La
morte è una cosa terribile,
così dicono.
La
morte porta via dal mondo,
così dicono.
Ma
la morte si sa, deve giungere
prima o poi.
Il
problema è se non arriva;
perché
tutti lo sanno
che un
morto non può morire
ancora.
Izaeh
.:La
morte non porta alla morte:.
Urla,
grida, rumori assordanti e frenetici, in quella notte d’inferno.
Tutto
il villaggio prese le fiaccole e come impazzito si precipitò giù per la
piazza.
La
Luna l’illuminava appena; le nuvole le oscuravano la vista e gli alberi
davano
il loro contributo, aiutati dal vento che soffiava forte.
Quello
che stava per accadere era una vera barbarie, un gesto cattivo e
sicuramente
disumano: stavano per dare al rogo una compaesana.
Due
uomini la tenevano stretta per non fuggire a quella povera fanciulla,
pur
consapevoli che non sarebbe comunque
fuggita.
Quella
ragazza, dai lunghi e mossi capelli biondo platino, dalla pelle pallida
come la
porcellana, loro non avevano ancora capito, che
era già morta.
La
tenevano talmente stretta che avrebbero potuto spezzarla, ma lei non
portava
espressione di dolore nel volto. Quel suo volto ibrido senza anima,
dava luce
solo ai suoi grandi occhi a specchio.
Così
li chiamavano i suoi occhi chiari, che non portavano pupille, che non
emettevano luce, che riflettevano solo ciò che le stava davanti.
Izaeh, si chiamava.
Era
una piaga, così dicevano.
Portava
sfortuna, così dicevano.
I
raccolti non fruttavano a causa sua, così dicevano.
La
gente si ammalava a causa sua, così dicevano.
Era
una strega,
così dicevano.
Izaeh
però non aveva mai fatto niente per farli credere ciò, e forse, proprio
questo
li aveva condotti a convincersene.
Izaeh
non mangiava, non dormiva, non usciva dalla sua casa, non parlava, non
si
muoveva, non cresceva.
Izaeh
era stata bambina quando lo erano stati gli anziani del villaggio.
Quando
questi divennero adolescenti, Izaeh si
fermò.
Era
una strega,
così dicevano.
Cominciarono
a credere che fu lei la causa dei mali al villaggio, che essendo una
strega
faceva loro il malocchio e, Izaeh, che mai dava segno di essere umana,
poteva
solo sempre più farglielo credere.
La
volevano uccidere.
Quale
cosa migliore delle fiamme purificatorie per uccidere una strega?
Solo
non riuscivano a capire che lei non era
una strega, che era un’umana ormai
morta, morta da tanto tempo.
Un
morto ancora non morto.
Ecco
cosa era Izaeh.
Perché
si sa, un morto non può morire ancora.
«Bruciamola!!».
Gridavano
dando sfogo al loro rancore, mentre più si avvicinavano ai legni posti
al
centro della piazza.
Non
si accorsero, dal tanto baccano, dei piedi che lenti si avvicinavano.
Estrasse
una freccia, una delle tante nella sua schiena, e preparò l’arco.
La
vedeva bene, lei, che impassibile
era
ancora tenuta troppo stretta alle sue delicate braccia.
La
mira non gli serviva, era facile adesso che erano fermi per preparare
il fuoco.
Ed
ecco che la freccia scoccò, veloce e silenziosa, passando inosservata
in mezzo
agli abitanti in fermento.
E
la colpì.
La
freccia si conficcò nel suo addome, attraversando il vecchio vestito
sudicio e
malridotto che da tanto, troppo,
tempo indossava.
I
due uomini che la stringevano mollarono subito la presa, spaventati dal
liquido
cremisi che cominciò ad uscire dal corpo
della strega, che indifferente, non si era neppure accorta
della freccia.
Non
portava dolore, lei. Lei che il suo corpo aveva ormai abbandonato, per non soffrire più.
«Tsk!». Si avvicinò quell’uomo con il suo
arco in mano,
pronto ad afferrare un’altra freccia. «Allora è
vero che sei una di loro!», disse rauco. «Vediamo
come si uccide uno che è già morto!».
Gli
abitanti del villaggio presero a correre agitati, da una parte
all’altra come
formichine. Scappavano.
Avevano
visto con i loro occhi l’immortalità della
strega, e avevano troppa paura per sfidarla, adesso.
Ormai
è però tutto passato, ora, e gli abitanti ricominciarono a vivere
sereni,
giorno dopo giorno. Trascorsero anni da quella notte.
Quella
notte in cui Izaeh era scomparsa, e il suo cacciatore però, era rimasto.
Lo
trovarono morto all’alba i primi paesani.
O
almeno pensarono si trattasse di lui; lo si poteva solo supporre in
realtà.
Quello che ne restò non erano altro che pezzi
irriconoscibili di carne umana.
Erano
felici che se ne fosse andata. Aveva fatto troppo del male da quando
era strega, e aveva perfino, non
ucciso – ma
fatto a pezzi – un uomo.
Erano
convinti della sua colpevolezza quegli stolti e incivili: la chiamavano
strega, affibbiavano a lei i mali
nel
villaggio, e deciso loro, che quel morto massacrato d’un cacciatore,
era opera
sua.
Sua!
Sua che non si muoveva?
No, non era opera sua.
«Che bel
profumo che hai! Sei sempre più profumata e bella!».
La
sua voce era chiara e intonata come
quella di una musa. Era una melodia ad ogni sillaba. Ma lei non era un musa.
Non
si avvicinava per niente ad una creatura armoniosa come ingannava la
sua voce.
Le
passava la spugna nella schiena nuda. I lunghi capelli glieli aveva
disposti in
avanti, per non darle fastidio.
«Sei
contenta? Questo bagno ci voleva proprio!».
Ma
Izaeh non rispose, non poteva, non c’era.
«Oggi sei
ancora più profumata e bella! Più di tutti gli altri giorni! Sempre di
più,
sempre di più…».
Avvicinò
il suo volto, fine, molto più bianco di Izaeh; con i suoi occhi gialli
splendenti, le guance appena rossastre, le labbra rosse e carnose, i
canini che
brillavano alla pallida luce.
La
sua bocca si aprì e le baciò il collo.
«… Sempre
più buona…!».
Spalancò
la bocca e la morse.
Aprì
gli occhi e gli richiuse, godendo appieno del nettare rosso di cui si
nutriva
avara.
Lunghe
gocce di sangue calavano dal corpo inerme di Izaeh, che presto si
unirono
all’acqua nel pavimento, scendendo lungo lo scarico.
«Irvin, da
questa parte!».
Una
ragazza s’inoltrava nella scura foresta in quella giornata dal sole
troppo opaco,
come spesso accadeva da quelle parti.
Non
erano luoghi dove il sole splendeva radioso: le giornate erano sempre
buie e
appannate, non per niente i morti
da
quelle parti del territorio erano sempre più numerosi. Dicevano che era
un po’
colpa loro se il sole non risplendeva laggiù, colpa di quelle terribili
creature, ma in fondo la colpa era di chi ce li lasciava, i parenti,
che vedendoli
in quello stato decidono di abbandonarli.
Ma
d’altronde era quasi impossibile che un famigliare stabilisca di tenere
con sé
uno di loro.
Comportava
molti sacrifici “stare dietro” ad un
morto.
Un
giorno sono delle persone normalissime e quello successivo sono morti, creature che stanno in piedi,
ma come delle semplici
bambole: la loro anima si è chiusa nelle catene del loro subconscio e
il loro
corpo è rimasto vuoto. Non si
nutrono, non vivono, e non muoiono.
Hanno
smesso di crescere, il loro tempo si è
fermato.
Sono
impossibili da uccidere, e quando questi si risvegliano, impazziscono.
Pazzi,
che uccidono e devastano tutto ciò che incontrano come delle belve
senza cuore,
perché lo diventano, delle belve senza cuore: la loro anima è morta in
quelle
catene in cui si è imprigionata.
