Epitaffio

di Baudelaire
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Di morte mangerai, che mangia gli uomini,
e il morir finirà, morta la morte.
 
(William Shakespeare, Sonetto CXLVI)
 
 
 
La felicità.
Stretta tra le mani per pochi, fugaci istanti, eterea, leggiadra, quasi invisibile.
Poi, uno schiocco appena percettibile, e via, svanita nel nulla, le mani di colpo orfane, lacrime brucianti a rigare questo viso ch’egli tanto decantava.
Ma no.
Lei è di più.
Io, granello di sabbia, non sono nulla rispetto al mare infinito.
Hai trovato l’oceano, il riflesso in cui specchiarti, e hai lasciato cadere questo misero sassolino, che piange in silenzio al tuo cospetto.
Ma tu non ti accorgi, perso e inebriato dal suo profumo che sa di nuovo, di buono, di vita agiata e sicura.
Quella che non potevo darti io.
E così hai scelto, amore mio, strappandomi a morsi questa carne come un lupo affamato, facendo a brandelli la mia anima, lacerata, torturata, oltraggiata.
Io non sono più.
Che ne sarà di me?
Che mi resta, se non lasciarmi avvolgere dalla stretta dolce e fatale di Thanatos?
Giungerò al suo cospetto, il Tartaro le porte per me spalancherà.
Dolce sarà il viaggio, breve l’attesa, eterno il riposo.
Non piangere per me, fratello mio. Non ho altro da donarti, su questa terra marcia, putrescente, infetta.
Non fatelo nemmeno voi, o madre. La mia miseria qui volge al termine, presto ci ritroveremo, là dove tutto è pace.
Ecco, il cappio che ogni cosa sistemerà.
Ecco, la redenzione.
Avvolgimi, abbracciami, stringimi nella tua morsa dolcissima.
Lieve sarà il sospiro, un alito di vento, un battito d’ali, un istante d’eternità.
Poi, finalmente, più non sarò.




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