Mi
chiamo
Katrina
-
-
La
donna si tirò il cappuccio sulla
testa, neanche avesse dovuto fare una rapina in banca. Saltò
sul furgone e mise
in moto sorridendo: nessuno l’aveva riconosciuta in comune.
Nessuno aveva
riconosciuto il suo nome, per lo meno.
Svoltò
nella via della palestra,
anche se la palestra era stata trasformata in un piccolo parco
commerciale con
al centro una fontana, e tirò dritto fino in fondo alla via,
dove faceva angolo
il panettiere. Quello c’era ancora. Anzi, aveva comprato
anche i locali vicino
e si era ingrandito: cosa c’era quindici anni prima in quel
punto? Non lo
ricordava.
Girò
a sinistra e procedette
costeggiando il fiume: su internet aveva trovato un piccolo B&B
e ora stava
seguendo i numeri civici per trovarlo. Anche quello doveva essere
nuovo, tempo
prima non esistevano neanche.
Quando
trovò il numero giusto sotto
l’insegna del bar dove da ragazzina passava
il pomeriggio, parcheggiò e scese. Il sole era caldo, per
non essere neanche
maggio, ma lì, a Triccoli, un piccolo paesino sperduto nella
provincia
italiana, era sempre stato così.
Tirò
fuori il foglio con la
prenotazione dalla borsetta ed entrò nel bar. Per fortuna
era stato rinnovato,
ma non del tutto: i mobili erano cambiati, sì, e non
c’era più il vecchio
flipper che le aveva insegnato il baratto fra tempo e divertimento, ma
i muri
erano gli stessi e anche la famosa colonna che troneggiava in mezzo
alla sala
era ancora lì.
“Buongiorno”
disse ad alta voce,
continuando a guardarsi intorno: non c’era nessuno. Nessun
barista, nessun
cliente.
Un
ragazzo sulla trentina fece
capolino da una porta in fondo al locale. “Siamo
chiusi… Oh, ciao, Katrina!” la
salutò calorosamente, girando intorno al bancone e venendo
verso di lei. La
donna fece una smorfia e sbuffò impercettibilmente. Nessuno
la chiamava più
così, se non sua madre, ma purtroppo sui suoi documenti era
rimasto. E quello
era il nome che aveva dato per la prenotazione.
Si
avvicinò con la mano tesa e sorrise.
“Mi faccio chiamare Catia” precisò.
Lo
sguardo del ragazzo si fece più
buio e lei lo osservò: era carino, doveva avere circa la sua
età, ma era più
alto di lei, pensò, guardandogli il torace. “Che
peccato” disse lui, stringendole
la mano.
La
donna rialzò gli occhi su di lui
e corrugò la fronte. Non aveva capito la sua espressione ma
non ci badò tanto,
visto che era impegnata a osservarlo: i capelli scuri si arricciavano
sopra le
orecchie e probabilmente anche dietro il collo, mentre una leggera
barba ben
curata gli copriva la parte inferiore del viso anche se lei riusciva a
vedergli
benissimo le labbra che, come i suoi occhi marroni, le sorrisero
calorose. Per
un attimo, Catia si sentì in bilico. Molto in bilico. Come
un funambolo che
iniziava a traballare sulla corda.
“È
qui il B&B?” chiese allora,
ritirando la mano e quasi balbettando. Fece un passo indietro, pensando
di star
cadere da quella corda immaginaria. Sì, cadere, direttamente
sul pavimento e
picchiando il sedere. Doveva stare attenta.
“Sì”
rispose lui, mentre allargava
le braccia. “Sopra il bar, però”
precisò, indicando il soffitto. Catia annuì e
disse
di dover prendere in auto il bagaglio.
Dopo
aver tirato fuori la piccola
valigia e aver richiuso il furgone, tornò verso il
marciapiede dove il ragazzo
la stava aspettando. Quando aprì un portone vicino alla
vetrina del bar, Catia
vide la targa del B&B e capì di aver sbagliato
ingresso.
“Sei
qui per la festa dei fiori?”
le chiese, prendendo la sua valigia e salendo le scale. Catia fu
così stranita
da quel gesto gentile che annuì, ma poi, rendendosi conto
che lui non poteva
vederla, gli rispose ad alta voce: “Sì”.
Il ragazzo si voltò, sempre
sorridendole.
La
festa dei fiori, la stupida
festa dei fiori, come l’aveva sempre chiamata Catia,
all’epoca Katrina, era
l’unico evento che ci fosse in quel paese. A Triccoli, una
manciata di case, di
strade e di negozi, l’unica cosa interessante che
c’era era, fra la fine di
aprile e l’inizio di maggio, una settimana dedicata ai fiori.