Che
si è imprigionata da sola, sì, perché morti lo diventano se decidono di non
soffrire più, se decidono di abbandonarsi, perché la vita ha preteso da
loro
troppe cose.
E
sempre più crescevano i cacciatori,
che avevano il compito di salvaguardare la popolazione dalle creature
oscure
nel mondo, compresi i morti. Perché
lo avevano trovato loro il modo di ucciderli, prima del loro risveglio,
prima
di diventare pericolosi per l’umanità.
«Irvin,
dai! Mi è sembrato di vedere un’entrata da quella parte!».
Fece
la mano e un ragazzo a pochi passi da lei la raggiunse.
«Sei sicura
che sia il covo di un vampiro?», chiese il ragazzo,
con una strana luce negli occhi.
La
giovane al suo fianco lo sorrise, annuendo. «Non mi
sbaglio!», aggiunse.
Era
una giovane ragazza, sui vent’anni d’età. Dai lunghi e lisci capelli
fino alle
spalle, violacei, come quelli del ragazzo che le stava al fianco. I
suoi occhi celesti,
bellissimi, quanto il cielo sereno che lì era raro riuscire a vedere.
Lui,
invece, alto e robusto, dagli occhi di un blu profondo, come la notte
stellata.
Loro
due, fratelli, cacciatori fin da tenera età, per volere dei loro
genitori, che
entrambi facevano il mestiere.
«Va bene.», disse il ragazzo. «Andiamo!». Scese dalla rupe lentamente,
seguito dalla sorella.
In
basso vedevano un mucchio di alberi e
fiori, chiusi per un nascondiglio; chiusi appena, come a
voler
intimidire lanciando una sfida, allo stolto che ne sarebbe entrato.
Si
fermarono a pochi passi e il giovane si volse alla compagna.
«Non
sappiamo quanti siano né dove siano, per cui la prudenza è il primo
passo da
rispettare. Stammi sempre vicina e non fare sciocchezze… chiaro?».
«Uff!», sbuffò, alzando gli occhi al
cielo. «Me lo dici ogni volta, Irvin! Non
sono più una bambina
da un sacco di tempo! Cominci a diventare pedante, lo sai?».
«Sei la mia
sorellina, è normale che mi preoccupi per te.»,
si difese.
«Sì, ma
alle lunghe diventi insopportabile!».
Roteò
gli occhi, sorpassandolo di qualche passo per entrare nel buco scuro in
mezzo
agli alberi.
Allargò
gli occhi quando vide quel lungo corridoio buio davanti a lei.
Adesso
ne potevano essere certi, sì, quel territorio era il covo si un essere
sovrannaturale. E poteva essere un vampiro, perché queste creature che
all’inizio dei tempi non erano in grado di usare la magia ora non solo
ne erano
capaci, alcuni, ma riuscivano a creare luoghi anche solo immaginandoli
con la
forza della mente. Si erano evoluti loro, con il passare dei secoli,
non come
gli umani, che erano al massimo riusciti a creare un’arma per
distruggerli.
Iniziarono
a percorrerlo.
«Stammi
vicina.».
«Me l’hai
già detto!».
Il
corridoio finì e una gran luce gli involse.
Davanti
ai loro volti sbalorditi si affacciava un grande salone dalle
mattonelle
bianche e nere, dall’intoccabile soffitto fatto di vetro dove filtrava
una luce
intensissima, e degli alberi che padroneggiavano su tutto con i loro
bellissimi
fiori e colori.
Era
sicuramente un’illusione, pensarono poco dopo.
Questo
posto non poteva esistere nel cuore quella foresta, la luce del sole
non poteva
esserci perché il sole non risplendeva laggiù e i vampiri – se di loro
era il
covo – non sopportavano la forte luce di questo, e gli alberi freschi e
vivi,
che sbucavano dalle mattonelle intatte con le loro possenti radici, era
impossibile che ci fossero.
Era
uno spettacolo molto bello però, di questo potevano esserne certi. I
vampiri
proprietari del covo avevano buon gusto.
«Chi siete?
Come osate entrate in casa mia?».
La
voce melodiosa echeggiava per tutta la grande sala.
La
ragazza sorrise, osservata dal fratello.
«Avevo
ragione, vedi? Io non mi sbaglio mai!», disse.
«Non
sappiamo ancora se si tratti di un vampiro, né quanti siano.», fece lui, storcendo un po’ il
naso.
«Ma perché
ti secca tanto darmi ragione una buona volta?».
Veloce
corse in avanti, per le lunghe scale accanto agli alberi, che portavano
al
piano superiore.
Il
fratello la rincorse subito, seccato che fosse partita per prima ancora
una
volta. Afferrò una pistola dal suo cinturino, caricandola a mano.
Lo
stesso fece la sorella, brandendola da sotto la sua giacchetta nera.
Salì
di corsa le scale e si fermò, puntando la sua pistola davanti al tronco
di un albero.
Non
vi era niente in quel punto, finché un’immagine sfuocata emerse da una
piccola
nube di fumo e presto si formò una ragazza snella e affascinante.
Dai
corti e lisci capelli neri, tenuti indietro da una coroncina rossa ed
un
vistoso fiocchetto del medesimo colore.
Portava
indosso una camicetta bianca, con il cravattino rosso. Una gonnella
paffuta e
grande, nera.
Lunghe
calze bianche fino alle ginocchia, che finivano con dei pizzi, e delle
scarpette nere luccicanti ai piedi.
I
suoi gialli occhi sembravano sereni, mentre l’osservava per nulla
intimorita.
Veloce
arrivò anche Irvin, che le puntò anch’esso contro la pistola.
«Oh, ma
siamo più svegli di quel che credevo!», dissero
le sue labbra rosse e carnose in una dolce nota. «Siete
gli ennesimi cacciatori che trovo sulla mia strada, nella mia
lunghissima vita!».
«Sei un
vampiro, giusto?», sorrise.
«Sì!», annuì, facendole un dolce
inchino. «Mi chiamo Saya!».
«Ahah!», rise, continuando a tenerla
d’occhio. «Chi aveva ragione?».
«Tu!», sbuffò il ragazzo. «Poi
sono io il pedante.». I suoi occhi però rotearono
subito verso la sua
sinistra, dietro ad una rossa tenda. Presto ci puntò la pistola, pronto
a
tutto.
Gli
occhi gialli della vampira si voltarono e il suo sorriso si spense,
diventando
più seria.
Irvin
afferrò la tenda e veloce la tirò giù, per vedere chi realmente si
nascondeva
dietro di essa.
Ed
eccola, rigida come una statua di bronzo, con mezzo passo appena
marcato; dietro
di lei una porta aperta, dove un poco di vapore usciva lento.
«Un’altra!», subito
disse, accentuando il suo disapprovo. Ma nella sua testa si corresse
subito,
perché pensandoci bene quella non
poteva essere un vampiro. Un morto.
Sembrava
una graziosa bambolina, vestita con un lungo abito grigio di pizzi e
merletti;
compresa la fascetta che le teneva dietro i bei lunghi capelli
profumati. Era
in ottimo stato, se non fosse per i segni visibili e freschi dei morsi
sul suo
collo.
«Quella è
una mia amica!», affermò la vampira, sorridendo
nuovamente. «L’ho adottata molti anni fa!
Sapete, era tutta sola e
la volevano uccidere…», s’imbronciò. «Così
adesso me ne occupo io!», tornò a splendere il suo sorriso
dai denti acuminati
e bianchi.
«Certo…», sorrise il ragazzo. «E’
ovvio. Con una come lei hai cibo per anni, per secoli, finché non si
risveglia.
Bella comodità.».
La
vampira alzò le spalle, innocentemente.
«In quanti
siete?», chiese la ragazza alla vampira,
facendosi più seria
e puntandole meglio la pistola, disgustata.
