Salve
a tutti!
Come
si suole dire, “Non c’è due
senza tre”; così, dopo aver disturbato Naruto e Sakura, ecco che “Il
contest degli haiku” indetto da Juriaka
sul Forum di EFP mi ha offerto l’occasione per cimentarmi con la parte
mancante del terzetto.
A
mio parere, Sasuke è uno dei personaggi più complicati di sempre: ho
cercato di rendere il suo pensiero nel modo più coerente possibile, ma
non garantisco sul risultato.
Il
pacchetto n. 1 che ho scelto doveva essere sviluppato secondo i seguenti
criteri:
Tematica
generale: fallimento personale, sconfitta, solitudine
Luogo:
casa (un luogo che il protagonista identifica come rifugio, non
necessariamente la sua abitazione)
Prompt:
genere hurt/comfort
Stagione:
inverno
Orbene, a voi. Per
eventuali chiarimenti e spiegazioni, ci vediamo dabbasso!
Il
disgelo
Tu
mi sveglierai e fuori correremo
a
respirare il canto del disgelo.
Il disgelo,
Francesco Guccini
Nell’estremo
nord
del mondo l’inverno è un’unica, infinita stagione.
In
certe regioni il paesaggio si riduce ad un’immensa landa spazzata dal
vento in cui non si vede nient’altro che bianco: zone sterili,
intessute di ghiaccio, buio e silenzio, dove sembra che nulla cresca,
né mai crescerà.
Talvolta,
però,
succede che la vita attecchisca persino sotto la neve perenne e,
quando ciò accade, essa lo fa in modo tanto ostinato da creare radici
più solide di quelle degli alberi secolari.
Non
esiste gelo che le possa estirpare o lama in grado di reciderle: una
volta penetrate nella terra, queste vi rimangono furiosamente
attaccate con la tipica tenacia di chi combatta per conservare un
privilegio conquistato a caro prezzo.
L’interiorità
di
Sasuke era esattamente così.
Non
c’era emozione – eccetto il disprezzo – che intaccasse la sua faccia
di luna, pallida e spigolosa al pari di un piccolo iceberg; nessuna
scintilla rischiarava mai il crepuscolo nero dei suoi occhi, se non
quella – rossa di sangue – dello Sharingan.
Tuttavia,
al livello in cui si sedimentano le cose indicibili, anche Sasuke
Uchiha aveva la propria fauna di sentimenti nascosti.
Era
un terreno incolto, molto diverso dal giardino rigoglioso di un tempo,
ma c’era; e, benché avesse passato anni ad innaffiarlo di odio e
rancore, tutt’ora pulsava.
Della
pianta più grande e più colorata rimaneva adesso solo un troncone,
stratificato nella sua memoria come un fossile bellissimo e
altrettanto morto.
Aveva
dedicato
gran parte dell’esistenza a fortificarsi per amputarne personalmente
l’ultimo ramo – il più amato di tutti –, realizzando l’enormità del proprio abbaglio un attimo dopo averlo fatto: il corpo di suo fratello
emanava ancora calore, quando Sasuke aveva scoperto che spesso la
cosiddetta “verità” è solo un genjutsu lanciato ad arte.
Da
allora il seme di Itachi se lo portava impresso nello sguardo, ed esso
era la sola traccia che effettivamente risaltasse all’esterno – la luce dei miei occhi.
Anche
i germogli verde speranza della squadra 7 erano avvizziti in fretta,
vinti da quasi un lustro di nefandezze commesse ai danni di chiunque.
Si
era premurato di calpestarli a dovere, quelli, perché tutti – incluso
lui stesso – si convincessero che, nelle tenebre, non c’è redenzione;
che aveva sposato la propria abbacinante solitudine e non sarebbe più
tornato indietro a chiedere aiuto a persone incapaci di darglielo.
Ogni
tanto, nel limbo nebuloso tra il sonno e la veglia, si era domandato
se quei bocci avrebbero mai potuto generare dei fiori in grado di
ricoprire la brulla distesa della sua anima; dubbio che, tuttavia,
aveva ben presto sedato spargendo intorno a sé tanto sale da
sommergere qualsiasi ulteriore incertezza.
Infine,
c’era
quella cosa.
All’inizio
era
stato un piccolo, insignificante bulbo, spuntato per caso al limitare
della sua attenzione.
