contest
Burning
like ice
#01.
Meet again
Shōto camminava per le strade della
città con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, lo
sguardo basso e la visiera del berretto calata sulla fronte per
nascondere l’inconfondibile capigliatura per metà
bianca e per metà rossa, capace di attirare un fan
desideroso di foto e autografo almeno ogni cento metri. Non che la cosa
gli desse particolarmente fastidio – quello che sbraitava
contro i fan troppo accaniti era Bakugō – ma dopo una
giornata lunga ed estenuante in cui si era dedicato anima e corpo al
suo lavoro, Shōto desiderava solo tornare a casa, farsi un lungo bagno
caldo, mettere qualcosa sotto i denti e infilarsi sotto le coperte per
riposare le membra stanche e indolenzite.
Tuttavia, ad un certo punto del tragitto, avvertendo delle urla
provenienti da un vicolo cieco, Shōto si rese conto che i suoi piani
per la serata avrebbero dovuto aspettare ancora un po’.
Addentrandosi nel vicolo, infatti, trovò un gigantesco
ammasso d’acqua dalla forma antropomorfa girato di spalle:
aveva bloccato una persona contro il muro e minacciava di farla
affogare con la stessa consistenza del suo corpo se non gli avesse
consegnato tutti i suoi soldi e oggetti di valore.
Con un sospiro frustrato per quella giornata che sembrava non voler mai
giungere al termine, Shōto raccolse gli ultimi residui di eroismo che gli
erano rimasti in corpo e batté il piede destro per terra
congelando il tratto di strada che lo separava dal villain, il quale,
non essendosi accorto di nulla, diventò in pochi attimi una
statua di ghiaccio. La scelta di utilizzare il suo lato destro
anziché quello sinistro non aveva nulla a che fare con la
storia di suo padre – Shōto l’aveva ormai superata
da parecchio tempo, soprattutto grazie all’aiuto di Midoriya,
ed ora utilizzava tranquillamente l’uno e l’altro
potere, insieme o singolarmente a seconda del caso. L’unico
motivo per cui aveva preferito fermare quel villain con il ghiaccio e
non con il fuoco era il fatto che probabilmente, se fatto evaporare, il
mostro avrebbe ripreso in poco tempo la sua forma liquida originaria.
Congelandolo, invece, non gli avrebbe lasciato alcuna via di scampo.
Una volta fatto il suo dovere, Shōto si preparò ad essere
sommerso dai ringraziamenti della persona che aveva salvato, ma
ciò che gli arrivò all’orecchio fu
invece l’eco del proprio nome pronunciato da una voce
femminile decisamente familiare (e piacevole).
«Todoroki-kun!».
Tutto si sarebbe aspettato, Shōto, tranne che di veder spuntare la
figura slanciata di Yaoyorozu Momo da dietro l’imponente
statua di ghiaccio.
«Yaoyorozu…».
L’eroina gli veniva incontro con un sorriso stampato sul
volto e un braccio sollevato in segno di saluto, e Shōto non
poté fare a meno di squadrarla
più del dovuto: era cresciuta in altezza e anche le sue
curve, già generose ai tempi della scuola, sembravano
essersi fatte ancora più sinuose e mature, messe in evidenza
dall’attillato corpetto rosso aperto sul davanti
affinché l’eroina potesse facilmente creare dal
busto tutto ciò di cui avesse bisogno per combattere. La
voluminosa coda nera, ora, le arrivava praticamente ai fianchi danzando
morbidamente sulla sua schiena ad ogni passo, ma gli occhi erano
rimasti gli stessi: grandi occhi neri dalla punta leggermente
allungata, occhi dolci e allo stesso tempo determinati, umili e privi
di arroganza nonostante lo sfarzo al quale Yaoyorozu, essendo di
famiglia benestante, fosse da sempre abituata. A Shōto erano sempre
piaciuti i suoi occhi – più dei seni grossi e
tondi che varie volte, a scuola, aveva intravisto (forse) per sbaglio
durante gli allenamenti o gli scontri, più dei fianchi
morbidi e delle gambe lunghe e snelle lasciate costantemente scoperte
dalla cortissima gonna gialla per la felicità di tutto il
pubblico maschile (e non).