Le vie, le
vetrine dei negozi, i lampioni e tutto ciò che era possibile
decorare, era
ornato da fiori. Fiori di carta, fiori veri, fiori di stoffa, fiori di
ogni
sostanza. La vetrina del panettiere era sempre una meraviglia. Insomma,
una
grande festa. E durava una settimana.
A
dir la verità, durava da giovedì
a martedì, come aveva precisato l’impiegata del
comune, non proprio una
settimana. Perché il
mercoledì in piazza
c’è il mercato settimanale e non si può
fare diversamente.
Ma
a Catia, quei sei giorni
bastavano, bastavano eccome. Quando era una bambina e una ragazzina,
odiava la
festa dei fiori. Tutti i suoi compagni si elettrizzavano quando
arrivava la
fine di aprile, per l’inizio della festa, mentre lei rimaneva
in disparte a
guardarli. Era in disparte perché lei, Katrina, era diversa.
I
suoi genitori venivano dalla
Romania e, anche se lei non c’era andata fino a
vent’anni, era come se vivesse
là. I suoi genitori le avevano passato le loro usanze,
giustamente, ma spesso
cozzavano con la sua vita reale. E lei non riusciva a trovare il suo
posto.
Loro sembravano di un altro mondo. Sua madre, il secondo
martedì di ogni mese,
telefonava in Romania, dove la sua famiglia era riunita a casa
dell’unico
parente che aveva il telefono e si teneva aggiornata sulle cose che
succedevano
di qua e di là dalla frontiera.
Qualche
volta aveva parlato anche
lei al telefono con zia Mihaela o zia Iolanda, ma presto si era
stancata di
stare ad ascoltare qualcuno che non aveva mai conosciuto e faceva cose
che le
sembravano così strane. Solo quando la nonna era andata ad
abitare con loro, Catia
aveva iniziato ad apprezzare un po’ quella parte della sua
natura, però lei si
sentiva Italiana a tutti gli effetti.
Si
sentiva italiana quando a scuola
avevano studiato le regioni e nel momento delle interrogazioni diceva
‘noi’ per
parlare del popolo italiano, si sentiva italiana quando il
venerdì sera
prendevano la pizza in pizzeria dal signor Fausto e, cavolo, era
italiana
perché era nata al Maggiore,
l’ospedale della cittadina vicina, dove nascevano tutti i
bambini dei dintorni.
Cantava le canzoni dei cartoni animati in italiano e allo stadio
cittadino
metteva la mano sul cuore mentre recitava l’inno.
Poi,
crescendo, aveva notato tante
piccole differenze. Piccoli dettagli che la facevano sentire esclusa,
diversa,
appunto.
Katrina aveva capito di
essere diversa dagli
altri perché era l’unica ragazzina con un nome
straniero, anche se ereditato
dalla nonna paterna, come molti dei suoi compagni, la sua pelle era
più chiara
e il suo modo di parlare diverso. Non frequentava il catechismo, anche
se il
prete conosceva il suo nome, e non aveva fatto né la prima
comunione né la
cresima con i suoi compagni. La sua Pasqua e il suo Natale erano
diversi da
quelli dei suoi amici.
Così
aveva iniziato a distaccarsi
da loro. Era la ‘figlia degli stranieri’ quando
veniva qualche conoscente da
fuori paese ed era diventata la ragazzina che a casa faceva cose
strane. Così
aveva iniziato a isolarsi. Quando aveva iniziato le scuole superiori,
che nel
suo paese non c’erano e aveva dovuto spostarsi in
città con l’autobus, aveva
capito che più una città è grande,
meno vieni notato. Era ancora la ragazzina
straniera, ma non era più l’unica.
Così,
appena finita la scuola,
aveva deciso di trasferirsi. Prima nella città vicino e,
dopo, in una città
ancora più grande. E non si era ancora pentita della sua
scelta. Stava bene dov’era.
Aveva aperto un laboratorio dove dava forma al legno che dipingeva a
mano,
realizzando piccoli capolavori che la gente iniziava ad apprezzare e a
pagare,
quando la scovava nei mercati e alle fiere, garantendole un modesto
salario.
Modesto ma soddisfacente per tutto.
Ora
che stava bene, aveva deciso di
tornare. Di tornare in quel paese e far vedere a tutti che ce
l’aveva fatta,
che lei, ‘la straniera’ aveva fatto strada lontano
dal paese e lontano da loro.
Infatti
non era più tornata fino a
quel momento. Fino al momento in cui si sarebbe presa la sua rivincita
e
avrebbe fatto vedere a tutti che c’era riuscita. Si era fatta
una vita e viveva
benissimo nonostante loro.
“Mi
fa piacere.”