«Ci siamo
solo io ed Izaeh in casa!», fece dispiaciuta, abbassando gli
occhi gialli
contornati di un nero potente. «Vivevo sola prima del
suo arrivo…».
«Dobbiamo
crederle?», chiese al fratello.
«Se ce ne
sono altri sbucheranno molto presto.». Il tono della
sua voce era piuttosto chiaro: voleva fare la finita.
«Oh, non vorrete
già ucciderci, spero!», abbassò lo sguardo ancora una
volta. «Ho appena finito di fare il bagno
ad Izaeh e adesso
devo metterla al letto!».
«Era il
vostro ultimo bagno.», fece serio Irvin. «Non
porterai più al letto nessuno.».
Stava
per sparare, glielo si leggeva negli occhi. Affondava sempre più il
dito nel
grilletto.
«Ma non
puoi farlo, non puoi ucciderci! Stavo tentando di risvegliare Izaeh!».
A
queste parole, gli occhi celesti della ragazza davanti a lei si
sgranarono.
«Ci stavo
quasi per riuscire, adesso cammina un po’! Prima non muoveva nemmeno
una gamba
se non la spingevo io!».
Irvin
puntò gli occhi nel mezzo passo abbozzato di Izaeh e capì. Era uscita
da sola
da quella stanza dalla porta aperta.
«I morti
sono pericolosi.», disse, puntandole la pistola alla
tempia. «Se si risvegliano diventano bestie
omicide.».
«No, se
riesci a svegliarli prima che si sveglino da soli! Ho fatto delle
ricerche in proposito,
sai?», continuava la vampira.
La
pistola che aveva puntata contro stava lentamente scendendo. La giovane
stava
sempre più abbassando la guardia, mentre pensava, con i suoi occhi
sempre più
spalancati.
«Tutte
sciocchezze.», disse freddo.
«No, è tutto
vero invece…», esclamò voltando gli occhi gialli
alla ragazza
davanti a sé.
Sorrise.
«Tutto
vero!».
I
suoi occhi si fecero delle piccole fessure gialle e veloce scattò verso
la
giovane cacciatrice.
Uno
sparo.
Il
corpo del vampiro cadde a terra accanto al tronco di sua invenzione, in
uno
schizzo di sangue più nero che rosso, con il cranio forato in mezzo
agli occhi.
Irvin
abbassò la pistola e il fumo uscito da questa scomparve pian piano.
«Mai
abbassare la guardia.», disse. «La lezione vale per entrambe,
sorellina!».
Questa
si voltò a lui, leggermente scioccata, sospirando. «Perdonami… Non mi ero accorta del
pericolo!».
Il
ragazzo alzò la pistola e fece cadere da questa altri due proiettili.
Sorrise
leggermente beffardo.
«Non sapeva
che avevo pronti proiettili per vampiro
dentro alla pistola, e non per morto.».
Mise
i due proiettili per vampiro ancora buoni dentro ad una taschina nel
suo gilet
nero, e da un’altra ne tirò fuori uno diverso, con la punta a due
piccole lame,
che caricò alla pistola.
La
puntò contro Izaeh, determinato.
«E anche
qui si conclude.».
«Noo!», si mise in mezzo la ragazza dai
capelli violetti, a
braccia spalancate.
«Che cosa
diamine stai facendo?», sbottò seccato.
«Non
ucciderla, Irvin!», supplicò. «Fratellone,
ti prego! Si può svegliare… Ha camminato, l’hai visto anche tu?!».
I
suoi celesti occhi brillavano di una luce che Irvin aveva già visto
altre
volte. Era la luce della speranza, la speranza che non avrebbe dovuto
esserci neanche questa volta.
«Togliti.». Serio, pacato, diretto, quasi
impassibile alle sue
moine.
«No!!», quasi gridò, fin troppo decisa. «Non te la farò uccidere, me lo devi
concedere!
Guardala meglio, Irvin! Lei è stata trattata da questa vampira come un
cibo inesauribile,
ma qualcosa di buono lo stava facendo per lei… Stava tentando di
risvegliarla…», la speranza nei suoi occhi era
sempre più luminosa,
mentre le sue guance si coloravano di rosa. «E’ come
diceva la mamma, Irvin… Si possono risvegliare!».
«Questa
vampira non sapeva a cosa andava incontro tentando di risvegliarla. Non
esiste.
Quando si risvegliano impazziscono, non tornano come prima. Credevo di
aver già
superato questo discorso con te!».
«Ma non è
così! Non è così! La vampira aveva ragione… come la mamma…».
Ecco,
i suoi occhi stavano adagio lacrimando, lucidi, mentre diede uno
sguardo veloce
al corpo della vampira che si stava lentamente sgretolando.
«La mamma
non aveva ragione, e lo sappiamo entrambi.», replicò.
Non
voleva fare di nuovo luce su quest’argomento, ma lo stava forzando a
farlo. Non
voleva nemmeno lui ricordare…
«Abbiamo
ucciso tantissimi altri morti, cos’ha questa di speciale?».
«Che tornerà
normale! Ne sono certa!», abbozzò un sorriso speranzoso. «La vampira ci stava riuscendo ed io
continuerò
l’opera… Realizzerò il desiderio della mamma…! Irvin… ti prego!».
Abbassò
l’arma.
Ormai
era inutile. Sua sorella aveva vinto anche questa volta.
«Grazie,
Irvin!!», gli saltò addosso, abbracciandolo
forte. «Sei il miglior fratello del mondo!».
Ma
il ragazzo alzò gli occhi al cielo, sbuffando. «No…
ti voglio solo dare del tempo per farti capire chi aveva ragione.».
Bhè,
che avesse ragione lui o lei questo
non lo si poteva ancora capire…
Passarono
giorni e giorni da quando Irvin e sua sorella presero in custodia la
morta
Izaeh abitando nello strano luogo creato dal vampiro Saya.
Questo
non si dissolse dopo la sua morte, e poteva solo condurli a capire che
doveva
trattarsi di un vampiro molto forte e vissuto tanto allungo, perché
quelli
giovani non avevano tutto questo potere.
Era
un luogo incantato, creato come un vero paradiso.
Gli
alberi all’interno della dimora fiorivano continuamente, perdendo
spesso i loro
petali, colorando di rosa il pavimento bianco e nero.
Era
sempre primavera laggiù, forse la stagione preferita della vampira.
«Io mi
chiamo Laween! E così tu sei Izaeh, vero?».
Le
parlava, sempre.
Era
il primo passo per stabilire un contatto con un morto: parlargli.
Doveva
parlarle continuamente, su tutto, su qualsiasi cosa.
Doveva
interagire con lei, farle capire di essere ancora presente in questo
mondo, che
lei c’era e che gli altri la vedevano.
Sua
mamma glielo ripeteva sempre: “il morto è
colui che si è chiuso nelle catene del suo subconscio. Per farlo
tornare
bisogna spezzare quelle catene facendogli capire che non se n’è andato
ed è tra
noi.”
Forse
la vampira parlava spesso con Izaeh, perché in un qual modo Laween si
accorgeva
di come la morta fosse abituata alle chiacchiere. Sembrava che
ascoltasse,
anche se forse non era proprio così. D’altronde i suoi meravigliosi
occhi a
specchio non battevano ciglio e non poteva capire realmente se
l’ascoltasse o
meno.
«Sei piena
di ferite… Ma com’è possibile che un corpo solo ne abbia così tante?
Come te le
sei fatte?».
Quando
ogni notte e quando era ora del bagno Laween spogliava Izaeh, si
accorgeva
sempre più di come questa ragazza avesse vissuto allungo da morta:
tagli dovuti
ai morsi della vampira Saya, ma non solo, aveva cicatrici ovunque.
Glieli
premeva, come per assicurarsi che fossero reali.
«Non è
possibile…», esclamò ancora, a bocca aperta; i
suoi occhi fissi
sui segni dei tagli di anni. «Il tuo corpo ne ha
subito parecchie in questi anni, eh, Izaeh?».