Sasuke
l’aveva
osservato metter radici con una curiosità disinteressata, quasi
scientifica, chiedendosi per quale bizzarro motivo stesse attecchendo
proprio lì, in un ambiente totalmente incompatibile col suo habitat
naturale – fatto di risate sguaiate, improbabili sogni e ingenuità
così autentica da risultare persino ottusa.
Neppure
nel momento in cui esso aveva cominciato a crescere si era allarmato
più del necessario, considerandolo al pari di un inconveniente un po’
fastidioso, ma sostanzialmente sopportabile: in fondo si trattava
soltanto un’innocua piantina, destinata a seccare alla prima gelata.
Non
esisteva il pericolo che arrivasse a creare smottamenti e, comunque,
mai le avrebbe concesso di spingersi a tanto.
Ecco,
era stato allora che il più giovane degli Uchiha
aveva commesso il primo dei suoi innumerevoli sbagli.
Lungi
dal lasciarsi intimidire dalle asperità del terreno, la cosa si era invece determinata a prosperarvi con la stessa
caparbietà di un’erba infestante: scavando, modellando e facendosi
spazio a suon di invidiabile pazienza, alla fine era riuscita a
penetrargli a fondo oltre ogni legittima previsione, sino a minare il
sostrato di vuoto cui Sasuke costantemente tendeva.
«Il
fatto
è che, dentro di te, non provi abbastanza odio».
Aveva
lasciato
Konoha in segreto, di notte, proprio nel tentativo di fuggire da quel
cespuglio di sentimenti al quale non voleva dare nome e che, tuttavia,
si chiamava in un modo ben preciso: Naruto.
Il
teppista; l’emarginato; il jinchūriki, come veniva sussurrato con
sguardo tagliente e voce cattiva al suo passaggio.
Eppure,
non solo Naruto aveva sviluppato un invidiabile e inaspettato talento,
ma era altresì arrivato proprio dove Sasuke aveva giurato che non
sarebbe mai più entrato nessuno; con la sua zucca vuota e la sua
ostinata, incrollabile fede nell’amicizia aveva rischiato di mandare a
monte lo scopo cui lui aveva votato ogni respiro, ossia la vendetta –
contro la persona più sbagliata possibile, ma di questo si sarebbe
reso conto solo troppo tardi.
Avrebbe
dovuto
ucciderlo allora, alla Valle dell’Epilogo, dove gli aveva vomitato
addosso tutta la propria insoddisfazione direttamente coi pugni e
Naruto, alla stessa maniera, aveva risposto che farsi deserto non era
la soluzione: non ci era riuscito.
Non
ci era riuscito perché, nel momento cruciale, il respiro dell’idiota riverso sotto di lui gli aveva accarezzato la pelle come una
mano amata, sì che qualunque tentativo di spegnerlo sarebbe stato come
divellersi una porzione di cuore.
Anche
quella debolezza si era in seguito rivelata un altro madornale errore.
Sasuke
aveva cercato di porvi rimedio da lontano, durante il suo tetro soggiorno presso Orochimaru, iniettando veleno di serpe nel
terreno dei propri ricordi e convincendosi che l’odio fosse il solo
motore del mondo.
Si
era allenato ad incrementare al massimo le proprie abilità oculari e,
insieme, a gettare fango su ogni forma di vita fuori e dentro
di sé, giacché i legami a lui non avevano portato altro che fallimento
e sconfitta.
Tuttavia,
mentre
tutto il resto appassiva, ciò che provava per Naruto aveva invece
continuato ad espandersi contro la sua volontà, lento ed inesorabile,
unica macchia di colore – arancione.
Giallo. E blu – in mezzo al grigio metallico di sterpi ed
arbusti ormai secchi.
In
certi momenti era stata una presenza labile quanto un soffio di vento,
degna a malapena di un impercettibile ed inconscio sussulto; in altri,
invece, aveva tremato sino a causargli dei veri e propri terremoti
interiori.
Come
quando, nel ritrovarselo dinanzi dopo tre lunghissimi anni, l’impulso
di toccare quel corpo decisamente più interessante
rispetto al marmocchio che ricordava aveva frenato la sua katana per
un secondo di troppo; oppure come sulla strada di ritorno dal Paese
del Ferro, ove Sasuke aveva dovuto appellarsi a tutto il proprio
disgusto affinché le parole del maledetto Uzumaki non gli lasciassero
solchi sul volto di neve.