La
voce del ragazzo la riportò alla
realtà: aveva aperto una porta che c’era sul
pianerottolo e si spostò per farla
passare. Quando entrò si ritrovò in un piccolo
soggiorno. Sembrava un vecchio
appartamento. Sembrava… probabilmente lo era. Lui doveva
aver dedicato quel
piccolo appartamento al B&B e cercato di guadagnarci su
qualcosa. Chissà,
forse era un ragazzo di città che si era ritrovato a
investire un po’ di soldi.
Peccato che avesse scelto quel posto.
“Grazie,
è molto bello” disse. Lui
le indicò la camera da letto e un piccolo angolo cottura a
sua disposizione.
“Comunque
io sono qui di fronte, di
qualunque cosa dovessi aver bisogno…”
Indicò la porta al di là del
pianerottolo. Catia annuì
e lo
ringraziò, ma lui non se ne andò: mise le mani in
tasca e, un po’ imbarazzato
le disse: “Ce ne hai messo a tornare,
eh…”
Catia
spalancò gli occhi: aveva
pensato che avrebbero potuto riconoscerla, ma pensava che il ragazzo
non fosse
del paese e quindi non si era preoccupata di lui. Ma lui le aveva detto
quella
frase… Chi era? Lo osservò, socchiudendo gli
occhi. “Sono Mattia”. Mattia chi?
Nessuno di quelli della sua classe si chiamava così.
Né alle elementari né alle
medie. Chi poteva essere? Uno dell’oratorio, forse? La sua
perplessità dovette
leggersi sul suo visto perché dopo fu il turno del ragazzo
di spalancare gli
occhi. “Non mi hai riconosciuto!”
Sorpresa,
Catia si morse un labbro
e scosse la testa alzando le spalle. Mica poteva essere una cosa
così grave,
no?
Lo
sguardo triste di lui, però la
fece stare malissimo. “Abbiamo giocato a nascondino nel
cortile della corte per
anni…”
“Il
figlio di Gino, il panettiere!”
esclamò Catia, sorridendo per esserselo ricordato. Il
piccolo Mattia! Beh,
piccolo… Quando il ragazzo annuì
continuò : “Scusami, non mi…”
“No,
non preoccuparti, non fa
niente” mentì e lei lo capì benissimo,
infatti non disse nient’altro. Così,
nell’aria colma di imbarazzo il ragazzo le fece un cenno
avviandosi verso la
porta. Prima di uscire però le disse: “Mi fa
piacere che sei tornata,
comunque”.
Catia
si sedette sul piccolo divano
e si prese la testa fra le mani: cosa aveva fatto? Perché
era tornata? Per fare
queste figure?
***
Il
sole aveva fatto capolino ma la
giornata non era ancora partita del tutto. Catia aveva fatto colazione
al bar
di Mattia ma aveva trovato Agnese, sua sorella. Se la ricordava come
una
bambinetta piccolina e invece era diventata una ragazza in carne con
una risata
grassa e contagiosa. E anche lei sapeva chi fosse Catia. Si
raccontarono
qualche episodio, ma la ragazza era molto più giovane di lei
e infatti non si
erano mai veramente frequentate. Ma lei era stata gentile lo stesso,
pensò
Catia salendo sul furgone e dirigendosi verso il centro cittadino.
Quando
aveva sistemato il banco,
insieme agli altri ambulanti, era passata un sacco di gente e tutti
l’avevano
guardata. Iniziava a sentire la pelle intorpidirsi dal nervoso, così
decise di non
pensarci e si occupò di sistemare le sue cose: i tulipani,
le rose e le calle a
gambo lungo da un lato, i quadretti in rilievo in mezzo, i cestini
vicino e
tutto il resto che era caricato sul furgone: aveva lavorato tantissimo
negli
ultimi mesi per allestire un banco solo di fiori e infatti li aveva
quasi
odiati. Li aveva odiati come quando da ragazzina odiava quella festa,
ma che
ora apprezzava tantissimo, quasi da amarla alla follia. Sapeva che
avrebbe
fatto un figurone con un banco così. Era la sua scusa. Il
modo per far sapere
del suo riscatto.
Il
primo giorno passò così, con
tanti curiosi che allungavano il collo e nessuno che si fermava. Un
po’ era
frustante. Sarebbe stata così tutta la settimana? E se
invece del suo riscatto
tutti avrebbero assistito al suo fallimento?
Riconobbe
qualcuno dei vecchi
compaesani, ma nessuno le si avvicinò. Ma forse
c’erano anche parecchi dei
paesi vicini, come le altre volte. In compenso, vide tantissimi
ragazzini
aggirarsi per le vie del paese.
“Il
primo giorno non si vende quasi
niente” disse una donna sulla cinquantina, con il banco
accanto al suo.
“Dice?”