Irvin
teneva stretto fra le mani un libro; a lui piaceva leggere e ne aveva
trovati
parecchi nel covo della vampira. Molti riguardavano letterature sui morti, e gli studi fatti su di essi.
Adesso
capiva di cosa parlava quella Saya quando diceva di voler risvegliare quella morta.
I
libri confermavano le teorie – assurde
– citate da sua madre e da quella vampira.
Ma
Irvin non poteva crederci.
La
sua speranza era morta molto tempo fa.
Stringeva
quel libro con forza, mentre il suo sguardo si direzionava in basso, al
piano
inferiore, dove sua sorella stava in compagnia di quella
morta.
Non
toglieva loro l’occhio di dosso. Temeva che si sarebbe risvegliata e
avrebbe
fatto del male alla sua sorellina… non glielo avrebbe permesso. Non per
niente
non mollava la sua pistola con un solo proiettile per morto all’interno
–
sempre quello destinato a lei che non aveva usato precedentemente –,
che
portava sul suo cinturino.
Laween
lo vide osservarle e gli fece la mano, con immenso sorriso.
«Guarda,
Izaeh! Irvin ci sta guardando! Lo vedi? E’ lassù!»,
le esclamò strattonandola un po’. «Ciaoo,
Irvin!!».
Sua
sorella era proprio una sciocca idealista.
Come
poteva vedere vita in quel corpo? Soprattutto dopo quello che era successo…
Era
proprio come la loro madre.
Proprio
come lei…
«Mammaaaa!!».
Entrò
di corsa in casa, quasi
inciampando sul tappeto polveroso della stanzetta.
«Ssst!», fece
la giovane donna – giovane, sì, ma dall’aspetto
troppo trasandato e trascurato –, intimidendo il piccolo con
un’occhiata.
Stava
seduta su di una sedia vecchia e
scomoda, di legno, come tutto ciò che stava loro intorno. In mano
portava un
vecchio cucchiaio arrugginito, in cui prese della minestra da un
piattino sul
tavolo, amorevolmente.
Al
suo fianco un uomo. Anch’esso
trasandato, – immobile
come una vecchia statua
–, con la sua barbetta incolta e i suoi occhi spalancati e vuoti…
a specchio.
«Apri la
bocca, amore!»,
diceva.
Ma
l’uomo non si muoveva e il figlio la
guardava deluso.
Aprì
lei la sua bocca e ci svuotò il
cucchiaio.
Il
bambino lo vedeva… Vedeva lo sguardo
di sua madre abbattuto ad ogni movimento che avrebbe sperato facesse.
Stava
impazzendo, si stava stancando, lo vedeva.
«Cosa
c’è,
Irvin? Volevi qualcosa?», non
lo
guardò neppure.
«No…», emise
con un esile filo di voce. «Non
importa.».
«Izaeh,
riesci a sentire il profumo di questi fiori?».
Le
passò un fiorellino sotto il naso, di quelli rosa caduti dagli alberi
freschi.
«E’ molto
buono, sai? Mi ricorda i prati in cui andavo a giocare da bambina… Tu
andavi
nei prati quando eri piccola?».
Proprio
come la loro madre…
Izaeh
non faceva il minimo gesto.
Era
solo tempo perso.
***
Rideva,
rideva divertita come non mai.
Aveva
sdraiato Izaeh sul pavimento, un giorno, e poi ci si era sdraiata anche
lei al
suo fianco.
In
quel particolare giorno quanto mai quelli prima, stava nevicando di
tantissimi
fiori senza interruzioni, in quel paradiso che avevano chiamato
“Primavera”.
Si
muoveva gioiosa fra i mille fiori che le cadevano addosso. Non riusciva
a
smettere di ridere, talmente era felice.
Si
era messa a buttarli su di Izaeh che quasi l’aveva sepolta.
«Guardati!
Sembri un prato fiorito!», rise.
Fiorito…
«Che non
ti
venga in mente di buttarti di nuovo nell’erba a giocare! Sono stato
chiaro,
ragazzina?».
Quella
voce…
«Mi
piacciono
i prati fioriti!».
Era
bambina… I prati… Le risate…
«Izaeh!
Guarda che se non ti muovi ti riempio di fiori! E’ una promessa!», la minacciò raccogliendo un gran
numero di petali
colorati.
Veloce
glieli gettò addosso, ridendo divertita.
Le
risate…
Stava
ridendo da sola, in mezzo ai
fiori, nell’erba che la superava in altezza.
Izaeh.
«Cosa ci
fai
qui?».
Una
voce le fece interrompere le risate
giocose, voltando la sua testolina bionda in alto.
«Pensavo
di
essere stato chiaro con te… Noi qui non ti vogliamo!».
Era
un bambino altezzoso, di bassa
statura e magro. Coi suoi pantaloncini stretti e corti, e la
magliettina
fresca, appena lavata.
Al
suo fianco altri due bambini, che
sembravano la sua copia per la postura e il viso arrogante.
«A me
piace
stare qui, non potete obbligarmi ad andarmene!». La
sua voce
nasale e piccola.
«Questi
lo
dici tu, carina!».
«Izaeh! Ti
voglio riempire finché non mi dici di smetterla!».
«Ancora!
Ragazzi, ancora!», dava
ordini, scuotendo le braccia. «Riempitela
finché non sarà contenta!». E poi
si
rivolse a lei, con tono malvagio. «Te la
sei
cercata, biondina! La prossima volta fai quello che ti dico!».
I
due bambini non tanto presto smisero,
correndo via insieme al loro piccolo capo, appena sentirono le urla di
un uomo.
«Lasciatela
stare!! Piccoli bastardi!».
Arrivò
correndo come meglio poteva quell’anziano, agitando il bastone della
sua scopa.
Si
affacciò alla piccola, sepolta da
pietre, erba e terra.
Piangeva,
mescolando le sue lacrime al
terriccio ancora fresco.
«Izaeh…!». Non
sapeva cosa dire, inchinandosi a lei per
ripulirla. «Devi
difenderti da quei bastardelli! Ricordati sempre che i prepotenti lo
fanno
soltanto perché hanno paura di te, piccolina mia! Quando farai capire
loro che
non possono farti niente cambieranno atteggiamento, vedrai!».
La
prese sulle ascelle alzandola dalla
terra, per poi spolverarle il visetto pallido.
«Ma non
è vero,
nonnino… Io non ci riesco…!».
«Izaeh, non
ne hai abbastanza?», si fermò per ridere ancora. Ma i
suoi celesti occhi
si spalancarono quando videro una cosa che non aveva mai visto prima…
La mano
sinistra di Izaeh… si stava muovendo.
«Nonnino…».
Allungò la sua manina sinistra, accarezzando il viso
raggrinzito del signore. «Io non
voglio
più sentirmi così…!».
Il
nonno l’abbracciò, trovando la forza
per lacrimare.
«Irviiin!!». Gridò talmente forte che rimbombò
per interi minuti
la sua voce nella dimora.
Il
ragazzo corse velocissimo, balzando in giù dal piano superiore. Credeva
fosse
successo qualcosa di terribile… ma forse lo era, infatti.
Qualcosa
di terribile.
Si
bloccò quando vide le dita di quella
morta muoversi.
Afferrò
svelto la sua pistola, puntandogliela contro.
«No, che
stai facendo? Non spararla, Irvin! Ti ho chiamato per annunciarti i
nostri
progressi… Vedi? Si muove… La mamma aveva ragione!».
«La mamma
non aveva ragione!! Basta fantasticare!!», urlò. «Il gioco è finito, sorellina!
Adesso devo spararla…!».
Era
fin troppo serio. Forse… impaurito.
«Noo!», quasi le veniva da piangere. «Irvin, ti prego… Non ha fatto
niente di male! E’ una
buona cosa che ha mosso le dita… si sta risvegliando! Se continuo
tornerà
normale!», tracciò uno dei suoi soliti
sorrisi speranzosi.