«Quel
giorno,
mi caricherò del fardello del tuo odio e morirò insieme a te».
Adesso,
all’indomani
di un conflitto vinto insieme a lui, il fatidico giorno era finalmente arrivato.
Ma
quello appena sorto non sarebbe stato il suo ultimo mattino,
nossignore: la ragione della propria esistenza gli era ormai chiara ed
aveva percorso davvero troppa strada per permettersi di sbagliare
ancora.
Sarebbe
giunto
esattamente dove Madara, Obito e persino Itachi avevano fallito
– quest’ultimo, per un
soffio che mi somiglia – e, a quel punto, ogni cosa avrebbe
infine trovato l’equilibrio che il mondo Ninja cercava da millenni.
Niente
più Nazioni messe a ferro e fuoco, battaglie, congiure e tradimenti;
niente più lotte fratricide, famiglie distrutte, orfani.
Sotto
il suo nuovo ordine nessun bambino si sarebbe mai trovato a non
conoscere il nome dei propri genitori o a portare sulla schiena il
simbolo di un clan fattosi cenere nell’arco di una notte.
Non
ci saranno altri Naruto, né altri Sasuke.
Ogni
solitudine
esistente sarebbe scomparsa, assorbita da quella più grande di tutte:
la sua.
Perché
questo
si avverasse doveva recidere l’ultimo legame rimastogli, a costo di
affogarlo nel sangue; solo ricoprendo di ghiaccio anche ciò che gli
stava annidato dentro avrebbe avuto abbastanza spazio per raccogliere
su di sé il peso di tutto l’odio del mondo.
Sasuke
si mise in attesa, respirando a pieni polmoni la leggera brezza
proveniente da est: la Valle della Fine era rimasta perfettamente
uguale a quella che rammentava.
La
cascata frusciante, le foreste ad estendersi fino alla linea
dell’orizzonte, le statue di quegli eroi leggendari che, nel
frattempo, aveva conosciuto e superato: tutto come allora – ma
la conclusione non sarà la stessa.
Non
appena l’avversario comparve nel raggio del suo campo visivo, la cosa iniziò a vibrargli nel petto con violenza imprevista.
Naruto
si posizionò sulla sommità dell’effige di Hashirama Senju, tenendogli
lo sguardo puntato addosso; nonostante vi fosse impressa un’ombra di
ironia, il suo viso appariva segnato da una stanchezza che neppure la
guerra è in grado di generare.
Ah,
Naruto: l’unico che l’avesse mai capito davvero e, paradossalmente, il
solo a essersi sempre frapposto con cieca determinazione fra lui e la
sua inevitabile discesa nel buio, manco ne andasse della propria
sopravvivenza.
«Perché
siamo
amici».
Naruto,
che era ancora arancione, giallo e blu e non aveva smesso di ridere
in maniera sguaiata neanche di fronte all’orrore; che, in fondo, era
rimasto un ingenuo, convinto di poter raddrizzare qualunque torto con
l’amore.
L’idiota
non riusciva a concepire che non basta uno stupido abbraccio a
cambiare un destino già scritto: quello di Sasuke scorreva nelle vene
degli Uchiha da ben prima della sua nascita, e non era rimasto che lui
a poterne invertire il corso.
Dinanzi
al dovere è necessario che l’amore soccomba: la vanità del sacrificio
di suo fratello ne costituiva l’esempio più lampante.
«Qualunque
cosa
tu faccia, io ti amerò sempre».
Itachi
era stato ucciso dal troppo affetto nei suoi riguardi, ma lui non
sarebbe caduto nel medesimo errore, non più; non avrebbe lasciato che
i sentimenti per Naruto gli impedissero di fare ciò che doveva.
«Il
tuo, Naruto, sarà l’ultimo sangue che verserò».
Sì,
l’ultimo. Perché poi, dentro di me, ci sarà solo inverno.
***
Quando
Sasuke
aprì gli occhi per la seconda volta, la notte stava mutando in un’alba
dai contorni rosati; la tenue, delicata luce del giorno nascente
avrebbe rischiarato il buio dell’ora più nera a poco a poco, sino a
dissolverlo del tutto.
Nonostante
si
fosse a metà ottobre, l’aria aveva un vago sapore di nascita: come nel
momento in cui, all’improvviso, si ha la chiara percezione che
l’inverno ha finalmente ceduto il posto alla primavera.