“Oh,
sì, questo è il quarto anno
che vengo e capita sempre così. Il primo giorno essendo un
giovedì, la gente
lavora. Ci sono anziani e bambini, ma più che altro
curiosano. Domani inizierà
il tutto. Ci saranno anche gli spettacoli per strada.”
Catia
scambiò qualche parola con
Maria, come si presentò la donna, senza dirle che conosceva
più o meno il
programma della festa, ma lasciando che la donna le raccontasse tutto
quello
che sapeva: probabilmente aveva voglia di chiacchierare e Catia
lasciò che lo
facesse anche quando le parlò della sua vita.
L’importante era che non le
chiedesse niente di lei. Venne presto l’ora del pranzo e, in
men che non si
dica, venne anche l’ora di chiudere.
***
“Ciao
Katr… Catia, come va?”
Catia
si voltò di colpo quando
sentì la voce di Mattia e sbatté un ginocchio
contro una scatola che stava
caricando sul furgone quando si alzò per andargli incontro.
“Ciao!
Tutto bene e… tu?”
L’imbarazzo del giorno prima sembrava rimasto solo a lei,
tanto il ragazzo le
sorrideva, scambiando due parole anche con la signora Maria.
“Dove
mangi stasera?” le chiese,
dopo, di punto in bianco. Catia aprì la bocca e poi la
richiuse: era un invito?
Lei aveva pensato di mangiare un panino davanti alla televisione.
“Questa
ragazza non ha neanche
mangiato a pranzo…” disse la signora Maria a voce
alta, ammiccandole quando
Catia si girò nella sua direzione. Ma…
perché aveva detto così?
“No!
E perché? Avresti dovuto
dirmelo, ti avrei portato qualcosa!” esclamò
Mattia. Catia, sempre più
imbarazzata, alzò le spalle. “Domani te lo porto.
Quindi, dove mangi stasera?”
L’unica cosa che riuscì a fare Catia fu alzare di
nuovo le spalle.
“Non
puoi digiunare anche a cena.”
“A
dir la verità, non era mia
intenzione. È che non so ancora dove andare.
Non…” Catia si interruppe, per non
dire che non conosceva più nessun locale lì nella
zona.
“Io
conosco un posto carino. Una
cosa semplice...”
“Allora
dovreste andarci insieme!”
esclamò Maria, facendole un cenno del capo in un momento che
Mattia non
guardava.
Ma
la signora Maria non poteva
pensare ai fatti suoi? Catia sbuffò un po’, ma
dovette ammettere che l’idea non
le dispiaceva, imbarazzo a parte. Avrebbe potuto scusarsi per il giorno
prima e
dimostrargli che era ancora una persona beneducata.
Così
accettò.
***
Catia
era un po’ nervosa e non
sapeva perché: in fin dei conti non era un appuntamento, ma
era soltanto una
cena. Una cena con un vecchio amico. Amico… Che poi lei di
Mattia ricordava
poco, visto che aveva due anni meno di lei e quando si è
piccoli anche due anni
sono una vita intera. Finché si è bambini e si
gioca, ancora ancora: non c’è
un’età per giocare a nascondino o rincorrersi e il
paese non era grandissimo,
quindi si ritrovavano tutti insieme, ma poi, crescendo, si formavano i
gruppetti, il nascondino diventava stupido ed era facile non
frequentarsi più
tanto. Poi Catia aveva iniziato a non frequentare più
neanche gli altri, ma
solo i compagni in città.
Il
colpo alla porta la fece
trasalire e tornare al presente. “Pronta?” Mattia
era, come al solito,
sorridente. Indossava un paio di jeans e un maglione, con una giacca
leggera.
Catia fu contenta di aver inconsapevolmente copiato il suo
abbigliamento
informale.
Indossò
anche lei la giacchetta e
uscirono a piedi. Lui le disse che così avrebbero potuto
fare il giro nel
centro del paese a guardare le decorazioni prima di andare nel locale.
Camminarono per un po’ e, nonostante non pensasse fosse una
buona idea, Catia
gradì tantissimo la passeggiata: le decorazioni si erano
fatte molto più
competitive degli altri anni e i cittadini erano proprio in gara fra di
loro. Mattia
le indicava, man mano che li incontravano, i posti che erano cambiati o
quelli
dove era successo qualcosa quando erano piccoli. Tante cose le
tornarono in
mente, ricordando emozioni e divertimenti e si scoprì a
ridere in più di
un’occasione per qualcosa che avevano detto o fatto.
Ma
davvero la sua infanzia era
stata così divertente? Ma non era vero! Eppure…
eppure tutte quelle cose che
aveva raccontato Mattia erano successe davvero, pensò mentre
lui spiegava di
quella volta che Rocco si era rotto la caviglia saltando dalla statua
di
Garibaldi e sua madre era uscita di casa per picchiarlo con il
battipanni.