Negli ultimi tempi, infatti, Yaoyorozu sembrava apparire più
spesso nelle vesti di fotomodella per gli spot televisivi che nelle
vesti di eroina per le strade della città, segno che era
ormai scesa a patti con il fatto che la sua bellezza
l’avrebbe condotta tanto lontano quanto il suo Quirk o forse
anche di più. Era, insomma, la degna erede di Uwabami,
l’avvenente Snake
Hero presso la quale Yaoyorozu aveva svolto il tirocinio
ai tempi della scuola e che l’aveva assunta nella sua agenzia
subito dopo il diploma.
«Ti ringrazio per l’aiuto», disse
Yaoyorozu a Shōto, non appena gli arrivò di fronte.
«In effetti, ero parecchio in difficoltà con quel
villain: ho provato a creare un’aspirapolvere per risucchiare
via tutta quell’acqua, ma la pressione non era abbastanza
forte».
«Non c’è bisogno che mi
ringrazi», rispose Shōto con tono neutro.
«Semplicemente, in questo caso, il mio Quirk era
più adatto del tuo». E lo pensava davvero: in
più occasioni, Yaoyorozu si era dimostrata tanto forte
quanto intelligente e Shōto l’aveva sempre ammirata per
questo.
«Non fare il modesto», lo rimproverò
scherzosamente l’eroina. «Il tuo Quirk è
sempre
più adatto di qualunque altro Quirk».
A quel punto Shōto si rese conto che quella era la prima volta che lui
e Yaoyorozu si rivolgevano la parola dalla fine della scuola. Dopo il
diploma, infatti, un po’ perché indaffarati a
farsi un nome in qualità di eroi e un po’
perché non avevano mai stretto un’amicizia
veramente forte, si erano completamente persi di vista limitandosi a
salutarsi di striscio le rare volte in cui si incrociavano per le
strade della città, ma ora che Yaoyorozu era lì
di fronte a lui, così bella e genuina, Shōto
pensò che non gli sarebbe dispiaciuto affatto riprendere e
mantenere i contatti con lei così come li manteneva con
Midoriya, Bakugō e pochi altri.
E forse Shōto avrebbe approfittato della situazione per scambiare due
chiacchiere con la sua ex compagna di scuola, se solo non avesse
avvertito in lontananza il suono delle sirene della polizia.
«Ti lascio il merito dello scontro, va bene? Ho fretta di
tornare a casa», disse sbrigativamente a Yaoyorozu
desiderando dileguarsi il prima possibile, dato che non aveva
assolutamente voglia di fare rapporto ai poliziotti né
tantomeno di essere portato al pronto soccorso per controlli medici di
cui non aveva affatto bisogno.
«…Cosa?! No, aspetta! Non è affatto
giusto, il merito è solo tuo!», esclamò
l’eroina con gli occhi infiammati di senso della giustizia.
«E poi come gliela spiego alla polizia quella statua di ghiaccio?!».
«Sono sicuro che troverai una soluzione. Ci vediamo,
Yaoyorozu».
Shōto si voltò riabbassandosi la visiera del berretto sulla
fronte e mosse appena qualche passo in direzione dell’uscita
del vicolo, quando la voce dell’eroina gli riempì
nuovamente le orecchie.
«Todoroki-kun!».
Shōto si bloccò sul posto e ruotò solo il busto
per sentire cosa avesse da dirgli Yaoyorozu di tanto importante.
«Permettimi di offrirti almeno un caffè per
sdebitarmi», propose Yaoyorozu riaccorciando la distanza che
li separava fino a pararsi nuovamente di fronte a lui.
«Non ce n’è bisogno, Yaoyorozu, davvero.
Devo andare». Shōto marcò le ultime due parole con
la speranza che la conversazione terminasse lì –
si sarebbe volentieri attardato con lei se solo la polizia non fosse
stata così vicina.
«Domani sera al bar che ha appena aperto di fronte al
parco», insistette Yaoyorozu. «Ti va bene alle
nove?».
Shōto non trovò alcun motivo per rifiutare: in fondo, era
stato lui stesso a pensare che fosse davvero un peccato aver smesso di
frequentare Yaoyorozu e quale occasione migliore per recuperare il loro
rapporto se non quella di prendersi un caffè insieme?
«Alle nove», ripeté Shōto piegando un
angolo della bocca in un sorriso, poco prima di voltarsi nuovamente e
raggiungere in poche falcate l’uscita del vicolo.
L’ultima cosa che sentì svoltando
l’angolo fu un forte e chiaro «Ci conto,
Todoroki-kun!», in parte sovrastato dal suono delle sirene
della polizia giunta in soccorso della bella Creati.