«Si sta
risvegliando, appunto! Non tornerà normale e lo sappiamo entrambi… Se
si
risveglia sarà più difficile…
Fammela
uccidere!».
Gli
occhi della ragazza rimbalzavano. Sapeva cosa voleva dire. Perché le
parole del
fratello suonavano quasi come una preghiera…
«No…», pianse; più per quello che le
ricordava che per quello
che stava succedendo. «Se vuoi sparlarle dovrai farlo
prima con me!».
No… Non avrebbe dovuto fargli questo.
«Mamma,
siamo
tornati!». La
sua voce
allegra.
I
suoi passi seguiti da altri più lenti
alle sue spalle.
«Facciamo
piano… Forse la mamma è andata a dormire!»,
esclamò la
vocina dietro di lui.
Entrarono
e videro la stanza vuota,
salirono così le scale di legno, dove sentirono i primi rumori. Rumori…
strani.
Si
fermarono a metà scala, perplessi, ma
salirono correndo quando sentirono un grido forte di dolore.
«Stai
dietro
di me!», disse
il ragazzino dai capelli
violetti alla sorellina poco più piccola, tirandola indietro.
Spalancò
la porta e terrorizzato scacciò
un urlo, come la bambina, che si portò le mani alla bocca.
A
pochi passi da loro vi erano delle
grandi pozze di sangue, che portavano ai piedi nudi nelle ciabatte
rotte della
loro mamma, che si reggeva la pancia, poverina, dove il liquido cremisi
sgorgava
a fiumi. Anche la sua bocca ne era immersa, spalancandosi alla vista
dei figli.
«Noo…», emise
appena, con un’esile filo di voce. Non aveva
di certo fiato, si reggeva in piedi a malapena.
Ma
quello che catturò tantissimo
l’attenzione dei bambini, era lui,
sveglio, in piedi, frenetico, non smetteva
di agitarsi impazzito, buttando all’aria tutto ciò che vedeva intorno.
Le sue
mani e braccia, imbrattate di sangue vivido.
La
donna alzò un braccio verso di loro,
per catturarne ancora gli sguardi persi.
«Sca…»,
voleva parlare, ma non ci riusciva e loro la fissavano
sempre più impauriti. «Scappate…
via…
Andateve… Andatevene via!!»,
riuscì ad
urlare.
La
femminuccia fece un passo indietro,
ma il maschietto restò immobile, osservandola vomitare sangue.
Strinse
i pugni.
I
loro genitori, prima di questo
incidente, li avevano addestrati come dei cacciatori, come un tempo lo
erano
loro.
Era
arrivato il momento di crescere.
Vide
a terra la pistola e veloce
l’afferrò, facendo agitare la sua sorellina.
«Noo!»,
pianse, stringendolo al braccio, per non farlo
sparare. «Non
uccidere
il papà, ti prego, Irviin!».
Ma
lui era deciso; i suoi occhi fermi
scambiarono l’occhiata dilatata della madre.
«Irvin…»,
mugugnò fra il pianto.
«Sto per
fare
quello che avrei dovuto fare giorni prima.», disse
appena, liberandosi dalla presa di sua sorella e puntando l’arma verso
il
padre. «E’
finita, mamma.».
Un’ultima lacrima.
Sparò.
La
donna cadde addosso all’uomo in preda
ad un altro attacco di follia, mentre agitava le braccia. E subito dopo
scivolò
a terra, perché non venne sorretta.
I
suoi occhi ancora spalancati, colmi
delle gocce del dolore, mentre incontravano quelli blu del figlio,
adesso
aperti fino all’estremo.
«Mamma…»,
sussurrò.
Si
era messa in mezzo, e l’aveva
salvato.
«Noooooo!!», gridò
Laween, buttandosi a terra. «Irviiin!!
Hai ucciso la mammaa!!».
Il
bambino abbassò la pistola, svuotato
dall’azione che aveva appena commesso.
Ma
non
poteva abbassare la guardia,
non era finita veramente.
Quello
che una volta era il loro padre
gli vide, ad occhi sgranati, fermo ad inquadrarli.
La
bambina si fermò osservandone lo
sguardo e – preoccupata – arretrò di qualche passo con il sedere, fino
a
toccare la parete. « Irvin…», si
lasciò sfuggire.
L’uomo
gridò, mettendosi a correre
furibondo verso i figli…
Gli
occhi ripresero a guardare e l’arma
venne alzata.
Sparò.
Ma
non questa volta.
Si
lasciò scivolare l’arma dalle mani, che cadde sul pavimento in un
tonfo, in mezzo
ai petali che continuavano a cadere inesorabili.
Laween
lo fissò dritto in quegli occhi persi.
Non
aveva sparato. Questa volta non aveva sparato.
Non
disse una sola parola, niente. Prese a calci l’aggeggio e se ne andò,
con volto
chino sul pavimento.
La
ragazza non avrebbe dovuto fargli questo. Lo sapeva lei, ma era l’unico
modo
che conosceva per fermarlo: il dolore.
***
Altri
giorni passarono e Irvin non si mise più in mezzo. Le controllava come
sempre,
da lontano, con la sola vista di un elemento in disparte.
Le
vedeva sempre più vicine; vedeva sempre più Laween affezionarsi a lei,
e lei, muoversi sempre più.
Camminava
più velocemente, muoveva il capo, anche senza nessi logici, e alzava le
braccia
e le mani. Era sempre fredda e i suoi movimenti calcolati, però era un
progresso enorme.
Laween
prese un libro dalla biblioteca e si mise a sfogliarlo – come spesso
faceva –
accanto ad Izaeh, entrambe sedute sui tronchi degli alberi in fiore che
ormai
le rappresentavano.
Sembrava
un testo scolastico degli umani, con grande sorpresa della ragazza.
«Oh!», fece. «Questi
sono vecchi temi dei bambini delle elementari! Chissà di che anno sono?!», rise. «Tu ne
facevi temi quando eri alle elementari, Izaeh? Io ne avevo fatto uno,
mi pare…
Ma ero piccola ed era piano di erroracci!», rise
ancora.
Chiuse
il libro, osservandola nel volto senza emozioni.
«Quanto
vorrei vederti ridere, sai…?», accennò un mezzo
sorriso.
Gettò
il libro ai piedi del fusto in cui erano sedute, sui petali rosa
raccolti in un
mucchio.
La
fissò, immergendosi nei suoi grandi occhi a specchio.
«Io non li
odio questi occhi, sai? Però sono brutti, perché ti tengono separata da
me…».
Avvicinò
lentamente il suo volto a quello pietrificato di Izaeh, continuando a
fissarla.
«Sei sicura…
di non sentire proprio niente?». Non sembrava
certamente una domanda, ma tant’è che cercava disperatamente la
risposta,
poggiando le sue candide labbra a quelle della fanciulla dagli occhi a
specchio.
Irvin
le vide e allargò gli occhi. Non poteva crederci! Com’era stata capace
di fare
questo?
La
lasciò andare, osservandola ancora. Ed ecco che arrivò un altro evento
per cui
esserne fieri: aveva mosso le labbra.
Sorrise,
più entusiasta che mai.
«Allora
l’hai sentito! Allora l’hai sentito!»,
l’abbracciò.
Le
lasciò andare le labbra, ridendo
appena.
«Allora?
Ti è
piaciuto?».
Izaeh
riaprì gli occhi, guardandolo
stranita. Arrossiva, non sapeva che dirgli.
Abbassò
gli occhi, imbarazzata.
«Beh…
Non lo
so…!», si
fregò il braccio destro. Sorrideva
a malapena, tentando di mantenere represso il suo entusiasmo da
adolescente.
«Va bene!», fece
il ragazzo d’improvviso, alzandosi in piedi dal
tronco del vecchio ceppo. Aveva rovinato tutta l’atmosfera. «Quando
ti verrà in mente vienimelo a dire, eh!».