Sorrise mentre accarezzava un bouquet di rose fatte con la stoffa
appese a uno
dei lampioni della piazza.
“Eccoci
qui. L’avevo detto… un
posto semplice…” disse Mattia indicando una
piccola vetrina. Sembrava
imbarazzato anche lui, in quel momento.
“È
molto carino” disse Catia,
quando lui le tenne aperta la porta e lei entrò
nell’ingresso, voleva che non
si sentisse in imbarazzo. Non c’era niente di male.
“Hai
detto la stessa cosa ieri
quando hai visto la stanza al B&B, mi sa di presa in
giro” scherzò lui,
strizzandole un occhio. Catia rise. Di nuovo.
“Veramente
ho detto che era molto
bello. Perché è vero: non hai idea di quanti
posti indescrivibili ho visto” spiegò,
sincera.
Si
accomodarono a uno dei tavoli e
mentre si toglieva la giacca, la ragazza si guardò intorno:
era un posto nuovo,
ristrutturato.
“Così
ti sposti molto?”
“Mah,
da quando faccio i
mercatini e vago per le varie
città, cerco sempre una stanza in una pensione o in un
B&B, ma non tutti
sono come il tuo. Anzi, quasi nessuno. Di solito solo una stanza e il
bagno,
proprio nient’altro. Ma tante volte le persone sono molto
gentili e non è male
neanche se il posto non è un granché.”
Stava
per aggiungere che mai
nessuno era stato gentile come lui, quando un ragazzo della loro
età arrivò al
loro tavolo esclamando: “Faro!
Vieni
a cena e non mi dici niente?”
Mattia
si alzò e salutò con una
stretta di mano e un mezzo abbraccio il nuovo arrivato, che lo aveva
chiamato
con il suo soprannome da ragazzino, indicandola e dicendogli:
“Ti ricordi di
Katrina? È venuta per la festa dei fiori”.
Il
ragazzo si voltò verso di lei e
spalancò gli occhi allungandole la mano. “Katrina!
Come ci si può scordare di
te? Ci davi la paga a tutti a calcetto!”
disse lui, nominando il biliardino.
Oh.
Davvero? La più brava? Un altro
ricordo le venne alla mente: due ragazzini che la volevano entrambi
nella loro
squadra e stavano litigando. Uno era Riccardo, della loro classe,
mentre l’altro
aveva un anno più di loro e si chiamava…
cercò di sforzarsi per ricordarsi il
nome, forse… “Angelo!”
esclamò alla fine, al ristoratore, alzandosi e
stringendogli calorosamente la mano. Angelo!
Lui
rise. “Le donne si ricordano
sempre di me!” disse, sorridendo divertito,
all’amico.
“Abbiamo
vinto il torneo
dell’oratorio!” esclamò Catia, dandogli
una pacca sul braccio ridendo. Non si
era ricordata di quel premio finché non aveva rivisto
Angelo. Sorrise: era
stato bello. Quanti anni avevano? Nove? O forse dieci.
“Ho
ancora la coppa a casa di mia madre,
sulla mensola!” Rise. E rise anche lei.
Angelo
si sedette con loro, per
scambiare quattro chiacchiere e prese il telefono per mostrare a Catia
le foto
dei suoi figli. “E tu? Sei sposata? Che hai fatto da quando
te ne sei andata?”
le chiese.
Catia
scosse il capo sfogliando le
foto. I due bambini avevano la stessa faccia vispa del padre.
“No” disse
solamente, ma lanciò un’occhiata a Mattia che
giocò con la forchetta. Raccontò
di quello che aveva fatto e del suo lavoro, della città e
dei mercatini. Non
raccontò dell’uomo che non aveva.
“Mia
moglie è a casa perché
Stefano, il piccolo, sta mettendo i denti, ma di solito è
qui anche lei, ti
ricordi di Adele? Adele Bianchi?” Catia annuì.
“Domani te la mando in piazza,
così vi salutate. Sarà contenta di
vederti” disse ancora. Davvero? Ad Adele
avrebbe fatto piacere? Si ricordava di Adele come di una bambina
rotondetta
dalla battuta pronta. Due anni meno di lei, forse. O forse di
più: non
ricordava benissimo.
“Scusate,
ora vado. Ci vediamo
domani, noi passiamo dalla via vecchia all’ora del
giocoliere, a mio figlio
piace sempre tantissimo.”
Salutò
e li lasciò soli, sparendo
in fondo alla sala. “Così non sei
sposata…” disse Mattia. Il suo sorriso si
sarebbe visto anche dalla luna. Catia non riuscì a non
esserne contenta.
“No.
