non sia già,
così
facendo», gli volli tener presente in un moto di stizza e
amarezza, serrando
una mano sul bordo di quel tetto.
Riuscii solo a farlo ridere
più forte e a farlo
distendere all’indietro, con lo
sguardo rivolto ancora una volta sulla falce argentata. Parve
non prestarmi più attenzione mentre
riabbassava le palpebre, lasciando
che la mia solitudine tornasse dolorosamente a cullarmi.
Quel gelo che investiva il mio cuore
s’intensificò, rivestendolo d’acuminate
spine che non facevano altro che farlo sanguinare. Sanguinava
gocciolando con lentezza e pigrizia dagli angoli
smussati della mia
anima, scivolando lungo il mio corpo straziato dalla sofferenza come il
vino in
una coppa. E non potevo far nulla per chiudere
quella mia ferita. L’avrei
portata fin quando non si sarebbe compiuto
il mio destino, per
l’eternità.
«Rimugini ancora,
piccolo baro?»
mormorò d’un tratto lui, distraendomi.
Era ancora nella stessa identica posizione, con
l’unica differenza che i suoi
occhi dorati erano nuovamente puntati su di me.
Sembravano quelli d’un serpente che osservava la
sua preda. Freddi e inespressivi, senza la
benché minima
scintilla di vitalità.
«Ciò che
faccio è solo affar
mio», replicai rassettandomi con non curanza le
mie vesti, come se in quel modo potessi cercare di distrarmi e
illudermi di non
essere lì. Ma era solo una soluzione
come un’altra per
scappare a quella realtà, e lo
sapevo troppo bene. Non c’era nessun
modo per cambiarla. Nessuno.
«Non la pensavi
così quando sei venuto
qui, Allen Walker».
Quelle sue parole furono
capaci d’incendiarmi
d’ira, tanto che mi ritrovai ad
osservarlo con lo sguardo assottigliato. Scattai
verso di lui, alzandolo di peso senza badare alla
sua espressione
vagamente sorpresa. Gli artigliai la gola con la
sinistra, stringendo quasi fino
a strangolarlo. Smise di respirare, ma non
mosse un dito per provare a farmi
allentare la presa
né fece una piega. Il suo volto era
rimasto inespressivo come suo solito, con
quelle cicatrici che
lo segnavano e che scendevano anche a circondargli il collo. Gli
occhi dorati mi osservavano, immobili e silenti come
quelli d’una statua.
«Ebbene?»
mi chiese infine, riuscendo
perfettamente a parlare nonostante gli
stessi serrando la gola in una morsa impedendogli di respirare
regolarmente. Non serviva a nulla quel che stavo
facendo. Lo
sapevo, lo sapevo... lo sapevo. Ma mi ostinavo
comunque a stringere, sempre di
più. Volevo vedere la sofferenza
dipinta sul suo volto. La stessa sofferenza che
aveva fatto provare a me e ai miei
compagni. Quello che agiva non ero io. Nay,
non potevo essere io.
“Ricordalo,
tu sei un Akuma Maledetto. Un servitore del Conte del Millennio.
E, allo stesso tempo... il mio schiavo, per
l’eternità”.
Lo lasciai andare
immediatamente alle parole che
mi
riecheggiarono nella mente, ritrovandomi ad indietreggiare con il
disgusto
dipinto in volto.
Guardavo lui, che a sua volta mi osservava con
quel viso
immoto. Sorrideva velatamente, in un modo che
sarebbe voluto
apparire in qualche modo
sensuale.
«Presto
giungerà la fine». Mosse
appena le labbra, rendendo il tono basso e sibillino,
quasi un sussurro
trasportato via dal vento che si diffuse nel cielo, come
un’allarmante nota
definitiva sul mondo degli uomini. Quei pozzi
dorati continuavano ad
osservarmi mentre mi traevo
sempre più indietro, con il guizzo d’un qualcosa
nelle loro profondità che non
riuscii a comprendere. «Ciò
che accadrà
è scritto». Senza
interrompere il contatto dei suoi occhi con i miei, si
alzò con un unico
movimento fluido e aggraziato, quasi fosse stata la vela
d’una nave sospinta
dal vento. Pochi passi leggeri e mi fu accanto,
afferrandomi
delicatamente con entrambe le
mani il volto per osservarmi con più attenzione.
Avvicinò il viso al mio, dando vita ad un sorriso
che fu come l’Inferno.
«Welcome back
♥».
Questo
è soltanto un incubo.
Presto ti sveglierai.
Noah.
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