***
Immersa sotto il getto dell’acqua calda che lavava via la
stanchezza e il sudore dal suo corpo, Momo non faceva altro che
ripensare all’incontro con Todoroki Shōto avuto giusto un
paio d’ore prima. L’aveva trovato decisamente
più alto e più robusto di quanto ricordasse, ma
al di là delle spalle ampie e dei muscoli guizzanti al di
sotto della stoffa blu del costume da eroe, il cambiamento principale
era il suo nuovo taglio di capelli: mentre ai tempi della scuola gli
ricadevano lunghi e lisci sopra la fronte, ora Todoroki li teneva corti
e leggermente rivolti all’insù sopra la testa,
cosicché il suo volto ora appariva molto più
aperto e luminoso di prima, con la cicatrice dell’ustione in
bella vista. Momo non aveva mai pensato che quella macchia rossastra
– ricordo di un passato non propriamente felice –
deturpasse il viso di Todoroki, anzi, gli dava un’aria
vissuta capace di renderlo ancora più affascinante.
Un po’ perché gli era veramente grata per averla
aiutata con Wateri* – così diceva di chiamarsi il
villain d’acqua – e un po’
perché aveva una cotta per Todoroki dai tempi della scuola,
alla fine Momo aveva trovato l’occasione e il coraggio di
strappargli una sorta di mezzo
appuntamento dopo ben cinque anni passati a guardarlo da
lontano e a chiedersi con che scusa avrebbe potuto rompere il ghiaccio
(letteralmente, perché non avrebbe potuto esserci metafora
più adeguata per descrivere l’apparente corazza
fredda dietro la quale Todoroki nascondeva le proprie emozioni).
Con sommo piacere di Momo, l’eroe aveva accettato il suo
invito, dandole conferma di non essergli affatto indifferente.
L’aveva notato, Momo, il modo in cui Todoroki la
guardava: era sì attratto da lei fisicamente al pari di
tanti altri uomini, ma il suo sguardo era sempre stato diverso,
più sincero e meno lascivo, capace di andare oltre l’apparenza
alla ricerca di ciò che aveva dentro. O almeno
era questo che Momo percepiva sperando davvero di non
sbagliarsi. Magari, con un po’ di fortuna,
quell’incontro tra loro due avrebbe potuto trasformarsi in
qualcosa di più…
Momo si sentì arrossire al pensiero di come sarebbe stato
bello lasciarsi stringere dalle braccia forti e muscolose di Todoroki,
accarezzargli con una mano i ciuffi rossi e con l’altra
quelli bianchi, tastare la pelle sensibile della cicatrice, scoprire
che sapore avessero le sue labbra sottili.
Sentendosi improvvisamente più accaldata del dovuto, Momo
regolò il getto della doccia ad una temperatura
più bassa per placare gli ormoni in subbuglio e si impose di
rimanere con i piedi per terra, di non correre troppo finché
non avesse avuto la certezza che Todoroki provasse per lei qualcosa di
più della pura attrazione fisica.
Dopo la doccia, Momo si concesse una cena veloce e poi si
infilò nel letto, ma in realtà non
riuscì a dormire molto, agitata al pensiero che la sera
successiva avrebbe passato del tempo con Todoroki in vesti diverse da
quelle di eroe o collega.
Il giorno dopo trascorse velocemente: dopo un book fotografico che le
occupò l’intera mattinata, Momo si
dedicò ad un allenamento intensivo per potenziare il suo
Quirk ed essere pronta ad intervenire in caso di crimini o incidenti.
La professione di fotomodella, tutto sommato, le piaceva e le forniva
uno stipendio piuttosto ingente che, sommandosi al patrimonio ereditato
dalla sua famiglia, le permetteva di condurre una vita decisamente
agiata, ma non per questo Momo era disposta ad abbandonare il suo sogno
di fare l’eroina: il privilegio di poter indossare un bel
vestito elegante, cenare in un ristorante di lusso ed essere
continuamente corteggiata e riverita, era totalmente insignificante se
paragonato alla soddisfazione di salvare quante più vite
possibili.
Quel giorno, comunque, Momo non ricevette nessuna chiamata urgente
– le strade della città erano insolitamente
tranquille – quindi, dopo il consueto giro di ronda serale,
si ritirò a casa, ansiosa di prepararsi in vista del suo
quasi appuntamento con Todoroki a cui, sperava, ne sarebbero seguiti
molti altri.
*Wateri: dall’inglese water (acqua), l’ho inventato di sana pianta XD
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