E te? Nessuno all’orizzonte?”
gli chiese allora lei. Il ragazzo si dichiarò single.
Passarono le due ore più
veloci nel corso della vita di Catia: aveva raccontato quello che aveva
fatto e
avevano riso insieme quando aveva descritto aneddoti particolarmente
divertenti
che le erano capitati nei primi posti di lavoro dove era stata assunta.
Mattia,
da canto suo, le raccontò
di un diploma al liceo e di una laurea in economia. Di come in
pochissimo era
diventato un broker finanziario apprezzato ma di come quella vita lo
aveva
rovinato. Aveva rotto i ponti con la famiglia e si era dato alla bella
vita, ma
Catia notò che non lo disse chiaramente, ci aveva solo
girato intorno. Alla
fine, lo stress lo aveva quasi ucciso e aveva perso i contatti con la
realtà,
oltre a quelli con la famiglia. Raccontò di come fossero
morti improvvisamente
i suoi genitori e di come questa notizia lo avesse convinto a cambiare
modo di
vivere: così era tornato lì, aveva consolato sua
sorella e aveva ripreso il
controllo sulla sua vita. Ora viveva lì, aveva rilevato il
bar, sistemato gli
appartamenti al primo piano e conosceva gente nuova a ogni Festa dei
Fiori,
perché ora il paese aveva iniziato a pubblicizzarsi, la
festa era molto
conosciuta e le stanze si affittavano velocemente.
Quello
che invece non disse, Catia
lo notò benissimo, fu che rimpiangeva di non aver fatto pace
con i suoi
genitori. E lei immaginò anche quanto lo facesse soffrire
quando, parlando
della panetteria del padre, disse che non riusciva ancora a entrare in
un
panificio senza aspettarsi di trovare suo padre a impastare il pane
cantando.
“Mi
spiace. Deve essere stato
brutto perderli così” gli disse, come se potesse
consolarlo. Mattia annuì e lei
gli strinse la mano che aveva sul tavolo.
“I
tuoi? Si diceva che fossero
tornati in Romania…”
Quando
il ragazzo cambiò argomento
capì che non ne voleva più parlare e gli
raccontò che i suoi genitori erano
tornati in Romania, sì, ma poi si erano trasferiti in
Francia da altri parenti.
La
loro serata venne chiusa da un
Angelo molto stanco anche se ancora chiacchierone, che li
abbracciò
calorosamente e disse loro che si sarebbero visti il giorno dopo. I due
ragazzi
si rincamminarono verso il B&B.
“Grazie,
è stata una bellissima
serata” lo salutò lei davanti alla porta della sua
stanza. Il ragazzo annuì per
confermare la cosa.
“Domani
ti porto il pranzo in
piazza”. Catia rise: quel ragazzo non si fermava mai?
“Ma
non devi lavorare al bar?”
“Al
bar c’è mia sorella, io aiuto
ogni tanto. Il mio lavoro inizia…”
Guardò l’orologio “Fra poco”.
Come, come,
come? Mattia rise ancora al suo sguardo stranito. “Non ho
proprio abbandonato
la vita di prima. Mi sono tenuto qualcosa di buono. Non ho lo stesso
ritmo, ma
ho ancora qualche contatto grosso e me la cavo abbastanza
bene…” Catia spalancò
gli occhi, sorpresa e ammirata.
“Allora
buon lavoro.”
Aprì
la porta e lui le fece un
cenno con il capo.
***
Il
sabato pomeriggio la piazza era
piena di gente. Gente dei paesi vicini, gente del paese che abitava
lontano ma
che tornava per la festa dei fiori, prendendo
l’occasione per far visita ai
parenti, gente che arrivava incuriosita da quella strana festa per
ammirare gli
addobbi lungo le strade, applaudire agli artisti di strada, mangiare
quello che
ora si chiamava street food e rilassarsi. Tantissima gente. Ed era
vero: tutti
si rilassavano ed erano contenti, si abbracciavano, si salutavano,
presentavano
nuovi compagni e mostravano orgogliosi i loro figli.
Catia
aveva venduto più di quello
che si era aspettata e aveva ricevuto la visita di quasi tutti i suoi
conoscenti di quindici anni prima: gli insegnanti di scuola materna ed
elementare, la vecchia proprietaria dell’alimentari che le
aveva venduto la
merenda per più di un decennio, la parrucchiera che aveva
lasciato il negozio
alla figlia e anche tanti ragazzi della sua età.
Il
benvenuto era stato caloroso, da
parte di tutti. Ognuno le aveva chiesto qualcosa: della sua famiglia,
della
nonna, dei suoi studi, del suo lavoro. Ed erano rimasti a chiacchierare
e ad
ascoltare le sue risposte. Era una cosa che, vivendo in
città, Catia aveva
perso. Nelle grandi città la gente va di fretta e si accorge
a malapena di te.