Corse
via ed Izaeh lo seguì con lo
sguardo. Due ragazzi dietro ad un albero gli facevano la mano e questo
rise
come un forsennato, arrivando a loro. Non si preoccupava nemmeno del
fatto che
la ragazza lo potesse sentire.
Si
tirò in su le bretelle, fiero come un
vecchio pavone.
« Com’è
stato?», gli
chiese uno dei due, quasi a squarciagola.
«Oh,
niente
male!», fece
quello, altezzoso. «Vi dirò
che non è stato affatto male!».
«Lo
rifaresti?
Anche se si tratta di lei?»,
chiese
l’altro.
«Beh,
non so…
Non è stato male, questo sì. Ma si tratta pur sempre di lei, no?».
«Che
coraggio
che hai avuto! Io
non ci sarei mai
riuscito!».
«Già!»,
proseguì l’altro. «E’ vero
che
puzza?»,
risero.
Risero
tutti e tre.
Lo
facevano apposta a gridare… Volevano
che sentisse Izaeh, che depressa chinò lo sguardo, andandosene versando
lacrime
amare.
***
La
notte arrivò ed Izaeh era coricata al fianco di Laween, che
l’abbracciava, come
ogni notte.
Certo
Izaeh non dormiva, ma la ragazza la coricava ugualmente, come se
potesse farlo.
La
porta di quella camera buia si aprì appena cigolando, seguita da dei
passi
scaltri.
Si
affacciò al letto, con la pistola nella mano destra.
Un
altro tentativo.
Quella morta si sarebbe risvegliata prima
o poi e avrebbe fatto del male a
sua sorella, soprattutto al cuore.
Voleva
proteggerla, perché non era riuscito a farlo con la loro madre e perché
era suo
dovere.
Puntò
la pistola alla tempia.
Sapeva
bene che era orribile il suo atto. Ucciderla nel cuore della notte,
quando la
sua adorata sorellina dormiva. E al suo fianco per giunta.
Si
morse un labbro.
Sapeva
che non c’era altra scelta, però.
Doveva
agire, e il prima possibile.
Lui
era un cacciatore, non doveva dimenticarlo.
«Vuoi
uccidermi stanotte?».
Che voce
calda.
Lui l’osservò
come
se fosse tutto naturale, abbassando l’arma.
«Sei
pericolosa per mia sorella. Tu non sai niente di noi…».
«E tu non sai
niente di me!», accennò una
risata, mettendosi seduta che, come uno spettro,
attraversò il suo corpo di ghiaccio tenuto stretto fra le braccia di
Laween.
«Non
m’interessa sapere di te.», ammise. «Voglio solo
proteggere lei, nient’altro.».
Serio la
guardava
distaccato, come se non volesse avere legami con lei… per paura.
La ragazza si
alzò
dal letto, sorridendo. Si mise a fissarlo, con gli occhi a specchio
senza
pupille.
«Non voglio
che tu ti risveglia.», aggiunse.
«Lo so!». Non
smetteva di sorridere. «Non ce l’avrò
con te se deciderai di spararmi! Quel proiettile è per
me!».
Il ragazzo
passò uno
sguardo alla pistola e dopo nuovamente su di lei.
«Non
m’interessa sapere di te…», tornò a
dire, come si gli fosse stato appena chiesto. «Voglio solo
che mia sorella sia
felice…».
Forse chiesto
da se
stesso.
Paura.
Izaeh sorrise
ancora
e ancora, accarezzando i suoi lunghi capelli biondi, creando boccoli
con le
dita.
Il ragazzo
abbassò
lo sguardo.
Paura
di affezionarsi.
Voleva
tenerla
lontana.
Lei lo
sapeva; e
forse era meglio così.
«Fai quello
che devi fare, Irvin! Io sono già morta…».
Quest’ultima
frase
lo spiazzò, rialzando lo sguardo, dando luce ai suoi occhi blu
spalancati.
Lei
non era già morta… Lei si muoveva… Non era già morta…
Tutto
finì, come un breve sogno.
Irvin
fissò la pistola con i suoi occhi sempre aperti, e dopo fissò per breve
il
corpo di marmo di quella morta.
Voltò
improvvisamente il suo capo a lui, come se l’avesse sentito, come se
potesse
vederlo in quegli occhi senza vista.
Fece
un passo indietro. Si morse ancora il labbro inferiore, guardando prima
la
sorella e poi lei, quella Izaeh.
Uscì
dalla stanza camminando a grandi passi, richiudendo dolcemente la
porta.
***
Si
voltò guardando indietro, perché
sentiva ancora quei bambini che a bassa voce parlavano male di lei. Si
nascondevano fra i banchi, ma riusciva comunque ad osservare i loro
occhi
divertiti e a sentire le risa.
«Dai,
Izaeh!
Continua pure, non importa anche se la campanella è suonata!».
La
distrasse, rivoltandosi svelta.
Stava
in piedi con il foglio in mano, leggermente
tremava.
Quei
bastardelli, come li chiamava suo nonno,
la mettevano sottopressione.
Non
dovrebbe avere paura di loro… non dovrebbe.
Si
tirò dietro all’orecchio i corti
capelli, e tossì, per dar nuova forza alla sua voce.
«Dai, ti
ascolto!
E’ un bel tema il tuo!», disse
di
nuovo la giovane insegnante, sorridendole dalla sua cattedra, distante
una sola
fila di banchi da lei.
Continuò
a sentire le loro risatine
cattive, ma non se ne volle preoccupare, ricominciando a leggere lo
scritto.
«Io
voglio
molto bene a tutti e due! Non voglio sostituirli mai perché sono delle
bravissime persone!».
Leggeva
un po’ a sbalzi il tema che
aveva scritto quella mattina, in una giornata come un’altra, alle prime
soglie
delle elementari.
L’argomento
che dovevano trattare i
bambini era quello di descrivere i propri genitori… Per Izaeh però, fu
diverso.
«Sono
contenta
di aver avuto i miei nonni! Non voglio perderli mai perché loro mi
vogliono
bene…», quasi
si bloccò; era sempre stata una
bambina particolarmente sensibile. «… solo loro lo fanno…». La
maestra non riuscì a sentire bene queste ultime
parole; la voce della piccola si era fatta molto bassa e il disordine
in classe
stava aumentando, così come i loro schiamazzi.
Izaeh
non aveva mai avuto i genitori.
«Irviiin!!», gridò quella mattina. «Irvin,
vieni! Corri!».
Il
ragazzo giunse nella stanza e vide sua sorella che tentava di alzare
Izaeh dal
letto, come ogni mattina, ma questa volta non riusciva a spostarla.
«Non riesco
a muoverla…», disse tentando di alzarle un
braccio. «Oggi è più rigida della prima volta
che l’abbiamo
incontrata!».
Il
giovane si avvicinò e la sorella la lasciò andare.
«Cosa pensi
che abbia?», domandò. Era visibilmente
preoccupata.
Si
fermò ad osservarla e non sembrava diversa affatto. Però…
Più
la guardava e più qualcosa non lo convinceva.
Spalancò
gli occhi, avvicinando la sua orecchia destra al petto della ragazza.
«Sta…», si rimise diritto, incredulo
delle stesse parole che
stava per dire. «… dormendo!».
«Eh?».
Il
ragazzo si toccò la fronte, stranito. «Sta
dormendo… Sogna… Ha le pulsazioni del cuore di chi dorme…», fissò un punto nel pavimento. «E deve anche essere un sogno
nervoso a giudicare dal
battito.».
Gli
occhi di Laween si accesero, felicissima.
«Davvero
dorme?». Sembrava la notizia più bella che
avesse mai
sentito. «Ma è una cosa meravigliosa, Irvin!
Te ne rendi conto?
I morti non sognano… ma lei sta sognando! Sta sognando!», si mise a saltellare dalla gioia.