Un
suono a lui familiare lo strappò dal proprio torpore, costringendolo a
voltare la testa di lato; nel guardare Naruto profondamente
addormentato al suo fianco, non poté trattenersi dal sogghignare.
In
condizioni simili solo quest’imbecille poteva essere in grado di
mettersi a russare.
Ai
tempi del team 7 non c’era stata missione in cui non avesse insultato
Uzumaki per quel fastidioso, ripetitivo ronfare che gli impediva di
prendere sonno; adesso, invece, il medesimo rumore gli faceva venire
una gran voglia di ridere.
Sapere
che, qualsiasi cosa fosse successa, certi aspetti di Naruto non
sarebbero mai cambiati era un po’ come tornare in un luogo in cui si è
stati felici e avere la certezza di trovarlo immutato.
Perché
Naruto
sprigionava il calore della cucina all’ora di cena, quando la sua
famiglia ancora si riuniva intorno al medesimo tavolo, e riluceva
dello stesso sfolgorio di stelle che aveva illuminato lui ed Itachi in
quella notte passata sul pavimento della veranda.
Perché
Naruto
era giallo, arancione e blu, rideva sguaiatamente, amava tanto da far
paura e, per Sasuke, voleva dire casa:
una casa dalle mura di pietra e gli interni in legno, accogliente e
solida come una promessa mantenuta.
Funzionava
così
con lui: quando si metteva in testa di raggiungere un obiettivo,
potevate star certi che, prima o poi, ce l’avrebbe fatta.
Se
aveva deciso di sedimentarvisi nel cuore, dunque, non rimaneva altra
scelta che fidarsi e lasciarlo prosperare; trincerandosi nella propria
solitudine Sasuke aveva soltanto rinnegato la parte migliore di se
stesso, con l’unico risultato di paralizzare in uno strato di ghiaccio
ciò che di buono sarebbe potuto diventare.
Ma
forse, per il disgelo, non era ancora troppo tardi.
Forse.
Note
dell’autore
Siete
arrivati sino in fondo? Bravi!
Come
spero sia facilmente intuibile, la narrazione si svolge in due momenti
differenti: il primo è ambientato negli attimi antecedenti lo scontro
con Naruto alla Valle dell’Epilogo, mentre l’altro ha luogo dopo lo
stesso, allorquando Sasuke riprende coscienza per la seconda volta.
Pur
avendo inserito l’avvertimento “Shōnen'ai”, specifico che la natura del
rapporto fra Naruto e Sasuke è volutamente lasciata ambigua – come già
avviene a livello canonico, a mio modesto avviso. Io preferisco leggerci
del sentimentale, ma nulla vieta al lettore di interpretarlo secondo i
suoi gusti.
Questa
sorta di “flusso di coscienza” è inframmezzata da ricordi di dialoghi
tratti direttamente dall’anime; nello specifico:
-
«Il fatto è che, dentro di te, non provi abbastanza odio».
La
frase è pronunciata da Itachi nell’episodio 85 (Questione tra
fratelli) della terza stagione di Naruto;
-
«Quel giorno, mi caricherò del fardello del tuo odio e morirò insieme
a te».
Frammento
del dialogo svoltosi fra Naruto e Sasuke nell’episodio 216 (Ninja
d'élite) della decima stagione di Naruto Shippuden;
-
«Qualunque cosa tu faccia, io ti amerò sempre».
Altra
perla di Itachi, tratta dall’episodio 339 (Ti amerò sempre) della
sedicesima stagione di Naruto Shippuden.
-
«Il tuo, Naruto, sarà l’ultimo sangue che verserò».
Battuta
di Sasuke presa dall’episodio 476 (L’ultima battaglia), dal quale
è scaturita l’intera storia.
Mi
pare che non ci sia altro da aggiungere; spero che abbiate apprezzato
questo breve viaggio nell’interiorità di Sasuke, e ringrazio in anticipo
chi sarà così gentile da lasciare un commento – se qualcuno ci sarà.
Auguro buona
fortuna a tutti i partecipanti al contest, porgendo i miei complimenti
a Juriaka per l’iniziativa!
Campagna
di Promozione Sociale - Messaggio No Profit:
Dona l’8‰ del tuo tempo alla
causa pro recensioni. Farai felice milioni di scrittori.
(Chiunque voglia aderire al messaggio,
può copia-incollarlo dove meglio crede)
(© elyxyz)
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