Si sentì scaldare il cuore: le era mancato, ma non lo sapeva.
Ma
perché se n’era andata? Già
perché? Pensò osservando un acrobata sui trampoli
e un clown su un monociclo
che lanciava petali di fiori.
Una
ragazza si fermò a guardare un
giglio e lo accarezzò con le dita, senza prenderlo in mano.
“È un giglio” le disse,
avvicinandosi.
“È
molto bello”. La ragazza sorrise
e Catia notò quanto fosse giovane: doveva avere tredici
anni, forse
quattordici. “Mi piace come hai sfumato il colore
qui” disse ancora, indicando
un punto preciso. Effettivamente piaceva molto anche a lei, il giglio
era
venuto molto bene e le piaceva che qualcuno potesse notare una
dettaglio così
piccolo. Le sfumature del bianco non le vedeva mai nessuno!
“Clea!
Vieni a vedere questo
vestito!” La voce di un’amica fece girare la
ragazza che rispose subito e fece
per andarsene.
“Aspetta!”
la richiamò la donna.
Quando la ragazza si girò, le chiese, quasi senza rendersene
conto: “Ti chiami
Clea?”
Clea
inclinò la testa e rispose:
“Sì, perché?”
“Ti
chiami come mia nonna…”
balbettò Catia. La ragazza tornò indietro e le
chiese: “Sei… Katrina?” Lei
annuì confusa. “Mamma!” gridò
ad alta voce verso la strada.
Quando
una donna sulla trentina si
avvicinò, si voltò verso di lei e il sorriso si
aprì sul suo volto. “Katrina!
Lo aveva detto Adele che eri tornata! Come stai?” Loredana
Dinnisi girò intorno
al banco di lavoro e abbracciò calorosamente Catia.
“Che bella sorpresa!”
Loredana,
più piccola di Catia di
qualche anno era ‘famosa’ in paese per aver avuto
una bambina a diciotto anni e
aver dovuto mollare la scuola. Passando lo sguardo fra lei e la figlia,
Catia
riconobbe molti tratti della madre nell’adolescente, prima
che scappasse via.
“Io sto bene, sono qui a vendere fiori”
scherzò. “E qui? Ho sentito un sacco di
cose…”
La
donna si fermò a parlare con lei
per tantissimo tempo, più di quello che si riserva a delle
conoscenti e loro
non è che fossero poi molto amiche già
all’epoca, così Catia non riuscì
più a
resistere e le chiese a bruciapelo: “Perché tua
figlia mi conosce?”
Loredana
sorrise e sospirò. “E non
vuoi sapere perché ha il nome di tua nonna?”
“Sì,
mi piacerebbe sapere anche
questo, effettivamente…” disse.
“Quando
rimasi incinta, il paese
iniziò a guardarmi. A guardarmi male. Io…
sì, lo sapevo e immaginavo sarebbe
successo. Iniziai a uscire meno e ad abbassare lo sguardo quando
incontravo
qualcuno… mi vergognavo. Le mie amiche non potevano uscire
con me perché i loro
genitori non mi vedevano di buon occhio e rimasi
sola…” Sospirò e prese fiato.
“Tua nonna… tua nonna mi fermò un
giorno che avevo cambiato marciapiede quando
il vecchio farmacista aveva borbottato vedendomi. Lei… lei
è stata gentile e
nessuno lo era con me, non veramente, come se portassi una colpa molto
più
pesante di quella di essere rimasta incinta. Tua nonna fu
l’unica a dirmi che
non avrei dovuto farlo, che non avrei dovuto vergognarmi. Che mio
figlio si
meritava una madre che camminava a testa alta e non si sentisse in
colpa. Quando
scoppiai a piangere mi abbracciò e mi disse che avrei dovuto
essere la persona
che volessi crescesse mio figlio. Da quel momento io non mi sono
più vergognata
e me ne sono infischiata di tutti. Ho voluto darle il suo nome
perché mi ha
salvato e quindi, ha salvato lei. Clea, la
mia Clea, la sa questa storia, gliela racconto quando
qualcosa va male o ha
bisogno di sostegno.”
Catia
rimase a bocca aperta e
sorrise, sentendo gli occhi umidi. Anche lei aveva amato tantissimo la
nonna,
dopo averla odiata. L’aveva odiata perché era il
collegamento con quella vita
diversa dagli altri e lei, Catia, non aveva capito quanto fosse
importante.
Quanto fosse importante essere diversi per poter essere veramente se
stessi.
Italiani o Rumeni o qualsiasi cosa si volesse essere,
l’importante era stare
bene con se stessi.