«Sono così felice per Izaeh… Si
risveglierà presto!».
Irvin
ancora non riusciva a crederci.
Aprì
la porta di casa con la solita sicurezza,
scorgendo una signora anziana che lavorava a maglia.
La
piccola fece due passi e buttò i
libri – tenuti stretti dal laccio – sul tavolo in legna, sedendosi
sulla sedia
poggiando la testolina bionda sulle sue braccia a conserte sul tavolo.
«Cosa è
successo?»,
chiese la nonnina,
sulla sua sedia a dondolo. «Non è
stata
una bella mattina oggi a scuola?».
«No…», si
udì. «Come
tutte le
altre…».
La
signora le sollevò lo sguardo un
momento e dopo tornò sul suo operato.
«Vuoi
parlarne?».
«Non lo
so…». Alzò
la sua testolina bionda, guardandola. «Nonnina,
ma perché tutti i bambini sono cattivi con
me? Giocano con tutti tranne con me… Mi odiano e mi trattano male…».
L’anziana
avrebbe voluto trovare delle
parole adatte da dire alla sua piccola nipote, sapeva però già in
partenza che
niente avrebbe potuto tirarle su il morale.
«I
bambini non
sempre sanno quello che fanno, Izaeh. Solo quando saranno grandi
capiranno che
è sbagliato fare certe cose… Ma non subito, anche lì ci vorrà del tempo.».
Ovviamente,
l’espressione della bambina
non cambiò.
Tristezza, dolore,
paura di sentirsi soli…
Erano
sensazioni che Izaeh aveva sempre provato, più di ogni altra cosa, da
quando
riesce a ricordare.
«Quei
piccoli
bastardi!», si
udì già
in lontananza. «Non
possono
trattare sempre così la nostra bambina! Ci vorrebbe qualcuno che desse
loro una
lezione!».
Era
suo nonno…
Si
avvicinò alla porta semichiusa, ,
dove filtrava la luce rossa e opaca del vecchio lampadario, con i suoi
piedini
nudi, stringendosi alla sua vestaglia per il freddo.
«E cosa
vorresti fare, Fernand? Andare a sculacciarli? Lo so anche io che il
loro
atteggiamento è sbagliato, ma non possiamo fare niente… Sono solo
bambini, un
giorno capiranno. Izaeh dovrà cercare di farsi forza!», gli
rispose la signora.
«Farsi
forza?
Laue, Izaeh è troppo sensibile, lo sai! E loro la trattano così solo
perché è
orfana… Non hanno nemmeno un vero motivo. Sono stupidi quei piccoli
bastardi…!».
Izaeh
chinò lo sguardo.
I
suoi occhietti nell’ombra si fecero
più scuri, così, voltandosi indietro, prese a camminare per tornare sul
suo
freddo lettino.
Orfana…
Lo
era sempre di più.
Si
era sentita ancora più orfana quando
morì sua nonna.
Sempre
più sola.
Abbracciava
suo nonno, ed entrambi
piangevano in quel giorno di nubi del funerale.
Perché…?
Cosa aveva fatto Izaeh nella
sua vita per meritare questo?
Per
essere orfana del mondo…?
Che
la vita avesse preteso troppo da
lei?
…
Izaeh non era così forte…
«Sono
riuscita a muoverla!! Ha finito di dormire!».
La
portò con sé mano nella mano, sotto gli alberi che ormai erano
diventati il
loro luogo prediletto.
«Cos’hai
sognato oggi, Izaeh? Qualcosa di bello?», le
sorrideva. «Irvin ha detto che il tuo sonno era
nervoso… E’ vero?
Spero di no!», rise. «Quando
tornerai normale farai dei sogni magnifici, te lo dico io! Di quelli
che non
vorresti svegliarti! A me capita, sai?».
Prese
dei petali rosa dal pavimento, disponendoli sui capelli biondo platino
di
Izaeh.
«Ti stanno
benissimo…», le sorrise ancora.
La
morta alzò un braccio e inaspettatamente posò la mano destra su una
guancia di
Laween, in un carezza.
Arrossì.
«Tu tornerai, Izaeh! Vedrai! Vivrai
di nuovo e sarai
felice!».
Felice?
Izaeh
nella sua vita era stata veramente felice in poche occasioni. Almeno di
quelle
che riuscisse a ricordare.
La
sua vita era cominciata con i suoi nonni; poi la scuola; i bambini che
la
schernivano; i ragazzi quando era più grande, che la evitavano; la
morte della
nonna… e dopo?
Cosa
c’era dopo?
La morte.
«Lei non
era mai stata in buona salute. E’ nata malata.».
Quella
voce fredda e triste. Irvin.
Abbozzò
un sorriso.
«Sapevo che
sarebbe successo presto. Ma almeno è stata felice, in questo periodo.».
Stava
in piedi, con i petali rosa della Primavera che li cadevano addosso,
accarezzandolo.
Salutandolo.
Una
lacrima scese sul suo sorriso.
«Forse…», riprese, tentando di mantenere un
singhiozzo. «Voleva risvegliarti per
sostituirla, in qualche modo…».
Izaeh
stava dietro di lui, a pochi passi.
Immobile
come sempre.
«Voleva che
tu vivessi… come suo ultimo desiderio.», alzò lo
sguardo al soffitto, facendo brillare i suoi occhi blu come lucciole, e
le
lacrime involontarie.
«Credevo
che saresti solo riuscita a farle del male ma… adesso lo so. Grazie,
Izaeh!», si voltò a lei. «Grazie per
averle regalato la vita felice che io non riuscivo ad offrirle!».
Riaprì gli
occhi
sigillati da un’eternità, non più a specchio, ma di un’irresistibile
color
arancio, bellissimi.
Fu la prima
cosa che
vide in quel posto totalmente bianco: Laween e il suo sorriso.
«Nonno?». Era
appena tornata a casa e chiuse delicatamente la
porta. «Nonno,
ti ho comprato le uova come mi
avevi chiesto… Nonno?».
Non
vedeva nessuno e il silenzio
padroneggiava in quella casa fin troppo fredda.
Ma
quando passò il muretto che divideva
la cucina dal resto, tutto iniziò… ma non era un inizio,
era solo
la fine.
«Nonno!!», gridò
la ragazza.
Gli
corse incontro, vedendolo sul
pavimento con al suo fianco una sedia. Forse aveva provato a salirci ed
era
caduto, pensò subito… Ed era quando non sentì il suo respiro, o il
battito del
suo cuore, che
non riuscì più a
pensare.
La
morte si era portata via l’unico
appiglio al mondo che le era rimasto.
Ora
era sola.
Non
poteva uscire di casa perché non
aveva più forze che glielo permettevano.
Non
poteva mangiare perché la fame non
era più tornata.
Non
poteva più bere perché non ne
sentiva la necessità.
Non
poteva più vivere perché cercava la
morte.
Non
poteva più morire, perché era già
morta.
«Laween…», lo disse
per la prima volta, con un soffio di voce.
Lei era
riuscita a
farle rivivere la sua intera vita e adesso anche la morte.
La
morte che l’ha fatta nascere ancora.
La ragazza
socchiuse
i suoi occhi celesti, facendo sfoggio di uno dei suoi sorrisi migliori.
«Sei libera!», le disse. « Adesso sei
libera, Izaeh! Spezza quelle ultime catene e dammi la
mano!», gliela
porse,
avvicinandosi di qualche passo.
Si vide,
chiusa come
un bocciolo, nuda, tra quelle catene sospese per aria in quello spazio
completamente bianco. Catene arrugginite e mezze rotte, le fissò.
«Le ho rotte
io!», ammise la
ragazza. «Una dopo
l’altra… Pian piano sono riuscita a spezzarle… Adesso potrai
riuscire a vivere da sola…!».
Da
sola? Senza lei?
Le alzò lo
sguardo,
sorridendole per la prima volta.
Sorriso che
ricambiò, entusiasta.
«Sei morta di
nuovo e adesso rinascerai…!».
Izaeh allungò
il
braccio, tendendole la mano.
Spingendosi
in
avanti, senza sforzi, quelle catene si spezzarono, polverizzate,
rimanendone
più nulla.
Sfiorò le
dita della
ragazza, per stringerle la mano, ma queste si dissolsero, diventando i
petali
rosa tanto amati.
«No!», emise
Izaeh.
Ma la ragazza
davanti a sé continuava a sorriderle, mentre il suo corpo sempre più
svaniva in
quei magnifici petali che fin dall’iniziò erano stati il loro simbolo.
«Sii felice,
Izaeh!», le
sussurrò. «Ti voglio
bene…».
Svanì.
«Laween…». Le scese una lacrima. Una sola
limpida lacrima dai
suoi occhi a specchio.
Irvin
spalancò gli occhi lucidi.
Aveva
sentito bene? Izaeh aveva parlato! Aveva chiamato sua sorella!
«Ma tu…», fece, sorpreso.
La
ragazza strinse forte gli occhi, gettandosi di peso a terra. E gridò,
gridò con
tutte le sue forze, pestando il pavimento sui cui stava sopra, dando
vita ad un
pianto senza fine.
Era
impazzita? Lo pensò Irvin, in quel preciso momento. Si era svegliata ed
era
impazzita.
La
vide rialzarsi, facendosi forza sulle gambe, e lo vide.
Il
ragazzo palpitò una sola volta, alla vista dei suoi bellissimi occhi
color
arancio.
Non
più a specchio.
Izaeh
voleva avvicinarsi a lui.
La
storia si ripeteva.
Doveva
prendere la pistola e spararla.
Avvicinò
la mano al cinturino ma, non la sfiorò nemmeno quell’arma. Si bloccò
prima,
tremando.
Non
poteva.
Era
finita.
Aveva
già commesso questo errore, non l’avrebbe rifatto.
Ormai
era troppo tardi.
Si
era già affezionato ad Izaeh.
Lei
corse verso di lui, ma niente era come si sarebbe aspettato.
L’abbracciò,
piangendo sulla sua camicia bianca.
Irvin
sorrise, sorpreso.
Ci
era riuscita. Laween – la sua sorellina – ci era riuscita.
La
mamma aveva ragione. Laween aveva ragione.
«Avevi
ragione anche questa volta…».
La
morte non ha portato la morte.
Chiuse
gli occhi blu e sorridendo ancora, dolce, ricambiò l’abbraccio,
stringendola
forte.
A
pochi passi da loro, le mattonelle bianche e nere della Primavera erano
state
rimosse, per lasciar spazio alla terra umida, dove in un rialzo
sfoggiava una
piccola croce.
I
petali rosa degli alberi caddero come sempre, posandosi sulla croce
come
avrebbero da oggi fatto senza fine.
***
«Oh, ma
anche tu sei carino!», afferrò un altro fiore rosa,
reggendolo con l’altra
mano insieme al resto dei fiorellini.
Alzò
lo sguardo al cielo azzurro, sempre più bello e soleggiato.
Il
vento solleticava un po’ i suoi lunghi capelli biondo platino e quando
vide che
era abbastanza forte, donò i fiorellini a questo, che se li portò via.
Sorrise,
accarezzandosi il pancione rotondo.
«Izaeh!».
Si
voltò, per ricominciare un nuovo giorno, un nuovo capitolo della sua
vita.
Un
nuovo capitolo che sarebbe iniziato, ogni mattina, da quel giorno e per
sempre,
che sarebbe continuato; e di un altro libro che sarebbe a poco
cominciato, con
il pianto di una neonata.
La
morte non aveva portato alla
morte questa volta.
La
morte aveva portato la vita.
Fine
[8,093
parole, titolo compreso]
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Quarta
classificata e devo dire in completa sincerità che lo sapevo
°______°
Ovvero, non mi ha per niente spiazzata perché già da ieri sera la mia
testa malata
si era impuntata con la quarta posizione. Mi faccio paura da sola, non
abbiate
timore xDD
E
sono contenta
del risultato, certo la prima voce (ovvero quella della grammatica,
ortografia,
ecc.) è stata pessima ma è giusto così xD Nel senso che me lo merito
ù___ù Più
ci sto attenta a quelle cose e più le sbaglio: sarà destino?! xDDD Sarà
che
lettura dopo lettura si finisce per sapere le cose a memoria e non
leggerle più
per davvero, mah.
Comunque,
come
dicevo sono contenta perché la giudice è riuscita a comprenderla, ad
apprezzarla e mi ha dato prova che sono riuscita a trasmettere quello
che
volevo anche se non ci speravo *____*
Mi
piace quando
mi capiscono xD E’ una cosa molto rara, comunque.
Infine,
vi lascio
il mio commento alla storia che avevo allegato alla mail alla giudice
nella
spedizione dell’elaborato.
“Ecco,
all’inizio
l’idea mi piaceva molto, adesso… diciamo che non mi soddisfa
pienamente, anche
se mi piace lo stesso ^^ Sarebbe potuta venire su un po’ meglio a mio
parere,
ma non ne avrei avuto comunque il tempo, quindi va bene così.
Non
so se si
capisca molto la narrazione… vi sono un susseguirsi di tagli fra
presente e
passato e devo ammettere che non sapevo come cavarmela, infatti non so
come ne
sia venuto fuori; se si capisca, ecco ^^’ Inoltre noterai il cambio di
carattere, fra times e verdana. Ho utilizzato il times per la normale
narrazione, anche per i pezzi nel passato (solo in corsivo); ma sentivo
il
dovere di cambiare carattere per certi avvenimenti, sennò la
comprensione sarebbe
stata ancor più andata a farsi benedire XD Anche se non so se così ci
sia
comunque riuscita, come dicevo prima.
Vi
compare
infatti un avvenimento molto strano, lo dico anche io --> [SPOILER se non hai ancora letto] Irvin
riesce a parlare ad Izaeh anche se lei – ovviamente – non può parlarlo.
Mi
sembrava una scena molto importante, anche se non capisco da dove ne
sia
uscita. E’ venuta da sé e mi è piaciuta molto. Praticamente Irvin ed
Izaeh
scambiano quattro parole come se potessero sempre farlo, consapevoli
del fatto
che non possono. Izaeh è morta, non si erano mai parlati, ma in pratica
“si
conoscono”, perché vivono sotto lo stesso tetto. E’ molto strano, come
ho
detto, e non riesco a spiegarlo nemmeno io ^^’’ Ma mi piace tanto
quella scena
**
Difatti
nella
scena finale Izaeh sa perfettamente chi è Irvin.
Un’altra
nota da
sottolineare è che la fine mi ha messa una tristezza infinita (parlo
come se
fossi anch’io una semplice lettrice XDD). Sapevo che sarebbe finita
così perché
ancor prima di scrivere il titolo l’avevo già deciso, ma mi è scesa
un’angoscia
pazzesca scrivendola; mi domando se faccia quest’effetto anche
semplicemente
leggendola, ma non penso ^^’’ Perché non sono sicura di aver trasmesso
come
avrei voluto tali emozioni.
Quella
scena è
ambientata nel subconscio di Izaeh, per l’ultimo saluto di Laween. Non
saprei
dire se Izaeh si sarebbe risvegliata senza quel fatto… Propendo verso
il no,
comunque; e quindi, anche se triste, era necessaria.
L’ultima,
l’ultima scena è invece malinconica. Il pianto di una neonata,
da notare
^^ Non è tutto lasciato alla casualità XD [FINE
SPOILER se non hai ancora letto]”
Questa
è la
targhetta; molto carina, mi piace ^^
Avevo
anche fatto
un piccolo schizzo del viso di Izaeh, ma ora non posso scannerizzarlo e
forse
lo editerò in futuro =)
Alla
prossima,
comunque!
Ciao,
ciao da
Ghen =^_____^=
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