“Tua
figlia è molto intelligente ed
è attenta ai dettagli: sarà una bella persona.
Sono contenta porti il suo nome”
disse, sincera. Ed era contentissima che il nome di sua nonna materna
camminasse sulla terra per un motivo così nobile. Come lei
portava quello della
madre di suo padre. Ma che stava nascondendo. Per vergogna.
Per… per cosa? Non
lo sapeva più.
Avrebbe
voluto parlare ancora con
la nonna, o forse avrebbe dovuto parlarle quando aveva incominciato a
sentirsi
‘diversa’…
“Grazie
di avermelo raccontato”
disse alla fine, quando si salutarono.
***
Il
weekend era stato molto
produttivo, Catia era molto soddisfatta quel lunedì. Quasi
le dispiaceva dover
partire il giorno dopo.
“Domani
sera ci sarà una cena con
gli altri. I ragazzi dell’oratorio, della piazza, della
scuola. Lo facciamo
tutti gli anni. Vieni anche tu? Al locale di Angelo.”
Mattia
arrivò con un fiore e questa
proposta. Lei lo guardò: in pochi giorni si stava facendo
più audace e a Catia
non dispiaceva per niente.
“Ma
gli altri vogliono?” chiese,
ancora per il solito dubbio di sentirsi esclusa. Lui dovette capirlo
perché le
chiese: “Ma pensi che abbiano fatto finta ad accoglierti
così? Tu sei stata una
loro amica e loro ti ricordano così, qual è il
problema adesso?”
Catia
non seppe rispondere e alzò
le spalle. Era vero. Perché non andarci? “Ok,
verrò”.
Mattia
allungò una mano e le prese
la sua. “E ti andrebbe di andarci insieme?”
La
donna annuì. “Perché no?”
***
“E
quella volta che Diego ha
sbattuto contro il muro il tizio del circo? Ve lo ricordate? Il
ragazzino circense
che è venuto in terza elementare? Che odioso! Alla fine al
povero Diego gli è
toccato dargli una lezione…”
Filippo
stava raccontando fra una
fetta di pizza e un sorso di birra e tutti risero, perché
effettivamente era
stato divertente vedere quel ragazzino arrogante e presuntuoso venir
appeso al
muro dal loro compagno.
“E
quella volta che Katrina ha
risposto in rumeno alla supplente e lei pensava fosse una maledizione?
Era così
terrorizzata! Avevamo tutti la sufficienza alla fine
dell’anno!” Roberta
ridacchiò e arricciò il naso in direzione di
Catia. Poi scosse la testa.
“Scusa! Mi ero scordata: Catia…”
Ma
Catia si era sentita chiamare
così tante volte Katrina che ormai era tornata una
ragazzina. Scosse la testa e
sventolò una mano dicendole di non preoccuparsi.
Era
contenta di essere andata alla
cena. Aver rivisto veramente tutti, soprattutto le amiche
più care della sua
infanzia, di cui si era scordata il suono della risata e di cui
iniziava a
vedere i capelli bianchi. E gli altri, i ragazzi…
Perché aveva aspettato così
tanto? Non erano in tanti a essere rimasti in paese a vivere, ma erano
in tanti
a tornare per la festa dei fiori, aveva scoperto.
A
fine cena, si salutarono tutti
calorosamente, scambiandosi numeri e contatti. “E torna anche
l’anno prossimo,
non fare che sparisci ancora!” Roberta l’aveva
stretta e l’aveva baciata
affettuosamente sulle guance. “Mi ha fatto così
piacere vederti… se passi dalle
mie parti, chiamami che ci facciamo quattro chiacchiere.”
Catia
quella sera promise a tutti
di non nascondersi più, soprattutto a se stessa.
“Non
avrei mai pensato che potesse
essere così bello…” disse a Mattia
mentre tornavano a casa da soli.
Lui
annuì e le prese la mano. “La
festa dei fiori fa miracoli”. Camminarono in silenzio per
tutto il tragitto,
accompagnati solo dalla luce della luna.
Quando
arrivarono davanti alle
rispettive porte, si resero conto in due che sarebbe stata
l’ultima sera,
l’ultima occasione.
“Catia…”
disse lui, tirandole la
mano. Lei si avvicinò e gli posò le dita sul
petto.
“Mi
chiamo Katrina, veramente…”
Mattia sorrise e le circondò la vita.
Le
loro labbra si sfiorarono e
Katrina non pensò più a scappare da quel paese.
Non ora che aveva iniziato ad
amare la Festa dei Fiori.
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Eccomi
qui con un altro contest! Spero che la storia di Katrina vi sia
piaciuta, nella sua banalità 😅 e vi lascio la traccia .
Se
vi va di farmi sapere cosa ne pensate... un bacio a tutti!!!
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